Carceri, Germania batte Italia in civiltà ed umanità. Le testimonianze di due detenuti


Carcere-634x396La scorsa settimana nella nostra redazione in carcere ci è arrivata una lettera di un italiano detenuto in Germania: la proponiamo ai lettori mettendola a confronto con la testimonianza di un detenuto, che qui in Italia fa i salti mortali per suddividere i dieci minuti di telefonata a settimana consentiti fra le quattro figlie, i nipoti e la sua anziana madre.

In carcere in Germania: sentire tutti i giorni la famiglia al telefono ti toglie tanta ansia

Cari amici di Ristretti Orizzonti, mi chiamo Giuseppe P., e sono detenuto qui in Germania nella città di Lubeck. Grazie a una sociologa del mio carcere, ogni tanto ricevo il vostro giornale e mi fa molto piacere.

E mi ha fatto particolare piacere leggere la battaglia che state facendo con lo Stato italiano per avere qualche ora in più con figli e famiglia, anche se sarà difficile che approvino la proposta di legge che voi sostenete. Tutto quello che ho letto nel vostro giornale, nelle vostre proposte, come le telefonate libere, qui in Germania già esiste da molto tempo. Io qui per esempio ho quattro colloqui di un’ora al mese e due lunghe visite al mese con tutta la famiglia, dalle ore 10 alle ore 18, in una bella casa arredata di tutto. Per chi riceve la famiglia con bambini c’è una camera piena di giocattoli. Puoi cucinare di persona oppure paghi due euro al carcere e ti danno loro il buffet per tutto il giorno. Credetemi è bellissimo tutto questo: è come passare un giorno a casa in famiglia. Qui il 99% dei detenuti vive in cella da solo e qui il carcere autorizza a comprare la televisione, il frigorifero piccolo, l’impianto stereo, il lettore dvd, la play station 2. Sapete cosa significa tutto questo? Che eviti molta ansia e nervosismo e non succede come in Italia, dove ti buttano in cella con tre o più persone. In più qui esiste la regola che quando sei definitivo ti danno la scheda telefonica con numero e pin che puoi utilizzare tutti i giorni e chiamare dove vuoi: si intende, le schede sono ricaricabili a tuo carico, è un sistema che qui esiste da molto tempo e credetemi significa molto, significa sentire tutti i giorni la famiglia al telefono. Anche questo toglie stress e non come in Italia con dieci minuti alla settimana, aspettando la fila e se riesci anche a chiamare, prima di ottenere l’autorizzazione a telefonare devi presentare la fattura di casa o del cellulare, chi è l’intestatario, e deve essere solo un famigliare. Io da qui posso chiamare tutti dove e quando voglio.

Qui quasi l’80% dei detenuti ogni giorno va al lavoro, compreso me, e anche questo è fantastico perché la giornata passa in fretta fuori dalla cella. Non devi preoccuparti di mantenerti in carcere e questo sarebbe molto importante, soprattutto in questo momento che in Italia si vive una crisi enorme. Qui funziona così: una parte dello stipendio la spendo e l’altra parte la metto a deposito risparmio per quando esco e anche questo è molto intelligente. Poi qui non porti abiti privati, ma tutto quello che il carcere passa dalla a alla z per quanto riguarda il vestiario. Inoltre qui tutto il vestiario è marcato con una etichetta, compresi calzini e intimo. Ogni settimana si portano i vestiti a lavare e torna tutto pulito e anche questo è bellissimo perché la famiglia fuori risparmia lavoro e soldi.

Qui i colloqui si svolgono in una stanza molto grande e ci sono anche macchine automatiche di caffè, cioccolato, acqua, coca cola. Poi anche nella sezione c’è una stanza dove è montata una cucina completa, e ogni giorno i detenuti cucinano compreso io, in più c’è la stanza dello sport che è molto grande e ci vanno tutti. Io concludo questa lettera con la speranza che quello che esiste in altre carceri d’Europa arriverà presto in Italia, anche se per me è un sogno lontano. Io vi saluto e vi abbraccio con molta stima e vi auguro un buon successo per i progetti nelle carceri italiane.

Giuseppe P.

In carcere in Italia: crescere i figli in dieci minuti di telefonata a settimana

Voglio raccontare come mantengo il rapporto con le mie quattro figlie, tre delle quali sono sposate, con dieci minuti di telefonata alla settimana.

Ogni sabato telefono a una di loro, ognuna abita per conto suo, ed in regioni diverse, significa che posso telefonare una volta al mese a ogni figlia.

Nessuno può capire quanto è difficile mantenere il rapporto familiare con dieci minuti di telefonata a settimana. Se a questo si aggiunge il fatto che la mia anziana madre è gravemente ammalata, e che abita in Belgio, per avere sue notizie sono obbligato a togliere un po’ d’amore a una delle mie figlie, perché anche le mamme hanno diritto di sentire i propri figli. Sicuramente mia figlia più piccola mi farà un rimprovero, la sua giovane età non la porta a capire che devo avere notizie anche di sua nonna. Le mie figlie tante volte mi rimproverano che le penso poco, e mi dicono: “Per noi non trovi mai tempo!”. Qualche volta loro dimenticano che ho dieci minuti di telefonata a settimana. Purtroppo hanno la loro ragione, hanno bisogno di sentire la voce del papà, non chiedono tanto, chiederebbero un po’ di mia presenza in più, hanno vissuto e vivono il fatto che non ci sono mai stato, prima per il tanto lavoro e poi per la mia detenzione, e sanno pure che non mi potranno avere mai. La mia condanna è all’ergastolo. L’unico amore che posso trasmettere sono quei miseri 10 minuti di telefonata a settimana. Tante volte mi sento rimproverato da tutti, anche mia moglie l’ha fatto. Pure i miei fratelli mi dicono: “Noi, non trovi mai tempo per chiamarci”. Purtroppo hanno ragione, io sono il colpevole dei miei reati, per questo sto pagando, e devo sottostare a certe regole dettate da chi, nelle Istituzioni, forse non ha calcolato gli effetti disastrosi che subiscono le famiglie. Mia figlia Rita mi dice: “Papà non sei solo tu il colpevole, lo siamo anche noi per la giustizia, noi paghiamo più di voi che avete commesso il reato, noi siamo più umiliati di voi, basta sentirsi dire dalle persone con disprezzo che sei la figlia di un carcerato!”. Sempre Rita in una lettera mi scriveva: “Papà, tu sei una persona viva, ma è come se non lo fossi, è brutto da dire ma se avessi avuto un papà morto potevo recarmi davanti alla tua tomba quando volevo, ma sapere che sei vivo e non poter venire quando vogliamo è un dolore grande!”. Questa è la più grande tortura, la condanna all’ergastolo non la sento più, ma queste parole delle mie figlie mi uccidono tutti i giorni. Ogni anno la più piccola viene ad un unico colloquio, che è di sei ore, le stesse che uno normalmente potrebbe fare distribuite nel mese, ma non è semplice arrivare dal Belgio a Padova. E poi a causa del sovraffollamento delle famiglie che vengono al colloquio, non è facile che si trovi il posto per fare tutte le sei ore e allora va a finire che ne fai tre o quattro, a seconda delle richieste che vengono presentate all’ingresso del carcere, dove stanno sempre tante persone ad aspettare all’aperto, senza grandi ripari e con le intemperie che ci possono essere. Attendi un anno per vedere uno dei tuoi figli e per poche, miserissime ore. Se le utilizzasse tutte insieme, un detenuto può vedere i propri familiari per un totale di tre giorni all’anno. Che cosa riesci a dirti, soprattutto considerando il fatto che devi condividere la saletta colloqui con altre 20, 30 persone? Bambini che giocano, che gridano, sono stanchi del viaggio. Tante volte mia figlia più piccola mi racconta come va a scuola, io vorrei capire come sta crescendo, ma ecco che ti senti chiamare dall’agente che ti dice: “Il colloquio è finito!”. Devi aspettare il prossimo colloquio per sapere qualcosina in più della loro vita, è veramente dura mantenere il rapporto con la famiglia. Anche per questa situazione tanti detenuti, e molti anche prima che finisca la loro pena, si ritrovano soli.

Io aspetto sempre il sabato per telefonare, e attendo con la paura di ricevere notizie negative. Questo mi riporta ad una esperienza che mi è successa. Un giorno chiamo mia mamma e sento subito un tono di voce angosciato, mi dice: “Tua figlia ha avuto un incidente, è in ospedale!”. Cerco di saperne di più, ma i dieci minuti di telefonata finiscono subito, cade la linea; sapevo che dovevo aspettare il prossimo sabato per avere ulteriori notizie, ma ero disperato, ho chiamato gli agenti, ho spiegato la situazione e ho chiesto se potevo anticipare la telefonata del sabato successivo. La risposta è stata che non era possibile! Ero come impazzito, non riuscivo più a dormire, volevo notizie di come stava mia figlia, ma ho dovuto aspettare una settimana per avere altre informazioni. Forse mia figlia ha ragione nel dire che le famiglie sono più condannate dei loro parenti condannati!

Biagio Campailla

Il Mattino di Padova, 16 marzo 2015

Giustizia: ricorsi a Strasburgo in calo, tra settembre a dicembre pendenze ridotte di 7mila


cedu strasburgoL’Italia continua a pesare sul carico di lavoro della Corte europea dei diritti dell’uomo ma, negli ultimi mesi, la situazione inizia a migliorare. Nel 2014, come risulta dalla relazione annuale della Corte dei diritti dell’uomo presentata ieri a Strasburgo, Roma mantiene il secondo posto per numero di ricorsi pendenti dinanzi a una formazione giurisdizionale: sono ben 10.087 i casi attesa di una decisione (14,4% del totale).

Solo l’Ucraina, con 13.693 casi (19,5%), supera l’Italia che, però, da settembre a dicembre è riuscita a migliorare la propria situazione passando da 17mila ricorsi pendenti a 10mila, grazie soprattutto alle modifiche introdotte dopo la sentenza Torreggiani sul sovraffollamento carcerario e alla decisione della Corte nel caso Stella contro Italia, con la quale è stato espresso un giudizio positivo sulla misure adottate dopo la Torreggiani.

Nel complesso, il 2014 è da ricordare come un anno positivo per Strasburgo che diminuisce costantemente il suo arretrato sia per la piena operatività del Protocollo n. 14, sia per le modifiche apportate al regolamento di procedura che obbligano i ricorrenti al rispetto di requisiti formali più rigorosi. In totale, sono stati 56.250 i ricorsi attribuiti al giurisdizionale, con una diminuzione del 15% rispetto al 2013 (65.800): è la prima volta dal 2003.

L’arretrato è diminuito del 30%, con 69.990 ricorsi pendenti a fronte dei 99.999 dell’anno precedente. Ben 83.675 sono stati dichiarati irricevibili nel 2014. La Corte europea – scrive il Presidente Dean Spielmann – si è pronunciata in 93.000 casi, con un incremento del livello di produttività del 6% rispetto al 2012.

Le sentenze depositate sono state 891 con una diminuzione del 3% rispetto all’anno scorso (916). Targate Italia, 44 sentenze: 39 violazioni (erano 32 nel 2013), 2 assoluzioni e tre sentenze in materia di equa soddisfazione. In 17 casi la condanna ha riguardato l’articolo 6 della Convenzione in materia di equo processo e in 16 il diritto di proprietà.

Nel 2014 superano l’Italia, la Russia con 122 condanne, la Romania (74), la Turchia (94), la Grecia (50), l’Ungheria con 49, l’Ucraina a pari merito con 39. Dal 1959 ad oggi l’Italia è stata destinataria di 2.512 sentenze di cui 1.760 condanne, al secondo posto dopo la Turchia a quota 2.733. Tra le pronunce “italiane” più significative del 2014, la sentenza Grande Stevens del 4 marzo 2014 sul ne bis in idem e la prima pronuncia della Corte europea relativa alla violazione del diritto all’equo processo per il mancato rinvio pregiudiziale a Lussemburgo (Dhahbi).

Marina Castellaneta

Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2015

 

Pare proprio che sia impossibile per l’Italia adeguarsi ai principi europei e di civiltà


cella detenuti 1….. in materia di trattamento da riservare alle persone arrestate o fermate dalla polizia. A suscitare allarme non ci sono soltanto le ricorrenti cronache giudiziarie relative a processi contro agenti accusati di avere provocato la morte di qualche giovane. Ci sono anche le sentenze delle Corti internazionali a ricordarci la situazione. Nel giro di una settimana, infatti, l’Italia ha riportato due condanne.

Entrambe dinanzi alla Corte europea dei diritti umani: una per i maltrattamenti inflitti dalle forze dell’ordine a una persona in stato di arresto (sentenza 24 giugno 2014, Alberti contro Italia), e un’altra, otto giorni dopo, per i maltrattamenti a molti detenuti nel carcere di Sassari (sentenza Saba contro Italia).

Non si tratta di sentenze che stabiliscono nuovi principi di diritto. Entrambe costituiscono semplici conferme della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3 della Convenzione). Esse meritano tuttavia attenzione perché ricordano, una volta ancora, che in Italia le violenze fisiche e morali perpetrate dalle forze dell’ordine sulle persone in Stato di privazione della libertà personale rimangono prive di adeguate sanzioni. Il caso Saba, in particolare, è esemplare.

I fatti risalgono all’aprile del 2000, quando alcuni detenuti del carcere di Sassari denunciarono le violenze di ogni genere subite da parte della polizia penitenziaria in occasione di una perquisizione della struttura (agenti di altri stabilimenti vennero inviati a Sassari per rafforzare la guarnigione locale).

Dopo vari tentativi di insabbiamento o di minimizzazione da parte di alcune pubbliche autorità, grazie all’opera di un coraggioso pubblico ministero, Mariano Brianda, si aprirono le indagini che portarono alla richiesta di rinvio a giudizio per novanta persone tra agenti ed altri membri dell’amministrazione penitenziaria in relazione ai delitti di violenza privata, lesioni personali aggravate ed abuso d’ufficio, commessi nei confronti di un centinaio di detenuti.

Dei sessantuno imputati che scelsero il rito abbreviato solo dodici furono condannati, con pene da quattro mesi a un anno e mezzo di reclusione, tutte sospese, per i delitti di violenza privata aggravata e abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 del codice penale). In appello le condanne divennero definitive per nove di loro, ad alcuni dei quali vennero altresì applicate lievi sanzioni disciplinari.

Quanto agli altri ventinove imputati, soltanto in nove vennero rinviati a giudizio, mentre per venti fu pronunciata sentenza di non luogo a procedere. Pur ritenendo accertato che si fosse verificato un episodio violenza inumana e gratuita, nel corso del quale i detenuti erano stati costretti a denudarsi, insultati, minacciati e in taluni casi anche picchiati (sono queste le parole dei giudici), il Tribunale prosciolse tutti gli imputati: due di loro per carenza di prove, gli altri sette per sopravvenuta prescrizione dei reati.

Oltre al rammarico per la gravità dei fatti e per la cattiva fama che il nostro paese si va costruendo a livello internazionale, ciò che colpisce è la modestia delle conseguenze che subiscono coloro che quella cattiva fama determinano.

La prescrizione è la regina delle ciambelle di salvataggio. Ma l’assenza nel nostro ordinamento del reato di tortura (la cui introduzione, prevista da convenzioni sottoscritte dall’Italia, è stata più volte sollecitata anche da organismi internazionali), determina per coloro che sono riconosciuti colpevoli l’inflizione di pene modestissime, di regola sospese. E le misure disciplinari che conseguono a condanne simboliche sono altrettanto simboliche. Ciò induce a pensare che siano forti in molti ambienti i sentimenti di solidarietà verso coloro che violano le regole a danno delle persone detenute. Infatti, sono trascorsi più di dieci anni dai fatti di Sassari, ma la situazione, anche normativa, non si è modificata.

Giovanni Palombarini (Magistratura Democratica)

La Provincia Pavese, 26 luglio 2014

Carceri, le Nazioni Unite richiamano l’Italia. Pannella in sciopero della sete


Nazioni Unite OnuL’Italia dovrebbe fare uno sforzo per “eliminare l’eccessivo ricorso alla detenzione e proteggere i diritti dei migranti”. A chiedere alle autorità italiane “misure straordinarie” sul tema è un comunicato del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria reso noto al termine di una visita di tre giorni nel paese (7-9 luglio).

“Quando gli standard minimi non possono essere altrimenti rispettati, il rimedio è la scarcerazione”, ha detto Mads Andenas, Presidente del Gruppo. Gli esperti ricordano le raccomandazioni formulate dal Presidente Giorgio Napolitano nel 2013, incluse le proposte in materia di amnistia e indulto, e le considerano “quanto mai urgenti per garantire la conformità al diritto internazionale”.

Per l’Onu le recenti riforme tese a ridurre la durata delle pene detentive, il sovraffollamento carcerario e il ricorso alla custodia cautelare sono positive, ma sussistono preoccupazioni per l’elevato numero di detenuti in regime di custodia cautelare ed il ricorso sproporzionato alla custodia cautelare per gli stranieri e i Rom, minori compresi.

L’Italia – spiega il gruppo dell’Onu – non ha una politica generale di detenzione obbligatoria per tutti i richiedenti asilo e migranti irregolari, ma restiamo preoccupati per la durata della detenzione amministrativa e per le condizioni detentive nei Centri di identificazione ed espulsione”.

Gli esperti si dicono inoltre preoccupati per i resoconti dei rimpatri sommari e per il fatto che “il regime detentivo speciale previsto dall’articolo 41 bis” per i mafiosi non è ancora stato allineato agli obblighi internazionali in materia di diritti umani. Composto da cinque esperti, il gruppo di lavoro dovrebbe presentare un rapporto al Consiglio Onu dei diritti umani nel settembre 2015.

Monica Ricci Sargentini

Corriere della Sera, 12 luglio 2014

http://www.radioradicale.it/l-onu-all-italia-carceri-troppo-affollate-trovate-alternative-alla-detenzione

Palombarini (Magistratura Democratica) : Le Carceri e le colpe dell’Italia. Occorre approvare il reato di Tortura


Carceri-San-Vittore-by-Inside-CarceriPare proprio che sia impossibile per l’Italia adeguarsi ai principi europei (e della civiltà) in materia di trattamento da riservare alle persone arrestate o fermate dalla polizia. A suscitare allarme non ci sono soltanto le ricorrenti cronache giudiziarie relative a processi contro agenti accusati di avere provocato la morte di qualche giovane.

Ci sono anche le sentenze delle Corti internazionali a ricordarci la situazione. Nel giro di una settimana, infatti, l’Italia ha riportato due condanne dinanzi alla Corte europea dei diritti umani, una per i maltrattamenti inflitti dalle forze dell’ordine a una persona in stato di arresto (sentenza 24 giugno 2014, Alberti contro Italia), e un’altra, otto giorni dopo, per i maltrattamenti a molti detenuti nel carcere di Sassari (sentenza Saba contro Italia).

Non si tratta di sentenze che stabiliscono nuovi principi di diritto. Entrambe costituiscono semplici conferme della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3 della Convenzione). Esse meritano tuttavia attenzione perché ricordano, una volta ancora, che in Italia le violenze fisiche e morali perpetrate dalle forze dell’ordine sulle persone in Stato di privazione della libertà personale rimangono prive di adeguate sanzioni. Il caso Saba, in particolare, è esemplare.

I fatti risalgono all’aprile del 2000, quando alcuni detenuti del carcere di Sassari denunciarono le violenze di ogni genere subite da parte della polizia penitenziaria in occasione di una perquisizione della struttura (agenti di altri stabilimenti vennero inviati a Sassari per rafforzare la guarnigione locale).

Dopo vari tentativi di insabbiamento o di minimizzazione da parte di alcune pubbliche autorità, grazie all’opera di un coraggioso pubblico ministero, Mariano Brianda, si aprirono le indagini che portarono alla richiesta di rinvio a giudizio per novanta persone tra agenti ed altri membri dell’amministrazione penitenziaria in relazione ai delitti di violenza privata, lesioni personali aggravate ed abuso d’ufficio, commessi nei confronti di un centinaio di detenuti.

Dei sessantuno imputati che scelsero il rito abbreviato solo dodici furono condannati, con pene da quattro mesi a un anno e mezzo di reclusione, tutte sospese, per i delitti di violenza privata aggravata e abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 del codice penale). In appello le condanne divennero definitive per nove di loro, ad alcuni dei quali vennero altresì applicate lievi sanzioni disciplinari.

Quanto agli altri ventinove imputati, soltanto in nove vennero rinviati a giudizio, mentre per venti fu pronunciata sentenza di non luogo a procedere. Pur ritenendo accertato che si fosse verificato un episodio violenza inumana e gratuita, nel corso del quale i detenuti erano stati costretti a denudarsi, insultati, minacciati e in taluni casi anche picchiati (sono queste le parole dei giudici), il Tribunale prosciolse tutti gli imputati: due di loro per carenza di prove, gli altri sette per sopravvenuta prescrizione dei reati.

Oltre al rammarico per la gravità dei fatti e per la cattiva fama che il nostro paese si va costruendo a livello internazionale, ciò che colpisce è la modestia delle conseguenze che subiscono coloro che quella cattiva fama determinano. La prescrizione è la regina delle ciambelle di salvataggio.

Ma l’assenza nel nostro ordinamento del reato di tortura (la cui introduzione, prevista da convenzioni sottoscritte dall’Italia, è stata più volte sollecitata anche da organismi internazionali), determina per coloro che sono riconosciuti colpevoli l’inflizione di pene modestissime, di regola sospese.

E le misure disciplinari che conseguono a condanne simboliche sono altrettanto simboliche. Ciò induce a pensare che siano forti in molti ambienti i sentimenti di solidarietà verso coloro che violano le regole a danno delle persone detenute. Infatti, sono trascorsi più di dieci anni dai fatti di Sassari, ma la situazione, anche normativa, non si è modificata.

Giovanni Palombarini (Magistratura Democratica)

Messaggero Veneto, 16 luglio 2014

L’Onu all’Italia “carceri troppo affollate? trovate alternative alla detenzione…”


Palazzo di Vetro, Sede delle Nazioni UniteL’Italia dovrebbe fare uno sforzo per “eliminare l’eccessivo ricorso alla detenzione e proteggere i diritti dei migranti”. A chiedere alle autorità italiane “misure straordinarie” sul tema è un comunicato del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria reso noto al termine di una visita di tre giorni nel paese (7-9 luglio).

“Quando gli standard minimi non possono essere altrimenti rispettati, il rimedio è la scarcerazione”, ha detto Mads Andenas, Presidente del Gruppo. Gli esperti ricordano le raccomandazioni formulate dal Presidente Giorgio Napolitano nel 2013, incluse le proposte in materia di amnistia e indulto, e le considerano “quanto mai urgenti per garantire la conformità al diritto internazionale”.

Per l’Onu le recenti riforme tese a ridurre la durata delle pene detentive, il sovraffollamento carcerario e il ricorso alla custodia cautelare sono positive, ma sussistono preoccupazioni per l’elevato numero di detenuti in regime di custodia cautelare ed il ricorso sproporzionato alla custodia cautelare per gli stranieri e i Rom, minori compresi.

L’Italia – spiega il gruppo dell’Onu – non ha una politica generale di detenzione obbligatoria per tutti i richiedenti asilo e migranti irregolari, ma restiamo preoccupati per la durata della detenzione amministrativa e per le condizioni detentive nei Centri di identificazione ed espulsione”.

Gli esperti si dicono inoltre preoccupati per i resoconti dei rimpatri sommari e per il fatto che “il regime detentivo speciale previsto dall’articolo 41 bis” per i mafiosi non è ancora stato allineato agli obblighi internazionali in materia di diritti umani. Composto da cinque esperti, il gruppo di lavoro dovrebbe presentare un rapporto al Consiglio Onu dei diritti umani nel settembre 2015.

Monica Ricci Sargentini

Corriere della Sera, 12 luglio 2014

– VEDI IL COMUNICATO DEL GRUPPO DI LAVORO ONU (PDF)

“Diritti garantiti o scarcerazioni…”, la richiesta dell’Onu all’Italia è chiarissima


ONUL’Onu invia in Italia un gruppo di osservatori sulla detenzione arbitraria. Andenas chiede a Roma misure straordinarie e si dice preoccupato per i Cie e i rimpatri forzati.

“Quando gli standard minimi non possono essere garantiti in altro modo il rimedio è la scarcerazione”. La frase, inequivocabile, compare alla quarta riga del comunicato emesso dal “Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria” dopo una visita in Italia effettuata dal 7 al 9 luglio per verificare lo stato delle carceri e dei Cie rispetto all’ultima loro ispezione, nel 2008.

Anche questa volta, come allora, gli inviati dell’Onu – che durante il loro viaggio hanno ascoltato oltre alle istituzioni anche l’associazione Antigone e Save the Children – al termine della visita hanno rivolto al governo italiano alcune richieste. In particolare ora si sono soffermati sulle “misure straordinarie” ancora da adottare, “come le misure alternative alla detenzione”, per “porre fine al sovraffollamento delle carceri e per proteggere i diritti dei migranti”.

Un giudizio, questo dell’Onu, evidentemente troppo severo per il Guardasigilli Andrea Orlando che ieri da Agrigento, dove ha fatto tappa per un convegno durante il suo tour siciliano, ha voluto smentire, seppur indirettamente, i delegati: “Senza troppo clamore siamo progressivamente usciti dalla situazione di sovraffollamento nelle carceri – ha detto il ministro – I dati di questi giorni ci dicono che il gap tra posti disponibili e detenuti attualmente è intorno ai sette-ottomila posti. Vuol dire che non c’è più un detenuto al di sotto dei tre metri quadri”.

Cosa di per sé vera, come ha riconosciuto la Corte di Strasburgo concedendo all’Italia un altro anno per risolvere i problemi strutturali della nostra Giustizia.

Secondo Orlando, “questo è avvenuto anche grazie a un’azione del Parlamento molto importante e al fatto che abbiamo iniziato a fare in modo più sistematico i rimpatri dei detenuti stranieri e al fatto che abbiamo ormai firmato 13-14 convenzioni con tutte le regioni per fare in modo che i detenuti tossicodipendenti possono scontare una parte della pena in comunità”.

Ma il risultato è stato ottenuto anche con il trasferimento in massa di detenuti in istituti (come quelli in Sardegna che avevano molti posti disponibili) distanti dalla residenza, come da tempo denuncia la segretaria di Radicali italiani, Rita Bernardini, in sciopero della fame dal primo luglio anche per difendere i diritti di Bernardo Provenzano, il boss mafioso che versa in gravissime condizioni di salute, incompatibili col regime di 41 bis a cui è sottoposto. Regime che secondo gli osservatori Onu “non è stato ancora reso conforme agli standard internazionali in materia di diritti umani”.

Il Gruppo di lavoro diretto dall’esperto di diritti umani Mads Andenas ha “accolto con favore le recenti riforme per ridurre la durata delle pene, il sovraffollamento nelle carceri e il ricorso alla custodia cautelare”. Giudicata positiva anche “la sentenza della Corte Costituzionale che ha abrogato le sanzioni indiscriminatamente elevate per i reati minori connessi alla droga, ristabilendo quella proporzionalità tra reato e pena prevista dal diritto internazionale. Lo stesso vale per le pene oggi meno sproporzionate per i recidivi”. E apprezzamenti pure per l'”abolizione della circostanza aggravante della immigrazione irregolare”.

“Tuttavia – si legge nel comunicato – c’è ancora preoccupazione per l’elevato numero di detenuti in attesa di giudizio, e resta la necessità di monitorare e contenere il ricorso sproporzionato alla custodia cautelare nel caso di cittadini stranieri e rom, anche minorenni”. Ma, come sottolinea lo stesso Gruppo dell’Onu, il Decreto legge 92 del 2014 voluto dal ministro Orlando stabilisce che la custodia cautelare non può essere più applicata nei casi in cui l’imputato rischia meno di tre anni di carcere. “Questo – ha commentato Andenas – limiterà il ricorso improprio alla custodia cautelare, usata come pena”. Secondo Orlando al testo di conversione in legge del decreto il Parlamento potrà arrivare “entro la pausa estiva”.

Andenas e i suoi colleghi, però, restano “seriamente preoccupati per la durata della detenzione amministrativa” degli immigrati, “per le condizioni di detenzione nei Cie” e per i “rimpatri sommari di individui, compresi in alcuni casi minori non accompagnati e adulti richiedenti asilo”. Prassi, queste, avvisa l’Onu, che “violano gli obblighi dell’Italia, derivanti dal diritto nazionale, europeo ed internazionale”.

Eleonora Martini

Il Manifesto, 13 luglio 2014

 

Carceri, “lavoro forzato” per 25 mila detenuti, l’Italia rischia la condanna da Strasburgo


cedu strasburgoDopo la proroga concessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sul sovraffollamento, potrebbe finire sul banco degli imputati il lavoro in carcere: sottopagato e in netto contrasto con la giurisprudenza europea. Sarebbe una nuova e imprevedibile sentenza “Torreggiani”.

Carceri italiane e amministrazione penitenziaria di nuovo al centro di un ciclone che potrebbe avere proporzioni e ricadute pari alla storica condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Torreggiani. Se per quest’ultima l’Italia ha ottenuto una proroga di un anno per migliorare le condizioni dei vita dei detenuti in carcere, la nuova possibile condanna riguarda il lavoro tra le mura dei penitenziari: sottopagato, legato a minimi di oltre 20 anni fa e in netto contrasto con la giurisprudenza europea.

A lanciare l’allarme è Emilio Santoro, docente di Teoria e storia del diritto dell’Università di Firenze, secondo cui le violazioni riguarderebbero praticamente tutti i detenuti che lavorano in carcere: circa il 40 per cento di essi, intorno a 25 mila persone. Numeri che fanno pensare ad una nuova Torreggiani, un rischio che potrebbe incrinare la fiducia della Corte nei confronti degli sforzi compiuti dall’amministrazione penitenziaria per far fronte al sovraffollamento carcerario. Retribuzioni ferme agli anni 90.

In carcere il lavoro viene pagato meno di quanto previsto dai contratti nazionali collettivi per le stesse mansioni svolte in libertà. “La retribuzione per il lavoro carcerario deve essere circa l’85 della retribuzione prevista dai contratti collettivi – spiega Santoro a Redattore sociale -, ma lo Stato italiano continua a fare il calcolo sulla retribuzione prevista dal contratto collettivo del 1993 e non l’ha mai più aggiornata. Quindi continua a pagare le retribuzioni che dava più di vent’anni fa”. Chi se ne accorge, tra i detenuti, spesso si appella alla giustizia ordinaria e il giudice del lavoro finisce per condannare lo Stato italiano a pagare la differenza della retribuzione calcolata sulla base dei dati aggiornati.

“L’Italia è già normalmente condannata dalla giustizia ordinaria – spiega Santoro – ma i ricorsi non sono tanti, anche perché il detenuto deve mostrare le buste paga che gli ha dato l’amministrazione penitenziaria che in genere pochissimi detenuti recuperano. Il processo poi è lungo e si recuperano solo pochi spiccioli”. Sul tema è intervenuta anche la Corte di Cassazione, aggiunge Santoro, per dire che non solo è illegittimo il riferimento al ’93, ma anche la riduzione a circa l’84 per cento.

Anno 2006, cambiano le regole. Se per circa 30 anni, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha considerato la possibilità che il lavoro in detenzione potesse anche non venir pagato, negli ultimi anni qualcosa si è mosso nella direzione opposta. “Il primo cambiamento è avvenuto nel 2006 – racconta Santoro -. È entrata in vigore la nuova versione delle regole minime europee per il trattamento dei detenuti che hanno cominciato a dire che il detenuto ha diritto alla retribuzione alla pari del lavoratore libero”.

Per far sì che anche la Corte europea cambiasse la propria giurisprudenza, però, sono stati necessari ancora altri anni. Fino al 2013. “Lo scorso anno, la Corte europea ha cambiato la propria giurisprudenza su questo punto – spiega Santoro – e ha affermato che il detenuto in esecuzione di pena deve essere pagato come il lavoratore libero.

Altrimenti è lavoro forzato. Quindi, non solo può condannare uno Stato a risarcire il detenuto, ma può condannarlo anche perché viola un diritto umano del detenuto a una pena che è sanzionatoria, esattamente come nel caso della Torreggiani”.

Infine: cosa rischia l’Italia. Finché si tratta di pochi euro per altrettante poche ore di lavoro da rimborsare, allo Stato italiano è sempre convenuto far finta di nulla e risarcire solo i detenuti che se ne accorgevano e chiedevano conto. Ora la vicenda rischia di complicarsi ulteriormente e di finire sul tavolo della Corte europea che potrebbe infliggere risarcimenti ben più consistenti. “Sono stato più volte al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a dire di adeguare le retribuzioni dal 93 al 2014 – racconta Santoro, ma mi hanno sempre risposto che preferiscono pagare quando ci sono i ricorsi perché non ci sono i soldi.

Se i ricorsi iniziano ad arrivare alla Corte europea dei diritti dell’uomo, però, c’è il risarcimento per la lesione della dignità il discorso cambia completamente: per il caso Torreggiani si contano tra i 25-26 euro al giorno, da aggiungere ai 3-4 euro l’ora del risarcimento per l’adeguamento della retribuzione”. Se ad oggi le richieste di risarcimento per la mancata piena retribuzione sono state facilmente ammortizzate, le cose potrebbero complicarsi in futuro.

“I detenuti lavorano a rotazione, a volte per un mese o due mesi l’anno e con orari di 20 ore settimanali – spiega Santoro. Per questo, le richieste di risarcimento erano minime, perché le ore di lavoro erano poche. Ma quando il risarcimento non è più dovuto alla sola differenza di retribuzione, ma è dovuta al fatto che si è lesa la dignità umana torniamo ai risarcimenti calcolati con la Torreggiani dove c’è la lesione della dignità umana”.

Pochi i ricorsi, ma potrebbero aumentare. Difficile fare una stima esatta di quanti siano stati ad oggi i ricorsi al giudice del lavoro. Secondo Santoro potrebbero essere circa un centinaio, ma spesso in carcere i numeri dei ricorsi crescono col crescere del passaparola tra i detenuti. Quel che è certo è che la nuova “Torreggiani” riguarderebbe tutti i detenuti che lavorano in carcere.

Ad oggi, però, non c’è stata ancora nessuna condanna da parte della Corte europea su questo tema, aggiunge Santoro, “perché il cambiamento è stato molto recente, iniziato nella seconda metà del 2013”. Due i casi presi in considerazione dalla Corte, senza alcuna condanna.

Il primo caso riguarda la Bulgaria, dove per la Corte europea i fatti risalivano a prima del 2006 per cui ha evitato la condanna. Il secondo caso, invece, riguarda l’Austria che ha scampato la condanna per via degli sconti di pena per il lavoro fatto in carcere dai detenuti. “Due sentenze poco conosciute perché non riguardano l’Italia – spiega Santoro, ma appena la cosa di diffonderà, inizierà il tam tam tra i detenuti italiani e tutti potranno presentare facilmente il ricorso. Dopotutto, è ancora più facile che dimostrare che vivi in meno di 3 metri quadrati in cella, perché porti la retribuzione che hai avuto”. Documentata, ironia della sorte, dalla stessa amministrazione penitenziaria.

Dire, 2 luglio 2014

Bernardini (Radicali) : I pestaggi nel carcere di Vicenza e la sorte di Dimitri Alberti


 Diritti umani. Che fine ha fatto l’uomo picchiato dai carabinieri, caso per il quale la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia?

Il manifesto è stato uno dei pochi giornali a dare la notizia dell’ennesima condanna che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha inflitto all’Italia per violazione dell’art. 3 Convenzione: “Trattamenti inumani e degradanti”. Alla vittima, Dimitri Alberti, la Cedu ha riconosciuto un risarcimento di 15.000 euro per danni fisici e morali causati da un pestaggio dei Carabinieri al momento del suo arresto avvenuto nel marzo del 2010.

I magistrati avevano creduto – come capita quasi sempre – alla versione delle Forze dell’Ordine: le costole rotte e l’ematoma al testicolo sinistro, Dimitri se li era procurati da solo nel corso della sua “resistenza ai pubblici ufficiali” che gli stavano stringendo i polsi dentro le manette.

Ma dove si trova ora Dimitri?

Dopo quell’arresto, Dimitri fu ristretto nel carcere di Verona; poi era andato a finire in una comunità ma da qui, per il sopraggiungere di un definitivo, era stato portato al carcere di Vicenza.

Ricordo la visita ispettiva che da deputata radicale feci proprio in quel carcere, accompagnata dai radicali Maria Grazia Lucchiari e Francesco Donadello. Ci arrivammo a sorpresa in una domenica di novembre: nessuno se lo aspettava. Il comandante e il direttore non c’erano e ci raggiunsero già a ispezione in corso. L’istituto versava in condizioni pietose, tutte meticolosamente riportate in un interpellanza parlamentare. L’atmosfera era di paura e i detenuti, chiusi nelle loro piccole celle, sembravano intontiti e rassegnati a quello stato di prostrazione. Fino a che uno di loro, un nigeriano, ebbe il coraggio di parlare e, come un fiume in piena, raccontò delle violenze commesse da una consolidata squadretta di agenti nei confronti dei detenuti.

Dopo O.P.M. – queste le iniziali dell’uomo nigeriano che, nonostante le condizioni vessatorie, si stava per laureare in carcere – altri, anche italiani, confermarono i pestaggi. Dopo quella visita e dopo l’interpellanza radicale, ci fu un’approfondita inchiesta interna del Dott. Francesco Cascini del Dap, la situazione migliorò e la magistratura aprì finalmente un’indagine (altre denunce dei detenuti degli anni passati erano state lasciate cadere nel vuoto) che portò sul banco degli imputati 15 agenti di polizia penitenziaria.

Ma, tornando a Dimitri, oggi dov’è? È ancora in carcere? Pestato dai Carabinieri, come accertato dalla Cedu, ma anche in carcere dagli agenti?

Dimitri è ricoverato in stato neurovegetativo presso il Centro riabilitativo veronese di Marzana: ci è finito, dopo un’ischemia sopraggiunta ad un attacco epilettico che lo ha colto nell’agosto del 2012 mentre era detenuto al carcere di Vicenza. Che ci siano di mezzo anche i pestaggi denunciati da O.P.M.?

Per come si sono svolti i fatti in passato, c’è da tenere gli occhi bene aperti. Il fatto che in Italia non sia stato ancora introdotto il reato di tortura la dice lunga sulle omertà del sistema che, intanto, è riuscito ad ottenere che noi radicali non si sia più parlamento, con la conseguenza che le lunghe visite ispettive “a sorpresa” negli istituti penitenziari – effettuate ai sensi dell’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario – si siano nella pratica interrotte.

Infine, una preoccupazione: sulla violazione dei Diritti Umani Fondamentali, l’osannato Presidente del Consiglio Matteo Renzi, detentore di primati ineguagliabili quanto a presenze in tv, il lugubre “verso” del passato non ha dimostrato la minima propensione a volerlo cambiare. Ecco perché riteniamo che questo sia il punto centrale e irrinunciabile dell’iniziativa e della politica radicale.

di Rita Bernardini (Segretaria nazionale di Radicali italiani)

Il Manifesto, 27 giugno 2014

Carceri : il testo della decisione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa


Consiglio d'Europa 2Il 5 giugno il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, organo competente per verificare l’esecuzione delle sentenze emesse dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, ha affermato che l’Italia sta rispettando le indicazione date nelle sentenza pilota “Torreggiani”. Di seguito il testo integrale della decisione.

I delegati:

Hanno apprezzato gli impegni presi dalle autorità per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario in Italia e i significativi risultati raggiunti in questo campo, attraverso le diverse misure strutturali adottate allo scopo di adempiere alla sentenza pilota, incluso un importante e continuo calo della popolazione carceraria e un aumento dello spazio di vita di 3 mq per detenuto.

Hanno apprezzato l’ulteriore previsione di un rimedio interno e affinché questa possa essere pienamente valutata…hanno invitato le autorità a fornire ulteriori informazioni sulla sua messa in atto, in particolare alla luce del monitoraggio che intraprenderanno in quest’ambito.

Hanno accolto con interesse l’informazione fornita sui passi compiuti per stabilire un rimedio compensatorio, anch’esso richiesto dalla sentenza pilota, attraverso un decreto legge che prevedrà la possibilità di una riduzione di pena per i detenuti che sono ancora ristretti e un risarcimento pecuniario per coloro che sono stati rilasciati.

Hanno altresì osservato che l’adozione di questo decreto legge è imminente e ha invitato le autorità a informare la Commissione non appena sia stato adottato.

Hanno deciso di riprendere l’esame non più tardi della riunione che si terrà nel giugno 2015 per una piena valutazione dei progressi fatti in base ad un piano d’azione aggiornato che dovrà essere fornito”.

traduzione a cura di Riccardo Arena, Direttore di Radio Carcere

Ristretti Orizzonti, 07 Giugno 2014