Leva (Pd) : “Piegare per forza il diritto penale alle logiche del consenso è quanto di più sbagliato ci possa essere”


On Danilo Leva Partito Democratico“Immaginare che la lotta alla corruzione si possa svolgere solo ed esclusivamente con un aumento delle pene ed un allungamento della prescrizione è una illusione. Può essere utile se un partito desidera che i sondaggi gli siano favorevoli, ma non serve a risolvere il problema della corruzione”. Danilo Leva, avvocato, parlamentare del Pd, già responsabile Giustizia del partito durante la segreteria Epifani, considera non tutte positive le iniziative di riforma della giustizia messe in campo dal governo di Matteo Renzi. “Con questi interventi non si va al cuore dei problemi e non li si affrontano per quelli che sono. L’impostazione di fondo è quella di rincorrere l’ opinione pubblica con soluzioni che, si è certi, ne incontrano il favore. Ma è sbagliato e sicuramente poco efficace per rendere davvero efficiente il sistema giudiziario: piegare per forza il diritto penale alle logiche del consenso è quanto di più sbagliato ci possa essere”.

I problemi, però, esistono davvero. E troppi processi finiscono con una prescrizione. Come va affrontato allora questo handicap, che giustamente desta anche proteste e rabbia, soprattutto quando sono in gioco inchieste che riguardano l’uso del denaro pubblico?

“Quando si parla di prescrizione ci vuole equilibrio. Non bisogna dimenticare che è un principio a garanzia del cittadino, il quale ha diritto a un processo dalla durata ragionevole. Allungare i termini della prescrizione a dismisura, come è stato fatto, non va bene. A causa del combinato disposto dell’aumento della pena e dell’aumento della prescrizione, più tutti i meccanismi di sospensione tra i diversi gradi di giudizio, si arriva, per alcune tipologia di reati, a oltre 15 anni. Si arriva al paradosso che un cittadino si può veder comminare una condanna dopo oltre15 anni. In uno stato di diritto come il nostro, con un sistema della pena improntato alla prevenzione e alla rieducazione, arrivare alla pena dopo così tanti anni, a chi è utile? E’ utile a far aumentare  un punto nei sondaggi, ma non  a costruire un sistema penale efficiente”.

Però il sistema penale va reso più efficiente, altrimenti non solo non funziona bene, ma troppe persone vengono per anni pubblicamente messe di fronte al paese come possibili rei, e poi o finiscono prosciolti o prescritti, o se sono colpevoli, patteggiano in tempi brevi pene che limitano il rischio di finire al fresco e scompaiono dalle inchieste.  

“Non ci sono scorciatoie: bisogna accorciare i tempi del processo, rendendo più efficiente la macchina della giustizia, e bisogna essere efficaci, con pena certa, che produca effetti, rimuovendo la differenza tra pena edittale, pena comminata e pena effettivamente eseguita. Oggi non c’è nulla di tutto questo. Qualche passo in avanti è stato fatto, naturalmente. Penso alla riforma della responsabilità civile e a quella della custodia cautelare. Ma rischiano di essere vanificati da questo continuo rincorrere la pancia degli italiani, invece di affrontare i problemi. Senza considerare le contraddizioni. Con una mano si aumentano le pene per il furto in appartamento e con l’altra si introduce l’istituto della tenuità del fatto, peraltro declinato in modo discutibile”.

Che i processi debbano essere più veloci è chiaro. Ma quali iniziative si devono prendere per ottenere sul serio questo risultato?

“Intanto dovremmo fare una riflessione  vera sulla fase delle indagini preliminari. Segnalo in proposito che oggi la maggior parte dei processi si prescrive nella fase delle indagini preliminari. Non è un fatto fisiologico. Quindi credo che sia necessario aprire una riflessione vera per capire ciò che accade. Per esempio, io penso che sarebbe necessario e utile introdurre alcuni termini di fase, relativi alle indagini preliminari, molto più stringenti anche rispetto a quelli che abbiamo oggi”.

I termini già esistono. Perché non funzionano?

“La verità è che, chiuse le indagini preliminari, il pm non ha l’obbligo di esercitare subito l’azione penale. Può farlo subito come due anni più tardi. Ecco. Questo per esempio è un meccanismo che rischia di trasformare l’obbligatorietà dell’azione penale in discrezionalità, che è ben altra cosa”.

E allora?

“E allora potremmo collegare la durata ragionevole del processo alla sospensione o meno dei termini di prescrizione tra il primo, il secondo grado e il terzo grado. Nel senso che i termini stessi si posso sospendere se il pm ha esercitato l’azione penale entro un tot di tempo, altrimenti non si può dar corso alla sospensione. D’altra parte, il processo non può trasformarsi né in un giudizio anticipato di colpevolezza, né tantomeno  una sorta di calvario che poi mortifica la dignità stessa del cittadino”.

Non sono proposte semplici da spiegare all’opinione pubblica…

“Quando si fanno le riforme bisogna capire quali obiettivi di fondo bisogna raggiungere, quale strada bisogna percorrere. Non è l’andare in sé l’obiettivo. Ma l’andare in una direzione. E secondo me la direzione è che bisogna costruire un sistema penale sicuramente efficiente e che torni a fare il suo mestiere. Anche dal punto di vista della prevenzione. Per esempio, i reati contro la Pubblica Amministrazione andrebbero perseguiti con determinazione, introducendo anche  strumenti investigativi che siano  forti, come quelli oggi in vigore per combattere i reati di mafia. Così combatti la corruzione, non con misure di propaganda….”

E le intercettazioni? Sono indispensabili per trovare le prove ma troppo spesso finiscono sui giornali anche conversazioni che non c’entrano con il reato da perseguire.

“Nell’ordinamento già esiste l’udienza stralcio. E le intercettazioni sono uno strumento indispensabile per le indagini quale mezzo di  ricerca delle prove. E’ uno strumento che da questo punto di vista non va assolutamente indebolito. Quel che si può e si dovrebbe fare è introdurre un sistema di responsabilità oggettive per la fuga di notizie. Beninteso, responsabilità di chi lascia fuggire le notizie, non certo del giornalista che utilizza le informazioni: lui fa solo il proprio mestiere. Tanto è vero che quando le notizie, come dire?, non devono uscire, non escono mai, quando invece fa comodo farle uscire escono sempre. Non possiamo prendercela con i giornalisti. Il tema riguarda la fonte. C’è già l’obbligo di non mettere nelle ordinanze le trascrizioni delle intercettazioni non pertinenti. Chi è che non lo rispetta? Perché non lo rispetta? Perché informazioni che non devono circolare circolano? La responsabilità è di chi lascia circolare quelle informazioni. Ma questi sono solo alcuni temi nell’ambito della riforma della giustizia. Per esempio: si può pensare a una riforma del Csm?”

Parliamo anche di struttura. Di attrezzature. Ce ne sono a sufficienza per rendere i processi più rapidi, è un problema di organizzazione o di mezzi?

“Mi limito a ribadire che riformare la giustizia senza soldi e senza investimenti è impossibile. Se un cancelliere lavora fino alle due di pomeriggio e non anche di pomeriggio perché non ci sono i soldi per gli straordinari, è inutile pensare al processo veloce. Certo, in molti casi è anche un problema di organizzazione. Ma la vera riforma della giustizia è questa: vogliamo velocizzare i processi? Non c’è bisogno di norme strane. Bisogna consentire di avere personale nelle cancellerie, consentire l’affermazione del processo telematico, bisogna insomma mettere qualche soldo su questo grande obiettivo di modernizzazione. La bacchetta magica è questa”.

Roberto Seghetti

http://www.ilcampodelleidee.it – 09 Maggio 2015

Intercettazioni, un abuso. Per bloccarlo serve la separazione delle carriere


giustizia1-640x436Da uno studio elaborato qualche tempo fa dall’Eurispes sui dati forniti dal ministero della Giustizia, emerge che ogni anno in Italia si eseguono circa 181 milioni di intercettazioni. Il fenomeno è in costante aumento – basti pensare che il numero delle utenze intercettate è cresciuto negli ultimi otto anni quasi del 30% – e non si riferisce unicamente alle conversazioni, ma ad “eventi” telefonici genericamente intesi ovvero chiamate in uscita, chiamate senza risposta, messaggistica e localizzazioni (tutte informazioni comunque “sensibili”).

Sempre secondo i dati forniti dall’Ufficio statistico del ministero della Giustizia, tra le diverse tipologie di intercettazione quelle telefoniche rappresentano il 90% del totale (125 mila) quelle ambientali l’8,4% (quasi 12 mila), mentre quelle informatiche e telematiche solo 11,6% (poco più di 2 mila). Tutto questo ovviamente ha un costo per i cittadini, visto e considerato che solo di intercettazioni telefoniche lo Stato spende circa 220 milioni di euro all’anno.

Di fronte a questi dati allarmanti, i vari governi che si sono succeduti nel corso di queste ultime tre legislature – attuale esecutivo compreso – hanno più volte preannunciato di voler intervenire per arginare l’uso smodato e dilatato di questo delicato strumento di indagine. Il numero esorbitante delle intercettazioni solleva infatti l’enorme problema dei processi che si fanno sui giornali, tramite la pubblicazioni di conversazioni telefoniche estrapolate dal contesto, di cui sono pubblicate solo poche righe tolte da una conversazione molto più ampia, il che spesso fa venire meno la presunzione di innocenza. Per non parlare poi dei discorsi privati o di persone estranee alle indagini che vengono indebitamente pubblicati da una stampa più attenta al gossip che ai diritti della persona. Sicuramente sul fronte degli abusi nella pubblicazione delle intercettazioni sarebbe auspicabile l’intervento del legislatore, purché sia chiaro che il problema non può essere affrontato come è stato fatto finora ossia assumendo come premessa che i giornalisti possono pubblicare tutto, sia ciò che è frutto di intercettazioni illecite, e quindi non utilizzabili nel processo, sia le notizie irrilevanti ai fini dell`inchiesta. Ma, a parte questo aspetto della indebita pubblicazione delle conversazioni telefoniche sui mezzi di comunicazione, sono davvero indispensabili nuovi interventi legislativi per rimediare agli abusi commessi dalla magistratura mediante lo strumento delle intercettazioni telefoniche?

Il dubbio non è affatto campato per aria, visto che in teoria il regime processuale vigente, regolante le intercettazioni telefoniche, già rappresenta la migliore soluzione tecnica possibile di tutti i problemi che la materia pone per sua natura (bilanciamento tra il diritto alla riservatezza ed alla privatezza e la potestà statuale di indagine; conseguenti limiti di divulgazione e pubblicazione). Il problema seminai sta nella interpretazione, letteralmente eversiva, che di quelle norme hanno dato i giudici nel corso degli anni. Lo snodo centrale è quello della motivazione dei decreti autorizzativi (e di proroga) delle intercettazioni. Sul punto la giurisprudenza soprattutto quella di legittimità – ha vanificato il senso dell’obbligo di motivazione da parte del giudice per le indagini preliminari (gip) rendendo legittime motivazioni puramente stereotipe ed apparenti.

L’esperienza dimostra infatti come i pubblici ministeri tendano ad “assecondare” le pressanti sollecitazioni che provengono dalla polizia giudiziaria e se ne facciano carico presso il gip, che a sua volta si limita spesso sostanzialmente a “vistare” la richiesta. Una prassi che è degenerata al punto di registrare con intollerabile frequenza motivazioni “per relationem di secondo grado”, che si risolvono in un “richiamo nel richiamo, ossia nel rinvio all’atto di polizia giudiziaria”.

Sarebbe insomma sufficiente che i giudici facessero un serio vaglio di controllo sulle richieste del pubblico ministero e subito la quantità delle intercettazioni disposte si avvicinerebbe alla quantità di intercettazioni effettivamente indispensabili. Ecco perché noi radicali insieme all`Unione delle Camere Penali Italiane – continuiamo a ritenere poco utile immaginare modifiche che rendano più cogente l`obbligo di motivazione dei decreti con i quali vengono disposte le captazioni telefoniche, se poi alle stesse non si accompagna il recupero di terzietà del Giudice chiamato ad autorizzare le intercettazioni richieste dal PM, recupero che può essere garantito solo attraverso le ormai improcastinabili riforme ordinamentali e costituzionali della magistratura che conducano a separare radicalmente le carriere ed i ruoli di giudici e pubblici Ministeri.

Alessandro Gerardi

Notizie Radicali, 30 Giugno 2014

 

Quintieri : La mia odissea, in cella per false accuse. Il Garantista


Emilio Quintieri - Luigi MazzottaPiù volte mi è stato chiesto di raccontare la mia “esperienza carceraria” ma, fino ad ora, ho sempre evitato perché ripercorrere con la mente certi momenti non è affatto facile e, peggio ancora, quando li si deve rendere pubblici. Credo, però, che certi fatti non debbano passare inosservati per cui, ho accettato di raccontare la mia storia a “Il Garantista”. Da anni svolgo attività politica con la Federazione dei Verdi ed ultimamente con i Radicali, mi sono occupato – e mi occupo -problemi legati al carcere, anche accompagnando parlamentari negli istituti penitenziari durante le ispezioni, per fargli rendere conto delle condizioni degradanti di detenzione sanzionate dalla Corte Europea dei Diritti Umani. Alla luce di questo mio impegno, ho anche accettato alle ultime elezioni la candidatura nella Circoscrizione della Calabria, con la Lista Radicale “Amnistia, Giustizia e Libertà”. La mia vicenda ha inizio proprio pochi giorni prima delle elezioni, il 13 febbraio del 2013, quando alle 5 del mattino, in esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare disposta dal gip del tribunale di Paola nell’ambito dell’Operazione Antidroga “Scacco Matto”, vengo arrestato dai carabinieri e condotto presso la casa circondariale di Paola insieme ad altre persone. Mi veniva contestato di aver detenuto illecitamente ed occultato, negli anni precedenti, quantità imprecisate di cocaina e marijuana e di averla ceduta a terzi. Unici elementi di prova nei miei confronti, raccolti in sede di indagine, le dichiarazioni rese ai carabinieri da alcuni soggetti tossicodipendenti che mi accusavano di avergli ceduto, in più occasioni e dietro pagamento, piccole quantità di droga. Contrariamente agli altri indagati, in sede di interrogatorio di garanzia, ho scelto di non fare “scena muta”, ho risposto alle domande del giudice, rifiutandomi di rispondere a quelle che ritenevo potessero fornire elementi suscettibili di provare la responsabilità di terzi. Le mie spiegazioni non vennero ritenute credibili e, per il rifiuto da me opposto, il giudice respinse l’istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare. Mi sono dunque rivolto al Tribunale del Riesame di Catanzaro che però ha rigettato la richiesta, sostenendo che dovessi restare in carcere perché esistevano diverse intercettazioni telefoniche ed ambientali svolte dagli inquirenti il cui contenuto appariva esplicito ed univoco, nonché attività di riscontro, di osservazione e pedinamento. Non riuscivo a crederci. Dopo qualche mese, il pm otteneva il giudizio immediato per tutti i reati contestati. Io scelsi di seguire il rito ordinario ritenendo di poter essere prosciolto da ogni accusa. La prima udienza, fissata per il 10 luglio, veniva rinviata al 2 ottobre per lo sciopero – giusto – degli avvocati. Così sono tornato in cella. Ma la situazione per me si faceva ogni giorno più insopportabile, anche per i continui contrasti con la direzione dell’istituto. Così analizzati tutti gli atti processuali, ho chiesto di essere scarcerato contestando anche quanto inspiegabilmente riportato nell’ordinanza dai giudici del Riesame rispetto all’esistenza di intercettazioni o riscontri da parte degli investigatori che confermassero l’attività delittuosa ipotizzata. Niente da fare! Nel frattempo, dopo ripetuti procedimenti disciplinari, sono stato trasferito nel carcere di Cosenza e dopo un breve periodo, trascorso anche in regime di isolamento, mi sono stati concessi gli arresti domiciliari in un paesino di montagna, lontano dalla mia città. Alla prima udienza utile, ho presentato personalmente una questione di legittimità costituzionale sulla famigerata Legge Fini-Giovanardi. Successivamente, alla ripresa del processo, ho depositato la sentenza della Corte Costituzionale che accoglieva le stesse questioni di costituzionalità che altre autorità giudiziarie avevano sollevato. Nelle scorse udienze sono stati sentiti gli Ufficiali dell’Arma dei Carabinieri che hanno svolto le indagini. Hanno affermato di non aver mai documentato alcuna attività di detenzione o cessione di stupefacenti da parte mia, che non sono mai state effettuate sul mio conto intercettazioni telefoniche ed ambientali e che l’arresto era scaturito solo per via delle dichiarazioni rilasciate dai tossicodipendenti. Precisavano, infine, che nell’ambito dell’inchiesta, erano emersi solo dei miei contatti con alcuni degli altri indagati di natura esclusivamente amichevole. Nulla a che fare con lo spaccio di droga! Inoltre qualcuno tra i miei accusatori ha ammesso di essersi inventato tutto, “pressato” dai carabinieri. Il processo intanto è ancora in corso. Se ne riparlerà ad ottobre. Mi domando: è mai possibile che in uno Stato di diritto una persona venga arrestata e portata in carcere solo sulla base di qualche dichiarazione, priva di qualsivoglia riscontro, perché sospettata di aver detenuto e poi ceduto qualche dose di droga? È mai possibile che si possa restare in “carcerazione preventiva” ed in attesa di giudizio tanto tempo?

Emilio Quintieri

Il Garantista, 27 Giugno 2014

Giustizia: abuso delle intercettazioni… quando la difesa della legalità diventa illegale


Valerio SpigarelliPer fare i conti con il tasso di garantismo che sta, timidamente, tentando di risalire nelle quotazioni interne alla sinistra italiana, è bene evitare i discorsi sui massimi sistemi poiché si rischia, proprio sulle idee portanti, di ammazzare il neonato in culla. Meglio esaminare questioni più circoscritte, come le intercettazioni telefoniche, ad esempio.

Non più tardi di qualche anno fa, orgogliosamente, molti giovani di sinistra manifestavano inalberando cartelli con su scritto “intercettateci tutti”. Monito ultra legalitario di chi, ritenendo di non aver nulla da nascondere, è disposto a rinunciare ad un pezzo significativo della propria libertà pur di sconfiggere il crimine; allo stesso tempo chiaro esempio di deriva verso un populismo giudiziario di stampo autoritario. Provocatorio quanto si vuole, questo slogan intanto tradisce una evidente confusione della scala dei valori costituzionali di riferimento, che non subordina affatto la rinuncia alla intangibilità delle conversazioni dei cittadini alle sole esigenze di tutela della legalità ma rimanda alla legge ordinaria i casi e le modalità, in cui questo può avvenire; il tutto mettendo sull’altro piatto della bilancia, con pari

dignità, la tutela della libertà di comunicazione. Per questo, in una mirabile sentenza della metà degli anni settanta, la Corte costituzionale sottolineò che tale strumento di ricerca della prova, oggettivamente in conflitto con il chiaro disposto dell’articolo 15 della Carta, doveva essere riservato a reati pre-individuati e comunque utilizzato solo nei casi in cui ciò appariva assolutamente indispensabile.

A sottolineare la straordinarietà e la delicatezza delle intercettazioni, la Corte aggiunse che dovevano essere impiegate sotto il controllo giurisdizionale, per limitati periodi tempo, per ipotesi di reato già raggiunte da gravi indizi, e che tanto i decreti impositivi che quelli di proroga dovevano essere specificamente motivati caso per caso. Insomma, per sintetizzare, non tutto e non sempre si può intercettare, il controllo giurisdizionale è fondamentale e la “pesca a strascico”, benché utile nella lotta al crimine, è fuori del sistema.

Questi insegnamenti, pur recepiti nel codice di procedura penale, sono stati negletti dalla giurisprudenza, che da decenni legittima prassi assai generose proprio su questi punti. Tutto ciò, accanto ad una facile “spendibilità” mediatica dei risultati la quale (in barba alla legge che vieta la pubblicazioni di tali atti nel corso delle indagini preliminari) raggiunge vette sconosciute negli altri paesi democratici, hanno reso le intercettazioni oltre che strumento d’elezione nelle investigazioni anche un’arma politica formidabile. Perciò, mentre le procure ne hanno costantemente ribadito l’indispensabilità nella battaglia per la legalità, la sinistra ha sempre contrastato interventi diretti a ridimensionarle visti come cedimenti al malaffare. Ad illustrare la fortuna anche “politica” delle intercettazioni, basti pensare che le ultime leggi penali che sono entrate in vigore hanno visto alzarsi od abbassarsi il loro limite massimo edittale non in base alla gravità della condotta, come sarebbe logico, ma solo in ragione della applicabilità o meno di tale strumento.

Capovolgendo la grammatica costituzionale non è più la gravità del reato a segnare l’utilizzabilità delle intercettazioni, ma anzi essa viene determinata al solo fine di permetterne l’impiego delle captazioni. Negli ultimi tempi, poi, si è assistito ad ulteriori stravolgimenti: quello dell’utilizzo delle intercettazioni al fine del controllo etico sulla classe dirigente e la messa in discussione delle aree di intangibilità per alcuni soggetti. La vicenda del così detto “processo trattativa”, ed il conflitto tra la procura di Palermo e la presidenza della Repubblica, testimoniano entrambi gli aspetti.

Oggi, in vasti strati dell’opinione pubblica, è dato per scontato che avere contezza dei privati comportamenti è un diritto quando riguarda persone che hanno un qualche ruolo pubblico, e che eventuali aree di inviolabilità, come per il Presidente della Repubblica, devono essere abbattute. A nulla vale opporre che questo è uno strumento di indagine penale che per sua natura non attiene alla dimensione morale. In questi giorni altri due fatti di cronaca ed una prassi giudiziaria assolutamente prevalente, ripropongono il problema intercettazioni.

Accade che a Roma, nell’indagare su fatti che coinvolgerebbero un ristoratore, vengano autorizzate intercettazioni e video registrazioni ambientali nel suo locale, che è ovviamente frequentato da molte clienti. Per mesi la procura, su autorizzazione del Gip, registra, salvo poi accorgersi che in questa maniera centinaia di conversazioni dì cittadini del tutto estranei alle indagini sono state ascoltate e captate. Secondo Panorama, il procuratore di Roma, ad un certo punto, fornisce precise indicazioni agli operanti circa il fatto di non procedere alla registrazione, anzi di sospendere le operazioni, per i colloqui non inerenti.

Ora, indipendentemente, dal rispetto delle norme del codice, il quesito è il seguente: un sistema processuale e giudiziario che permette un fatto simile pone un problema di tutela delle conversazioni? Mettere, per mesi, sotto controllo audiovisivo un locale pubblico non postulava l’ineluttabile coinvolgimento di estranei? La tardiva “scoperta” della fatale violazione ingiustificata della riservatezza delle conversazioni di centinaia di persone è un fatto grave o no? La sinistra che ne pensa?

Altro esempio. Sono state date alle stampe, dopo il deposito avanti al Tribunale del Riesame da parte dei pm di Napoli, i dialoghi di carattere evidentemente politico che avrebbe intrattenuto l’ex sottosegretario Nicola Cosentino con altri esponenti del suo partito. Gli stralci pubblicati in questi giorni dalla stampa dimostrano che si tratta di conversari di carattere politico.

Il fatto, sembrerebbe, è che proprio su tali conversazioni e sul loro carattere si appunta l’interesse degli inquirenti. Anche qui, al di là della legittimità del deposito in sede giudiziaria, un interrogativo è lecito: un sistema processuale e giudiziario che permette l’impiego processuale, e la pubblicazione, di conversazioni di tal genere, il cui primo sicuro effetto è quello di danneggiare le persone che avevano intrattenuto rapporti politici con un indagato, garantisce ancora la reciproca indipendenza tra Poteri dello Stato?

L’ultimo esempio non riguarda un singolo fatto, bensì una prassi inveterata: quella di ascoltare le conversazioni che gli avvocati-intrattengono sull’utenza, eventualmente intercettata, di un loro cliente. Secondo la giurisprudenza l’ascolto di suo non è illegittimo, illegittimo è l’eventuale utilizzo processuale di quel materiale. Anzi, secondo alcune sentenze, è proprio dall’ascolto che si può distinguere se la conversazione ha ad oggetto il mandato difensivo od altro, e dunque non è affatto scontato che l’agente, anche se comprende subito che chi parla è l’avvocato con il cliente, debba interrompere le operazioni.

Il risultato è che nel nostro Paese neanche gli avvocati sono certi della riservatezza delle comunicazioni con i loro clienti. In parlamento giace da tempo una proposta di modifica del codice di procedura penale che sarebbe in grado di arginare questo fenomeno, la sinistra la sottoscrive? In conclusione, una nuova stagione garantista, a sinistra, dovrebbe rispondere alla domanda semplice, ed in fondo banale, se questa ancora è una democrazia normale o giudiziaria, e poi operare per ripristinare la legalità costituzionale. Magari rammentando che Orwell era di sinistra.

di Valerio Spigarelli (Presidente dell’Unione Camere Penali)

Gli Altri, 6 maggio 2014