Droghe : la Legge Fini-Giovanardi, abrogata dalla Consulta, produce ancora danni


cannabis 2Circola con insistenza nei palazzi romani la voce che presso il ministero della Salute sia al lavoro una commissione per stabilire, rispetto alle diverse sostanze, le soglie quantitative al di sotto delle quali si presume che la detenzione sia destinata ad uso personale. Questa norma era stata cancellata dalla sentenza della Corte Costituzionale (n. 32 del 12 febbraio 2014), che aveva dichiarato l’illegittimità della legge Fini-Giovanardi. Ciononostante, era stata prontamente resuscitata dal decreto legge Lorenzin del 20 marzo 2014 e convertito in legge il 16 maggio 2014 (n.79). Vale la pena ricordare che quel decreto era nato con l’intenzione di ripristinare integralmente la legge dichiarata incostituzionale e che solo l’opposizione del ministro Orlando impedì un colpo di mano per riproporre la norma chiave della Fini-Giovanardi, ovvero la classificazione delle sostanze leggere e pesanti in un’unica tabella, con la stessa elevata pena per la detenzione, da sei a venti anni di carcere.

Più volte, in questa stessa rubrica è stato sottolineato che un decreto di tal genere non era assolutamente necessario e che rispondeva solo a esigenze di mera restaurazione; semmai, la vera necessità e urgenza sarebbe stata di avere una norma governativa per ricalcolare le pene dei condannati in base ad una legge abrogata dalla Corte (vedi gli articoli di Anastasia, 19 marzo 2014, e Corleone, 25 marzo 2014).

Questo intervento, richiesto a gran voce dalle Ong, non vide mai la luce; mentre invece si reintroduceva il comma 1-bis all’art. 73, col concetto di “quantità massima detenibile”, quale “soglia” destinata a discriminare la detenzione per consumo (punibile peraltro con pesanti sanzioni amministrative) da quella per spaccio.

A suo tempo le “quantità massime detenibili” per le diverse sostanze furono stabilite con decreto ministeriale dall’allora ministro Storace, d’accordo con lo “zar” antidroga Carlo Giovanardi (decaduto insieme alla norma cancellata dalla Corte). Che oggi si voglia procedere a una nuova determinazione delle soglie, appare assurdo e preoccupante, e per diverse ragioni.

In primo luogo, la soglia quantitativa non ha mai funzionato, tanto che la famosa “dose media giornaliera” della Jervolino-Vassalli del 1990 fu cancellata dal referendum del 1993 (ripristinata nella Fini Giovanardi per puro furore ideologico di “certezza” della pena). In secondo luogo, la “soglia quantitativa” contrasta coi principi generali di penalità, perché inverte l’onere della prova sull’accusato, chiamato a fornire prove della destinazione per uso personale se detiene quantità maggiori. Ancora, ha poco senso che sulle soglie decida il ministero della Salute (seppure di concerto col ministero della Giustizia), visto che la “quantità massima detenibile” ha rilevanza penale ed è totalmente sganciata da qualsiasi riferimento al consumo e alle sue modalità (a differenza della “dose media giornaliera” suddetta).

Anche in questo caso auspichiamo uno stop da via Arenula, ma è assai preoccupante che in un momento d’inizio della discussione sulla legalizzazione della canapa, si assista a un lavorio revanscista. Piuttosto, è venuto il tempo di una radicale riforma complessiva della normativa antidroga. La Società della Ragione ha predisposto un testo condiviso da un ampio Cartello di associazioni per segnare una profonda discontinuità, a partire dall’impianto stesso della legge, centrato com’è sulla detenzione quale condotta da penalizzare.

La Conferenza governativa potrà essere l’occasione per un confronto aperto che dia al Parlamento gli elementi per una riforma che superi l’ormai insensata guerra alla droga.

Salvina Rissa

Il Manifesto, 7 ottobre 2015

Il Sap : “No all’approvazione del reato di tortura” Coro di proteste contro il Sindacato Autonomo della Polizia


polizia-picchia-studentiDomani è la giornata internazionale contro la tortura e, in Italia, ad oltre 26 anni dalla ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite, il codice penale ancora non prevede questo reato.
Nelle ultime ore il Sap (Sindacato Autonomo di Polizia), vi si è scagliato contro, annunciando che oggi scenderà in piazza distribuendo appositi volantini. La motivazione sta nel fatto che favorirebbe estremisti e violenti, impedendo alle forze dell’ordine di svolgere il proprio lavoro.

“La posizione del Sap è fuori dalla comunità internazionale” dichiarano Patrizio Gonnella (Antigone), Massimo Corti (Acat) e Franco Corleone (coordinatore dei Garanti dei detenuti). “La polizia deve essere un corpo che protegge i diritti umani e non deve aver paura del reato di tortura. Va ricordato che la tortura è considerato dal diritto internazionale un crimine contro l’umanità tanto da essere fra quelli su cui può investigare e giudicare la Corte Penale Internazionale dell’Aia”.

“Affermare che il reato di tortura sarebbe un regalo agli estremisti e ai violenti è inaccettabile. Praticamente tutti i Paesi a democrazia avanzata dell’Europa hanno il reato nel loro Codice. Anche il Vaticano grazie a Papa Francesco ha codificato il crimine di tortura così come chiesto dall’Onu di Ban Ki-Moon”.

“Il Sap – proseguono – parla di reato ideologico, ma di ideologica c’è solo la loro opposizione. La previsione di questo crimine non è un capriccio italiano, né tantomeno di un presunto partito contro le forze dell’ordine, ma arriva direttamente dalle Nazioni Unite che, nel 1984, approvarono la Convenzione contro la tortura. La codificazione del crimine ci consente di dare valore al lavoro straordinario di tutti quei poliziotti che si muovono nel solco della legalità”.
“Va spiegato dunque al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon e al Papa perché sono contrari”.

Tra le varie questioni su cui il sindacato di polizia si scaglia c’è anche la dicitura “torture psichiche”, anch’esse previste nella Convenzione internazionale. Anche qui, con una posizione per nulla ancorata alla realtà, il Sap paragona questo genere di torture all’alzare la voce durante un interrogatorio, avvertendo con durezza l’indiziato sui rischi che corre. Le torture psichiche sono un dramma nella vita delle persone così come ci raccontano le organizzazioni internazionali: finte esecuzioni, la privazione costante e per giorni del sonno, l’obbligo di radersi per i prigionieri di fede musulmana, minacce di stupro, isolamento prolungato, deprivazione sensoriale. Alcune di queste furono inflitte a due detenuti del carcere di Asti, quando un giudice – nella sentenza di condanna di alcuni poliziotti penitenziari – scrisse che di torture si trattava, ma che i responsabili non potevano ricevere pene proporzionali alla gravità del fatto commesso per l’assenza dello specifico reato.

“È responsabilità anche del governo rispondere a questi muri che si costruiscono e obiezioni fittizie che vengono sollevate. Approvare la legge oggi è un obbligo per il nostro paese e, se qualcosa di ideologico c’è nel volere il crimine di tortura – dichiarano infine Patrizio Gonnella, Massimo Corti e Franco Corleone –, è il volersi ancorare alle democrazie avanzate europee e mondiali”.

Per domani Antigone ha organizzato una mobilitazione via twitter, invitando chi utilizza questo social network a scrivere questo tweet:
#‎GiornataMondialeControLaTortura‬ In Italia la tortura esiste e si pratica. @matteorenzi vogliamo ‪#‎SubitoLaLegge

Palma (Dap), gli Opg saranno chiusi il 31 marzo, non ci saranno altri rinvii


opg“Ci sono già stati un paio di rinvii per la chiusura degli Opg ed è chiaro che stavolta non ce ne saranno altri. Ogni Regione dovrà prendere in carico gli internati in varie forme. Le Regioni che non faranno questo percorso verranno commissariate”.

Lo ha detto vice capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) Mauro Palma, intervenendo oggi a margine di un convegno in Consiglio regionale sulla chiusura degli Opg. Per ovviare al commissariamento, ha spiegato, “c’è la possibilità di prevedere una struttura temporanea in attesa che le strutture definitive siano completate. Le Regioni vengono commissariate se questo percorso non viene attuato”.

Corleone: il 31 marzo data storica, come legge Basaglia

Una fotografia degli internati dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino che il 31 marzo chiuderà definitivamente è stata presentata questa mattina nel corso del seminario “Opg addio per sempre” che si è tenuto in Consiglio regionale ed è stato organizzato dal Garante per i diritti dei detenuti della Toscana, Franco Corleone, in collaborazione con la Fondazione Giovanni Michelucci e l’Associazione di volontariato penitenziario Onlus di Firenze. “Dare un volto per raccontare una storia – ha detto Corleone.

Questo seminario è un’occasione di confronto per parlare dell’Opg, del superamento della logica manicomiale, del destino di villa Ambrogiana e delle prospettive di vita degli internati che avranno bisogno di soluzioni terapeutiche. Un compito non facile – ha aggiunto il Garante – anche dal punto di vista culturale, dobbiamo rompere la paura e superare il quesito “dove li mettiamo?”. Non si parla di bestie feroci, ma di esseri umani e per ciò bisogna trovare una soluzione intelligente”.

Il presidente della Toscana Enrico Rossi ha inviato un messaggio nel quale ribadisce “l’impegno della Regione a potenziare i servizi territoriali, aggiornare gli operatori, adeguare la dotazione del personale sanitario e i percorsi di dimissione dei pazienti residenti in Toscana e ad adeguare le strutture che accoglieranno i pazienti oggi internati”.

Il consigliere regionale dell’Ufficio di presidenza Gian Luca Lazzeri ha portato, invece, i saluti del presidente del Consiglio regionale, Alberto Monaci. “Il 31 marzo – ha detto Lazzeri – è una data che tanto abbiamo atteso. Basta con i rinvii, anche se non siamo proprio pronti. Spetta a noi il compito di individuare le strutture che accoglieranno gli internati”.

La ricerca ha analizzato i fascicoli delle presenze in istituto all’8 novembre 2014 e i nuovi ingressi fino al 31 dicembre 2014 con lo scopo di mettere in evidenza, oltre alle caratteristiche generali della popolazione detenuta, gli elementi della presa in carico da parte dei servizi sociali, i meccanismi di proroga delle misure di sicurezza, la durata della permanenza in Opg alla luce dei nuovi limiti di legge.

La parte più consistente dei 124 internati (50 pari al 40 per cento) risulta sottoposta alla misura di sicurezza dell’Opg a seguito di sentenza di proscioglimento per infermità totale di mente. Un dato interessante riguarda gli internati in proroga: trenta persone (il 24 per cento) hanno avuto proroghe delle misure di sicurezza. In tutti i casi è stata dichiarata ancora presente la pericolosità sociale e spesso è stato rilevato un aggravamento del quadro clinico.

“Un dato – ha commentato Franco Corleone – preoccupante soprattutto per la motivazione principale della proroga: l’assenza di un progetto di dimissione seguito dal fallimento della licenza finale di esperimento”. “Questo – ha aggiunto il garante – deve farci riflettere. In entrambi i casi nel processo di cura e reinserimento dell’internato sono stati chiamati ad intervenire i servizi territoriali e le rems (residenze di esecuzione delle misure di sicurezza detentive) che con la chiusura degli Opg saranno protagoniste della riabilitazione e presa in carico degli internati”.

Corleone ha avanzato ipotesi su criticità e carenze come le problematiche nella formazione degli operatori oppure come la difficoltà di trasmissione di conoscenza alla società civile che – ha detto – “ha subito un’overdose di spirito di chiusura mentale, adesso difficile da superare”. Riguardo alla fascia di età: il 25 per cento della popolazione internata ha dai 35 ai 39 anni, il 16 per cento dai 50 ai 59 anni e il 15 per cento dai 45 ai 49 ed è composta per il 77 per cento da italiani e per il rimanente 23 per cento da stranieri (con prevalenza marocchini e albanesi).

Sono 52 gli internati provenienti dal bacino di utenza dell’Opg, dei quali 16 assegnati all’Asl di Firenze, 7 all’Asl di Pisa, 5 a quella di Prato e 5 a Lucca, 4 a Livorno, 3 all’Asl di Massa e 3 a quella di Viareggio, 2 per Asl a Siena, Pistoia, Arezzo e Grosseto, 1 ad Empoli. I reati commessi dagli internati residenti in Toscana sono per l’84 per cento reati contro la persona, di cui il 44 per cento omicidi e il 10 per cento contro il patrimonio.

La maggior parte degli ospiti di Montelupo viene da istituti penitenziari (56 per cento), il 13 per cento dalla libertà e il 20 per cento accede per aggravamento della misura di sicurezza non detentiva della libertà vigilata. Un dato significativo riguarda il 31 per cento degli internati che è ancora in attesa di giudizio ed è presente in Opg in modo provvisorio. La direttrice della struttura di Montelupo Antonella Tuoni ha sottolineato l’importanza di mantenere ciò che di positivo rimane dall’esperienza dell’Opg, “il confronto multi-professionale con la lettura del dato giudiziale, dei dati socio familiari e di quello psichiatrico”.

Nel suo intervento Mauro Palma, vice capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha ribadito “gli Opg saranno sostituiti dai servizi territoriali che prenderanno in carico gli internati e avranno l’obbligo di garantire loro il diritto alla salute”. Palma ha ricordato che l’Italia è il paese europeo che spende più risorse per ogni detenuto, ma le “spende male”.

Rossi: servizi territoriali potenziati per accogliere i pazienti

Il presidente della Regione Toscana conferma l’impegno della giunta per arrivare alla chiusura dell’ospedale di Montelupo entro il 31 marzo.

Opg, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi conferma “l’impegno della Regione a potenziare i servizi territoriali, aggiornare gli operatori, adeguare la dotazione del personale sanitario e i percorsi di dimissione dei pazienti residenti in Toscana e ad adeguare le strutture che accoglieranno i pazienti oggi internati”. È il messaggio del governatore nel convegno di questa mattina in Consiglio regionale sugli ospedali psichiatrici giudiziari.

Il garante regionale dei detenuti Franco Corleone ha detto: “Questo seminario è un’occasione di confronto per parlare dell’Opg, del superamento della logica manicomiale, del destino di villa Ambrogiana e delle prospettive di vita degli internati che avranno bisogno di soluzioni terapeutiche. Un compito non facile anche dal punto di vista culturale, dobbiamo rompere la paura e superare il quesito ‘dove li mettiamo?’ Non si parla di bestie feroci, ma di esseri umani e per ciò bisogna trovare una soluzione intelligente”.

Gazzarri: no a soluzioni semplicistiche

“A pochi giorni dalla chiusura dell’Opg trovo estremamente preoccupante che ancora non sia chiara la futura collocazione del detenuti. È inammissibile che il problema possa ritenersi risolto con lo spostamento di 12 di loro dalla struttura di Montelupo Fiorentino a quella di Volterra e per i restanti 18 non aver previsto ad oggi alcuna destinazione certa. Serve una soluzione univoca che non passi dalla soluzione semplicistica di dislocarli dove capita”.

Lo afferma il capogruppo di Popolo Toscano in Consiglio regionale Marta Gazzarri, sulla chiusura dell’Opg di Montelupo. “Dobbiamo poter creare un’unica residenza sanitaria nella nostra regione – aggiunge Gazzarri in una nota – sulla quale investire. Solo così verranno razionalizzati i costi valorizzando un’unica struttura di eccellenza per la Toscana”. Per Gazzarri occorre “guardare ad una soluzione che punti ad assicurare un percorso di qualità per quei pazienti che devono intraprendere un lungo cammino di reinserimento nella comunità. Questa deve essere la priorità”.

Nascosti: improbabile chiusura Montelupo il 31 marzo

Sulla chiusura dell’Opg di Montelupo fiorentino “mi pare difficile che le parole del presidente Rossi si traducano in realtà, proprio perché la Regione dall’ultimo proroga ad oggi, non ha compiuto alcun passo verso la soluzione dell’annosa questione della struttura dell’Ospedale psichiatrico giudiziario”. Lo afferma il consigliere regionale Fi Nicola Nascosti.

“Circa la paventata chiusura entro la fine del corrente mese – aggiunge in una nota – non sembra che sia stato raggiunto neppure un accordo operativo definitivo. In particolare, resta oscuro il come si intende procedere, considerato che i progetti d’inserimento dei pazienti di cui tanto si è parlato, non si sono in alcun caso concretizzati”.

Per nascosti “i soggetti ristretti presso l’Opg sono da considerarsi in prima istanza dei malati, anche gravi o comunque portatori di sospetti disturbi psichici. Il principio generale imposto dalla legge tuttora vigente è quello che devono essere trattati e custoditi all’interno di strutture sanitarie e non carcerarie, sia pure con le cautele relative a quello zoccolo duro di patologie che necessitano di particolari vigilanze e attenzione”.

“Nella situazione attuale – conclude – non esistono sul territorio toscano strutture in grado di poter ospitare questi pazienti cosi come prevede la legge. Ne consegue l’inderogabile necessità di procedere ad una ulteriore proroga auspicando che nelle more si arrivi finalmente ad una soluzione dignitosa per questi cittadini”.

Lazzeri: Villa Ambrogiana sia istituto attenuato

“La sorte del dopo Opg di Montelupo viaggia ancora su un doppio binario: mentre la data di chiusura è ormai fissata per il 31 marzo ancora non si sa quale sarà la sistemazione per buona parte dei 48 pazienti toscani e delle oltre 80 guardie penitenziarie, che insieme ad altri 9 fra amministrativi e assistenti pedagogici, si trova nei reparti della struttura”.

Lo afferma il consigliere regionale di Più Toscana Gian Luca Lazzeri a margine del convegno “Opg addio, per sempre”. “Sulla futura destinazione dell’immobile – aggiunge in una nota – la mia posizione non cambia: nella villa dell’Ambrogiana la Regione avrebbe potuto dirigere la partita per realizzare un carcere attenuato per i detenuti in attesa di giudizio che solo a Firenze superano quota 300: in pratica un terzo degli internati nel carcere di Sollicciano che ospita 1200 persone a fronte di una capienza di 1.000”.

Presentato in Senato un disegno di legge sul “diritto all’affettività” per i detenuti


radioradicale logo

Presentazione del DDL n.1587 “Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354 e altre disposizioni in materia di relazioni affettive e familiari dei detenuti”

Colloqui più lunghi e “senza alcun controllo visivo”, momenti di intimità con i propri familiari in “apposite aree presso le case di reclusione”, possibilità per i magistrati di sorveglianza di concedere permessi, oltre a quelli premio o per motivi gravi, anche per trascorre il tempo con la moglie e la famiglia, e per i detenuti stranieri telefonate anche con i parenti all’estero.

Questo prevede un disegno di legge per l’affettività in carcere presentato dal senatore Sergio Lo Giudice e firmato da una ventina di colleghi, in maggioranza del Pd, che riprende per intero quello presentato nella passata legislatura da Rita Bernardini, segretario dei Radicali.

L’idea è non privare i detenuti del diritto di mantenere rapporti affettivi, garantendo incontri più frequenti e consentendo spazio e tempo per i rapporti con il proprio partner, coniuge o convivente. “Affettività e sessualità in carcere – nota il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani, tra i firmatari del ddl – sono sempre visti con uno sguardo morboso” e “come se l’interdizione dal sesso fosse una parte della pena”.

Secondo Rita Bernardini “negare un diritto inderogabile come quello alla sessualità e all’affettività rientra tra i trattamenti inumani e degradanti vietati dalla Costituzione”. Franco Corleone, garante dei detenuti della Toscana, parla di “un’inadempienza che viene da lontano” e ricorda che negli anni 80 le detenute mettevano in atto la protesta del “salto del banco” per reclamare “il diritto all’amore”, ma “ancora in una ventina di carceri – dice – esistono i banconi di separazione per i colloqui”. “Siamo in presenza di ostilità particolarmente tenaci – aggiunge Manconi che si è impegnato a portare in discussione il testo – ma non è un buon motivo per non provarci”.

– VEDI IL TESTO DEL DISEGNO DI LEGGE (PDF)

 

Corleone : Le Carceri sono senza Capo e senza il Garante Nazionale. Il Governo provveda con urgenza


Franco CorleoneAncora non è stato nominato il capo del Dap. Per la prima volta nella storia delle galere italiane si assisterà a un Ferragosto privo del vertice responsabile. Tra ferie dei provveditori e dei direttori, del personale civile e della polizia penitenziaria assisteremo alla novità degli istituti governati dai detenuti. Purtroppo non si tratterà di una felice autogestione ma la certificazione dello stato di abbandono.

Nemmeno l’ultimo Consiglio dei ministri prima della pausa estiva ha provveduto alla nomina del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Sono passati più di due mesi dalla non riconferma di Giovanni Tamburino e in questo periodo sono circolate le voci più disparate, dalle più inverosimili e pericolose ad alcune estremamente suggestive.

Questo tempo non è stato però utilizzato per una discussione pubblica su che tipo di gestione delle carceri sarebbe necessaria dopo la conclusione non definitiva seguita alla condanna della Corte europea dei diritti umani. Il decreto con le misure compensative non sana totalmente la situazione e l’Italia continua a essere un paese sorvegliato speciale ancora per un anno.

È un vero peccato che il ministro Orlando non abbia delineato un identikit del nuovo capo del Dap che segnasse una netta discontinuità e consentisse di avanzare candidature connotate da storie e programmi alternativi.

I garanti hanno chiesto senza esito un incontro con il ministro proprio per un confronto sul vertice del Dap, sulla nomina del garante nazionale dei detenuti, sulla riforma del carcere.

Pare invece che come in un gioco dell’oca si sia tornati alla casella iniziale, ma ciò che appare allucinante è che per la prima volta nella storia delle carceri italiane si assisterà a un ferragosto privo del vertice responsabile. Tra ferie dei provveditori e dei direttori, del personale civile e della polizia penitenziaria assisteremo alla novità degli istituti governati dai detenuti. Purtroppo non si tratterà di una felice autogestione ma la certificazione dello stato di abbandono delle galere. Per fortuna il numero dei detenuti è sceso a quota 54.100 e il rischio di rivolte (grazie anche al meccanismo premiale) è pari a zero; l’unico pericolo è che si verifichi qualche suicidio che comunque non farebbe notizia né susciterebbe scandalo.

Il rischio è che passi la convinzione che l’emergenza sia superata e che si possa tornare al tran tran dell’ordinaria amministrazione. Non può essere così, perché migliaia di detenuti, tremila a detta del ministro Orlando, molte di più secondo la valutazione delle associazione che hanno redatto il “Quinto Libro Bianco” sugli effetti della Fini-Giovanardi, stanno scontando una pena illegittima a dispetto della sentenza delle sezioni unite della Cassazione. Non può essere così perché molti istituti sono ben oltre la capienza regolamentare (finalmente siamo riusciti a far eliminare dai documenti dell’amministrazione la finzione della capienza tollerabile) e soprattutto perché in troppe carceri non sono ancora adottate le prescrizioni individuate dalla Commissione Palma per rispettare i principi costituzionali e le norme del Regolamento penitenziario del 2000.

Molte questioni essenziali per il rispetto dei diritti umani sono ancora aperte. Dalla chiusura non più procrastinabile degli Opg al riconoscimento del diritto alla affettività e alla previsione del reato di tortura. Per non dire dell’esecuzione penale esterna senza uomini e mezzi su cui si stanno scaricando non solo le alternative alla detenzione, ma anche la nuova messa alla prova per gli adulti. È davvero ora di mettere in cantiere una Conferenza nazionale sul carcere, sul suo fallimento come strumento riabilitativo e sul senso della pena. Idee, parole e pratiche si rivelano ormai consunte e davvero l’appuntamento con un nuovo Codice Penale che superi il Codice Rocco non può essere eluso. Il 21 novembre a Firenze l’Ufficio del garante della Regione Toscana organizzerà su questi temi un seminario internazionale. Può essere l’inizio di una riflessione. Ma sono urgenti e indifferibile le scelte che finora sono mancate e che tardano incomprensibilmente.

Franco Corleone (Garante dei detenuti della Toscana)

Il Manifesto, 13 agosto 2014

Firenze, Domani i Giudici decideranno sul bambino di 6 anni che vive in Carcere con la mamma


firenze_solliccianino33Domani il bambino di sei anni che vive con la mamma a Sollicciano, che è entrato in carcere a un anno e da lì non è più uscito, legato al destino di una madre che finirà di scontare la pena nel 2019, saprà la sua destinazione.

Se finalmente uscirà dall’unica casa che conosce ma che sa benissimo essere una galera e di cui diventa sempre più insofferente, finendo dentro una casa famiglia, come aveva stabilito il tribunale dei minori, o se andrà invece a Genova a casa dello zio paterno come chiedono la famiglia e la madre che ha fatto ricorso contro la decisione del tribunale. La Corte di Appello aveva sospeso lo scorso maggio la sentenza del tribunale dei minori e domani deciderà tra le due opzioni.

“Non ho visto il bambino che era al suo primo giorno di uscita con i campi estivi del Comune, ma ho incontrato la madre”, racconta Franco Corleone, il garante toscano dei detenuti che è entrato ieri mattina a Sollicciano insieme alla collega regionale per i minori, Grazia Sestini. Nessun garante fiorentino con loro anche se il carcere è a Firenze. “Sono stupito – dice Corleone – che nonostante io mi sia rivolto a suo tempo al Comune, l’amministrazione non abbia ancora nominato il garante cittadino.

È incomprensibile per la città capoluogo con il carcere più grande della regione”. Giacomo (questo il suo nome di fantasia) ieri era per la prima volta uscito.

“Ma la sera torna comunque in carcere, proprio quando le celle si chiudono e lui deve restare prigioniero”, sottolinea Corleone. Domani saprà se andrà dallo zio che è straniero, nigeriano, come il resto della famiglia, oppure da sconosciuti. “Mi sembrerebbe la soluzione migliore per un ragazzino che entrerà in prima elementare con problemi non piccoli – dice Corleone.

Lui è vissuto in carcere, gli altri bambini magari hanno già il primo telefonino, hanno sempre avuto una casa, sono stati sempre liberi. Almeno andrebbe in una famiglia che è la sua, capace non solo di assicurargli una continuità di rapporti quando la madre uscirà, ma già da adesso”.

Il garante spiega che lo zio ha moglie e figlio che sono già stati in carcere a conoscere il bambino, che hanno fatto amicizia. “D’altra parte le verifiche dicono che ha lavoro, una casa in affitto e che è regolare”.

Sembra dello stesso parere l’avvocato della madre, Silvia Barbacci che però non si spericola: “Spero davvero che la Corte d’Appello decida nell’interesse del minore ovviamente dopo avere fatto le verifiche necessarie e ascoltato il parere dei servizi sociali”. Intanto ieri Giacomo è tornato prigioniero nel cosiddetto nido di Sollicciano dove vivono solo lui e sua madre: “in questo momento non ci sono altri bambini”, racconta Corleone.

E anche se ci fossero sarebbero più piccoli. “Questo bambino è il più grande mai rimasto dentro un carcere, l’età massima è tre anni”, dice. Anche se dal 2011 è previsto che i figli di detenute possano restare con le madri fino a sei anni, ma in strutture speciali e diverse da Sollicciano “dove sabato scorso si è ucciso un altro detenuto, un trentaduenne morto secondo il carcere per avere semplicemente inalato troppo gas dalla bomboletta solo per stordirsi. Comunque sia, di carcere e in carcere è morto”, dice Corleone.

Ilaria Ciuti

La Repubblica, 1 luglio 2014

Carceri, Corleone : Meno male che il Pm Gratteri non è diventato Ministro della Giustizia


Franco CorleoneA leggere i resoconti dell’intervento svolto dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri il 5 giugno davanti alla Commissione diritti umani del Senato sull’applicazione del regime penitenziario per gli appartenenti ai vertici delle organizzazioni mafiose, si tira un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo di avere questo pubblico ministero ministro della giustizia.

L’analisi di Gratteri sul funzionamento del 41bis è stata davvero a tutto campo. Ha contestato la distribuzione dei 750 detenuti in regime di carcere duro in 12 istituti, con i rischi di interpretazioni diverse da parte dei direttori delle norme e ha individuato la soluzione nella costruzione di 4 nuovi carceri dedicati allo scopo con 4 direttori specializzati.

Gratteri si è domandato anche la ragione della chiusura negli anni novanta delle carceri di Pianosa e dell’Asinara, auspicando la loro riapertura con questa destinazione. La mancanza di memoria storica è davvero una maledizione, perché attribuisce scelte motivate e dibattute a pura casualità o superficialità.

Va ricordato che la scelta di chiudere le carceri speciali fu dovuta al rifiuto doveroso da parte dello stato democratico di sopportare condizioni di violenza inaudita e di gestioni paranoiche da parte di direttori immedesimati nella parte di vendicatori e aguzzini. Si vuole tornare a quella pratica di tortura appena ora che l’Italia ha evitato una condanna definitiva per violazione dell’art. 3 della Convenzione dei diritti umani da parte della Cedu per trattamenti crudeli e degradanti? Va riconosciuto al procuratore anti ‘ndrangheta di avere proposto una diminuzione dei detenuti a regime speciale a 500 per una applicazione seria affidata al Gom, il reparto specializzato della Polizia Penitenziaria, potenziando i controlli anche durante i colloqui. Infatti “nel momento in cui c’è un colloquio bisogna guardare la mimica facciale, i segni che il detenuto fa ai parenti con braccia e mani”.

A questo proposito il procuratore ha invitato il legislatore ad intervenire su un vuoto enorme, cioè il caso della moglie del detenuto che è anche avvocato, perché in quel caso il colloquio non si può registrare. Non è chiara la soluzione proposta: obbligare a cambiare avvocato (comunque i colloqui non sarebbero registrati) o a divorziare? Nell’incertezza si legge anche che alla mancanza di personale esperto si può ovviare con il trasferimento di militari dell’esercito adeguatamente formati e comunque diminuire il numero sovrabbondante di agenti della polizia penitenziaria presenti in via Arenula, la sede del ministero della giustizia.

Il culmine dello slancio riformatore si è espresso sulla questione del lavoro per i detenuti. “Io sono per i campi di lavoro, non per guardare la tv. Chi è detenuto sotto il regime del 41 bis coltivi la terra se vuole mangiare. In carcere si lavori come terapia rieducativa. Occorre farli lavorare come rieducazione, non a pagamento. Se abbiamo il coraggio di fare questa modifica, allora ha senso la rieducazione. Farli lavorare sarebbe terapeutico e ci sarebbe anche un recupero di immagine per il sistema”.

Ci vorrebbe davvero un bel coraggio a fare strame delle norme penitenziarie europee, delle sentenze della Corte Costituzionale, della legge Smuraglia e della riforma penitenziaria del 1975, peggiorando addirittura il Regolamento di Alfredo Rocco del 1932! Nei resoconti dell’audizione non si leggono le reazioni dei commissari. Il silenzio glaciale appare la risposta adeguata. Di fronte a simili derive è il caso che il ministro Orlando avvii subito le procedure per la nomina del garante nazionale dei diritti dei detenuti.

di Franco Corleone

Il Manifesto, 18 giugno 2014