Provenzano resta in 41 bis. Se ad ottobre sarà ancora vivo il Tribunale di Sorveglianza di Roma deciderà se revocargli il carcere duro


Perché Ponzio Pilato è, nell’immaginario collettivo, sinonimo di viltà ?

Perché è, rappresenta il potere, gli viene chiesto di decidere, di scegliere e si lava le mani. Lascia al popolo le sua responsabilità, se ne scarica e sa che il popolo deciderà morte.

Si è celebrata il 20 giugno 2014 avanti al Tribunale di Sorveglianza di Roma, l’udienza per stabilire se Bernardo Provenzano dovesse restare in 41 bis, regime carcerario differenziato. La difesa chiedeva, con l’avallo delle Procure DDA di Palermo, Caltanissetta e Firenze che, alla luce delle numerose perizie in atti che ne certificavano le drammatiche condizioni di salute, uno stato cognitivo gravemente ed irrimediabilmente decaduto nonché l’incapacità di comunicare con l’esterno, venisse revocato il 41 bis nei confronti del Provenzano. L’odioso regime di carcerazione, infatti, si traduceva, nella specie, soltanto in una tortura vindice che colpiva gli stretti congiunti del malato ormai moribondo, privati della pietosa possibilità di fargli una carezza. Intanto a Milano, su impulso del Magistrato di Sorveglianza, si era discusso se sospendere la carcerazione del Provenzano, proprio in virtù del quadro clinico ormai disperato. I Giudici Milanesi avevano disposto una ulteriore perizia e fissato al 03 ottobre l’udienza di trattazione per decidere, facendo salva una eventuale anticipazione ove necessitata dal precipitare della situazione sanitaria del detenuto.

Dopo due settimane di attesa, anche il Tribunale di Sorveglianza di Roma decideva pedissequamente un rinvio della questione 41 bis, al 03 ottobre. Quando si dice le coincidenze!

“Il Tribunale, ritenuta la necessità ai fini del decidere, vista la relazione dell’Azienda Ospedaliera San Paolo in data 11.06.2014 – scrive a Roma il giudice relatore nel provvedimento di rinvio – dispone l’acquisizione di informazioni più dettagliate e precise in ordine alla storia clinica, alla diagnosi, alle patologie riscontrate, con indicazione di esami clinici e strumentali effettuati e relativi esiti soprattutto in merito alle patologie neurologiche”. Un rinvio a quattro mesi di distanza che non ha giustificazione alcuna. Le informazioni richieste sono in possesso del carcere e potevano essere inviate in giornata, anche in corso di udienza. Aspettare la decisione di Milano. Questo è il senso palese. Ma cosa diceva la relazione del San Paolo richiamata? “Paziente in stato clinico gravemente deteriorato ed in progressivo peggioramento, allettato, totalmente dipendente per ogni atto della vita quotidiana. Stato cognitivo gravemente ed irrimediabilmente compromesso, portatore di pluripatologie cronicizzate, di catetere vescicale a permanenza, alimentazione spontanea impossibile se non attraverso catetere venoso centrale, sondino naso gastrico, evacuazione dell’alvo difficoltosa, mantenuta con clisteri quotidiani e, occasionalmente con svuotamento manuale delle feci. Si ritiene il paziente incompatibile con il regime carcerario. L’assistenza sanitaria di cui necessità sarebbe erogabile solo in ambiente sanitario di lungodegenza”.

Questa era la relazione. Di che altri accertamenti, esami e verifiche avevano bisogno per affermare che Bernardo Provenzano non è più un boss? Che non è forse nemmeno più un uomo se non ha impeti, volontà, azioni, linguaggio? Ancora almeno altri quattro mesi di 41 bis, dunque. Altri quattro mesi in cui i figli guarderanno il loro caro nel silenzio, per pochi minuti, attraverso un vetro divisore. Lo vedranno immobile, sofferente, con lo sguardo perso e spento e non potranno toccarlo.

Ponzio Pilato si lava le mani e lo sa che il popolo sceglie morte.

Avv. Maria Brucale e Avv. Rosalba Di Gregorio

difensori di Bernardo Provenzano

Il Garantista, 08 Luglio 2014

Speciale Giustizia : Intervista all’Avv. Rosalba Di Gregorio, difensore di Bernardo Provenzano


Avv. Rosalba Di GregorioPrima parte: intervista all’Avvocato Rosalba di Gregorio, difensore di Bernardo Provenzano, ex capomafia, detenuto in regime di carcere duro 41 bis O.P.

Seconda parte: Processo Borsellino quater (Strage di via d’Amelio): udienza del 30 giugno 2014, escussione testimoniale di Gaetano Gifuni (ex Segretario generale della Presidenza della Repubblica)

http://www.radioradicale.it/scheda/415769/speciale-giustizia

 

Bernardo Provenzano in fin di vita. I Radicali chiedono la revoca del 41 bis


Bernardo Provenzano arrestoBernardo Provenzano sta veramente molto male. E se perfino tre Procure della repubblica, quelle di Caltanissetta, Firenze e Palermo, hanno ritenuto si possa revocargli il regime carcerario duro (il 41/bis), io non capisco perchè la politica sia di parere opposto». Rita Bernardini, segretario di Radicali italiani, sta combattendo l’ennesima, solitaria e difficile battaglia di legalità per il più odiato fra i detenuti italiani. Lodevole battaglia, perché diritti e garanzie non sono divisibili, opinabili, differenziabili tra soggetti e soggetti. Eppure il ministero della Giustizia ha finora sempre confermato il regime duro per Provenzano: soprattutto imponendo limiti invalicabili ai colloqui con i suoi familiari.

Il boss mafioso, 81 anni trascorsi per metà in latitanza, condannato a tre ergastoli e in carcere dal 2006, nel 2012 ha tentato il suicidio. Da allora le sue condizioni di salute si sono continuamente e gravemente deteriorate (per questo è da mesi ricoverato nell’ospedale San Paolo di Milano) ed è ormai totalmente inebetito. Del resto, mesi fa Provenzano è stato perfino dichiarato incapace d’intendere e di volere dal tribunale di Palermo, che per questo ha stabilito dovesse essere sospeso il suo stato di imputato nel processo sulla cosiddetta «trattativa tra Stato e mafia», vista la sua impossibilità di partecipare alle udienze.

Ma oggi il boss è praticamente in fin di vita. Anche per questo, da una settimana, Rita Bernardini è in sciopero della fame. La segretaria radicale protesta anche contro l’ultima decisione del ministero della Giustizia. Il 27 marzo il ministro Andrea Orlando aveva negato la sospensione del carcere duro chiesta dall’avvocato del condannato, Rosalba Di Gregorio: «Risulta conclamata oggettivamente la pericolosità del detenuto» aveva scritto allora il Guardasigilli «quale capo indiscusso di Cosa nostra». Eppure la stessa Procura di Palermo aveva segnalato che, pur se effettivamente permane immutata la pericolosità di Provenzano, questi «non è in grado di comunicare compiutamente con l’esterno» a causa delle «condizioni di salute deteriorate».

Oggi pomeriggio si è poi appreso che saranno due medici legali di Milano e un criminologo(chissà perché un criminologo?) a dovere accertare se il boss debba o meno restare in carcere. Il tribunale di sorveglianza di Milano, competente territorialmente in quanto il capomafia ospedalizzato a Milano è formalmente detenuto a Opera, ha nominato i tre periti per verificare le condizioni del padrino di Corleone e se sia possibile un’eventuale sospensione dell’esecuzione delle pene che questi deve scontare.

A indurre i magistrati a valutare una possibile scarcerazione del boss è stato il certificato medico redatto dal responsabile del reparto Medicina 5 dell’ospedale San Paolo (Provenzano è ricoverato nel reparto detenuti del nosocomio milanese). Nel certificato il medico parla di “stato clinico del paziente gravemente deteriorato e in progressivo peggioramento”, di “stato cognitivo irrimediabilmente compromesso” e di “incompatibilita’ con il sistema carcerario”. Il parere del medico è stato inviato anche al Tribunale di sorveglianza che ha fissato un’udienza per l’eventuale differimento della pena.

Il problema è che i periti dovranno pronunciarsi entro il 3 ottobre. E non si capisce perché debbano servire addirittura tre mesi per la pronuncia: «Ma chissà se Provenzano sarà ancora vivo il 3 ottobre», chiosa con una nota di pessimismo l’avvocato Di Gregorio. E aggiunge: «Questa decisione mi sa tanto di rinvio, nella speranza che il condannato tolga il disturbo da solo».

Dichiarazione di Rita Bernardini, segretaria dei Radicali Italiani:

Con il sostegno di Marco Pannella e di almeno 150 cittadini, questo è per me il settimo giorno di sciopero della fame finalizzato ad interrompere la tragedia delle morti in carcere e la mancanza di cure che riguardano anche reclusi incompatibili con il regime di detenzione carceraria. Fra queste migliaia di casi è incluso anche il caso dell’ottantenne boss di cosa nostra Bernardo Provenzano che si trova ristretto in regime di carcere duro (41-bis) pur essendo incapace di intendere e di volere e con patologie gravissime. Sebbene sia ridotto al lumicino, leggo che il tribunale di sorveglianza di Roma ha rimandato la decisione sulla revoca del 41-bis al 3 ottobre, abbondantemente superate le ferie estive. In questo modo, una parte della magistratura e lo stesso ministero della giustizia, si contrappongono al giudizio di tre procure della repubblica (Palermo, Caltanissetta e Firenze) che si sono invece pronunciate per la cancellazione del “carcere duro” per Provenzano. Ma non solo. Abbiamo istituzioni che, quanto al rispetto di diritti umani fondamentali, si pongono allo stesso livello di criminalità di coloro che affermano di voler combattere.

Maurizio Tortorella

Panorama, 04 Luglio 2014

Firenze, Domani i Giudici decideranno sul bambino di 6 anni che vive in Carcere con la mamma


firenze_solliccianino33Domani il bambino di sei anni che vive con la mamma a Sollicciano, che è entrato in carcere a un anno e da lì non è più uscito, legato al destino di una madre che finirà di scontare la pena nel 2019, saprà la sua destinazione.

Se finalmente uscirà dall’unica casa che conosce ma che sa benissimo essere una galera e di cui diventa sempre più insofferente, finendo dentro una casa famiglia, come aveva stabilito il tribunale dei minori, o se andrà invece a Genova a casa dello zio paterno come chiedono la famiglia e la madre che ha fatto ricorso contro la decisione del tribunale. La Corte di Appello aveva sospeso lo scorso maggio la sentenza del tribunale dei minori e domani deciderà tra le due opzioni.

“Non ho visto il bambino che era al suo primo giorno di uscita con i campi estivi del Comune, ma ho incontrato la madre”, racconta Franco Corleone, il garante toscano dei detenuti che è entrato ieri mattina a Sollicciano insieme alla collega regionale per i minori, Grazia Sestini. Nessun garante fiorentino con loro anche se il carcere è a Firenze. “Sono stupito – dice Corleone – che nonostante io mi sia rivolto a suo tempo al Comune, l’amministrazione non abbia ancora nominato il garante cittadino.

È incomprensibile per la città capoluogo con il carcere più grande della regione”. Giacomo (questo il suo nome di fantasia) ieri era per la prima volta uscito.

“Ma la sera torna comunque in carcere, proprio quando le celle si chiudono e lui deve restare prigioniero”, sottolinea Corleone. Domani saprà se andrà dallo zio che è straniero, nigeriano, come il resto della famiglia, oppure da sconosciuti. “Mi sembrerebbe la soluzione migliore per un ragazzino che entrerà in prima elementare con problemi non piccoli – dice Corleone.

Lui è vissuto in carcere, gli altri bambini magari hanno già il primo telefonino, hanno sempre avuto una casa, sono stati sempre liberi. Almeno andrebbe in una famiglia che è la sua, capace non solo di assicurargli una continuità di rapporti quando la madre uscirà, ma già da adesso”.

Il garante spiega che lo zio ha moglie e figlio che sono già stati in carcere a conoscere il bambino, che hanno fatto amicizia. “D’altra parte le verifiche dicono che ha lavoro, una casa in affitto e che è regolare”.

Sembra dello stesso parere l’avvocato della madre, Silvia Barbacci che però non si spericola: “Spero davvero che la Corte d’Appello decida nell’interesse del minore ovviamente dopo avere fatto le verifiche necessarie e ascoltato il parere dei servizi sociali”. Intanto ieri Giacomo è tornato prigioniero nel cosiddetto nido di Sollicciano dove vivono solo lui e sua madre: “in questo momento non ci sono altri bambini”, racconta Corleone.

E anche se ci fossero sarebbero più piccoli. “Questo bambino è il più grande mai rimasto dentro un carcere, l’età massima è tre anni”, dice. Anche se dal 2011 è previsto che i figli di detenute possano restare con le madri fino a sei anni, ma in strutture speciali e diverse da Sollicciano “dove sabato scorso si è ucciso un altro detenuto, un trentaduenne morto secondo il carcere per avere semplicemente inalato troppo gas dalla bomboletta solo per stordirsi. Comunque sia, di carcere e in carcere è morto”, dice Corleone.

Ilaria Ciuti

La Repubblica, 1 luglio 2014

Caso Uva, il Pm chiede il proscioglimento di Carabinieri e Poliziotti dall’accusa di Omicidio


giuseppe-uvaAl via il processo per la morte dell’uomo arrestato nel 2008 da 6 poliziotti e un carabiniere. La procura chiede il proscioglimento degli imputati dall’accusa di omicidio preterintenzionale.

È un inizio amaro per il processo Uva. La prima udienza davanti al gup di Varese finisce con il procuratore Felice Isnardi che chiede il proscioglimento dalle accuse di omicidio preterintenzionale e arresto illegale dei sette uomini in divisa (un carabiniere e sei poliziotti) imputati per la morte di Giuseppe Uva, avvenuta il 14 giugno del 2008 dopo che l’uomo era stato arrestato e portato in caserma. L’accusa ha chiesto il rinvio a giudizio solo per l’abuso di autorità, un reato che, secondo le parole dello stesso pm, “non ha alcuna attinenza con l’evento morte”.

Parole che hanno lasciato parecchio perplessi i familiari di Giuseppe Uva. “Siamo decisamente sorpresi – dice l’avvocato Fabio Anselmo -, non si riesce a capire perché l’abuso di potere è stato contestato e tutto il resto, che è comunque attinente, no. Una decisione del genere non se l’aspettavano nemmeno gli imputati, ma si tratta delle richieste della procura, noi confidiamo nella decisione del giudice”. Il prossimo appuntamento in aula è fissato per il 30 giugno.

Il tribunale, intanto, ha deciso di accettare i sette nipoti di Uva come parti civili, mentre ha respinto la stessa richiesta avanzata dall’associazione “A Buon Diritto”, presieduta dal senatore del Pd Luigi Manconi. Intanto, la settimana prossima sarà Lucia Uva a doversi presentare davanti al giudice per il processo che la vede imputata per diffamazione nei confronti gli agenti.

L’intreccio giudiziario, a questo punto, si fa complicato: uno dei carabinieri ha chiesto di essere processato con rito immediato (dunque, dovrà rispondere di tutti i reati presenti nell’imputazione coatta formulata qualche mese fa dal gip Giuseppe Battarino), mentre gli altri sette aspettano e sperano: l’abuso di autorità rimane un reato meno grave dell’omicidio preterintenzionale. È un bel pasticcio procedurale; per lo stesso fatto rischiano di esserci due processi diversi, con differenti capi d’imputazione.

Poi, il pm Isnardi è lo stesso che, tre settimane fa, decise di ammettere come testimone la donna che alla trasmissione “Chi l’ha visto” sostenne che Uva fosse stato picchiato anche in ospedale. Tra le ipotesi più accreditate, allo stato attuale delle cose, c’è che l’accusa abbia scelto di contestare un reato per il quale ha maggiori possibilità di arrivare a una condanna. Un discorso che almeno dal punto di vista della strategia processuale ha una sua logica, ma che tuttavia lascia senza risposta la domanda fondamentale: come si spiega allora “l’evento morte” di Giuseppe Uva?

Nell’aprile del 2012 arrivò a sentenza il processo nel quale l’accusa ipotizzava il decesso per un incredibile caso di malasanità, talmente incredibile che il medico Carlo Fraticelli venne assolto perché “il fatto non sussiste”, con il giudice Orazio Muscato che ordinò alla procura di indagare su quanto successo nella caserma dei carabinieri di via Saffi.

I pm Agostino Abate e Sara Arduini, dal canto loro, per due volte nel giro dell’anno successivo arrivarono a chiedere l’archiviazione per le posizioni degli agenti, e alla fine il gip Battarino ci pensò da sé a formulare una richiesta di imputazione coatta per i reati di omicidio preterintenzionale, arresto illegale e abbandono d’incapace. Così, Abate e Arduini furono sostituiti da Isnardi, il Csm aprì un’inchiesta sulle modalità delle indagini condotte fino a quel punto, e tutto lasciava presagire che, finalmente, sarebbe cominciato un processo vero che avrebbe fatto luce su quello che è accaduto durante l’ultima notte di Uva.

Adesso, ogni cosa sembra tornata al punto di partenza: il caso resta un’odissea giudiziaria e la verità continua ad allontanarsi.

Sono passati sei anni ormai dalla morte del 42enne artigiano, e la prescrizione appare ormai dietro l’angolo. Con l’accusa di omicidio preterintenzionale, la ex Cirielli avrebbe allungato di almeno un anno il processo: un margine che sarebbe comunque strettissimo per attraversare tre gradi di giudizio, ma adesso il rischio è che non si riuscirà a concludere il primo processo. Tutto è nelle mani del gup di Varese, sarà lui che dovrà decidere se nasce o se muore il processo Uva.

Caso Magherini: denunciate “pressioni” dai carabinieri

Testimoni che raccontano di essere stati intimiditi dai carabinieri e un file contenente una registrazione con i dialoghi tra i volontari e centralinisti della Croce rossa che la procura non consegna ai familiari di Riccardo Magherini. Sono sempre di più le anomalie nell’inchiesta sulla morte dell’ex calciatore della Fiorentina, morto la notte del 3 marzo scorso dopo essere stato fermato dai carabinieri. Ieri si è tenuta a Firenze una manifestazione organizzata dalla famiglia per ricostruire le ultime ore di vita di Riccardo e non sono mancate le sorprese.

Tra queste c’è un file audio in cui gli operatori della Cri intervenuti a Borgo San Frediano la notte del 3 marzo discutono con il centralino sugli orari dell’intervento. Quando l’avvocato Anselmo, legale della famiglia Magherini, ha chiesto alla procura le registrazioni telefoniche di quella notte, ne ha ricevute solo 13.

Il 14eseimo file, quello che sembrerebbe essere più interessante, è spuntato fuori solo in seguito e solo perché consegnato alla famiglia dalla Asl. Ieri sono state presentati anche i racconti di due testimoni, due donne che hanno detto di aver subito pressioni dai carabinieri che le interrogavano. Una, in particolare, ha ricordato di aver detto e chiesto che venisse messo a verbale che i carabinieri avevano preso a calci Magherini quando si trovava a terra, ma che i militari hanno verbalizzato sue parole solo dopo le sue insistenze.

di Mario Di Vito

Il Manifesto, 10 giugno 2014

Carceri : Detenuto suicida a Firenze. E’ il 61° “morto di pena” del 2014


Carcere Firenze SolliccianoUn detenuto marocchino di 40 anni si è suicidato oggi pomeriggio nella sua cella nella 13/a sezione del carcere fiorentino di Sollicciano. A renderlo noto è il segretario generale dell’Osapp, Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, Leo Beneduci, il quale sottolinea che si tratta del “61esimo morto in carcere dall’inizio dell’anno e il 17esimo per suicidio”.

L’uomo si è barricato nel bagno della cella che condivideva con altri due detenuti ed ha inalato il gas di una bomboletta che serviva ad alimentare un fornellino. A nulla è servito il tentativo degli agenti di polizia penitenziaria e del medico del carcere che hanno cercato di rianimarlo. “Il suicidio – dice Beneduci – si è verificato in una sezione protetta, nella quale doveva anche realizzarsi la cosiddetta sorveglianza dinamica, a riprova di un modello detentivo destinato a fallire prima di realizzarsi”.