Le Carceri in Italia costano circa 3 miliardi di euro l’anno ma producono uno dei tassi di recidiva più alti d’Europa


Casa CircondarialeIl sistema penitenziario italiano costa al contribuente circa 3 miliardi di euro l’anno, ma produce uno dei tassi di recidiva più alti d’Europa. È un grande paradosso, conseguenza di molteplici fattori che possono essere sinteticamente riassunti in un dato di fatto; la galera è stata pensata più per l’afflizione che per il ravvedimento.

È un carcere punitivo e infantilizzante quello italiano, dove il recupero e la rieducazione passano prevalentemente per l’obbedienza e la sottomissione ai regolamenti e all’istituzione. La Riforma penitenziaria del 1975 aveva cominciato a recepire i principi dell’articolo 27 della Costituzione che, tra l’altro, dichiara che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.
Dopo questa legge non sono stati fatti quegli ulteriori passi in avanti necessari a trasformare le prigioni da luoghi di mera custodia, a occasioni per sviluppare percorsi di cambiamento e riscatto sociale che spingessero a sganciarsi dalle maglie della criminalità. C’è da dire che, mentre in questi anni la società ha subito grandi trasformazioni, il carcere è rimasto uguale a se stesso.

Una istituzione deresponsabilizzante, dove il periodo della detenzione è contrassegnato per lo più da un ozio forzato che fa sprecare il tempo che dovrebbe essere invece impiegato per la risocializzazione, e per un vero ripensamento della propria vita. Nelle nostre prigioni la routine e il linguaggio di tutti i giorni spingono i detenuti verso una dimensione passiva e infantile che riesce al massimo a formare un buon detenuto, ma non certamente un buon cittadino. È uno spaccato che emerge anche dalle lettere scritte da Enzo Tortora alla sua compagna durante i mesi trascorsi in carcere, pubblicate durante l’estate da Il Mattino. È una straordinaria descrizione della quotidianità vissuta all’interno dei penitenziari. “Sapessi – scriveva Tortora – cos’è l’umiliazione di dover scrivere ogni cosa, la più rutile come una lametta da barba, una lozione, un telegramma che verrà letto prima, in fondo a una domandina”. Si dice proprio così – aggiungeva – come all’asilo. E con tanto di “con ossequio” finale.

La “domandina” è il modello attraverso cui i detenuti possono fare ogni tipo di richiesta: il lavoro, i colloqui con i volontari, l’accesso ai corsi professionali, le visite mediche e la spesa settimanale. Sono passati oltre 30 anni ma il carcere è rimasto sempre identico a se stesso, nella terminologia come nei ritmi della vita ordinaria. La conta, le ore d’aria, le giornate sempre uguali nelle celle, dove “il tempo è un gocciolare interminabile, inutile, assurdo”, e solo se sei fortunato puoi partecipare a qualche attività lavorativa o rieducativa. Il detenuto modello è quello che non crea problemi e come i bambini non deve arrecare disturbo. In questo modo, i carcerati vengono deresponsabilizzati e non diventano i protagonisti del loro percorso di riscatto e di reinserimento nella società. C’è una enorme sproporzione tra l’enorme numero di agenti di polizia penitenziaria presenti nelle nostre carceri e quello di educatori, assistenti sociali, per non parlare degli psicologi, specie ormai in estinzione. I premi e i benefici sono concessi solo per la buona condotta e per l’assenza di sanzioni disciplinari.

Si tratta invece di coinvolgere chi ha avuto comportamenti devianti in processi di revisione personale, che devono produrre cambiamenti determinanti, attraverso condotte riparatorie nei confronti di chi ha subito violenza, o nella partecipazione concreta a rendere migliori le condizioni del carcere in cui si vive, solo per fare qualche esempio. Succede che chi è impiegato in una attività retribuita non ha la dignità di lavoratore, diventa un participio e viene chiamato “lavorante”.
Anche le mansioni vengono sminuite nelle prigioni. Chi raccoglie gli ordinativi della spesa dei detenuti assume l’incarico di “spesino”, chi è addetto a spazzare nei luoghi comuni è lo “scopino”. Proprio qualche tempo fa mi è capitata tra le mani una domandina che chiedeva “umilmente alla stimatissima Signoria Vostra di poter effettuare un breve colloquio con il volontario”. Le notizie di cronaca talvolta ci parlano di detenuti modello che usciti in permesso premio o per fine della pena, commettono reati che appaiono poi inspiegabili agli operatori penitenziari. Chi, invece, durante la carcerazione manifesta un disagio, magari con gesti violenti o autolesionistici viene isolato e tanto spesso trasferito in altro penitenziario, per evitare ulteriori problemi, senza capire che dietro quei comportamenti ci potrebbero essere malesseri o domande inespresse. Il clima di paura e la domanda di sicurezza della nostra società hanno avuto una grande influenza nel determinare un approccio esclusivamente punitivo.

Chiudere in cella chi ha commesso reati e buttare la chiave non è solo uno slogan, ma è tutto un modo rassicurante e liberatorio di concepire l’esecuzione della pena. Tuttavia il carcere che umilia i detenuti aumenta la recidiva e non la sicurezza. Questo strabismo sociale è stato colto negli Stati generali dell’esecuzione penale, promossi dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. Una discussione articolata in 18 tavoli tematici a cui hanno partecipato operatori del mondo penitenziario, accademici, volontari, intellettuali. Questo confronto dovrebbe produrre alcune proposte di modifiche legislative in materia di esecuzione delle pene. Perché non lo dimentichiamo, la Costituzione parla di pene al plurale, ricordando così che la detenzione non è l’unico modo per scontare una sanzione penale. Il dibattito dovrà continuare nei prossimi mesi per contribuire a quel cambiamento culturale che dovrà trasformare chi è recluso da buon detenuto a buon cittadino. Guai a fare passi indietro sulle carceri. È un’utopia ? Edoardo Galeano, intellettuale uruguaiano, ricordato proprio negli Stati generali, diceva che “l’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo, serve per continuare a camminare”. Ma nel frattempo perché non cominciare a modificare subito il linguaggio delle nostre galere?

Antonio Mattone

Il Mattino, 19 ottobre 2016

“Dopo 33 anni non è cambiato nulla. Il tormento di Enzo Tortora è stato inutile”


tortoraFrancesca Scopelliti ha presentato il libro con le lettere di Tortora. Trentatré anni. Tanto è trascorso dall’arresto di Enzo Tortora, ma le sue Lettere a Francesca, scritte in carcere e raccolte in un volume presentato ieri nei locali della Camera di Commercio di Roma, sono di “estrema attualità”, come ha sottolineato il presidente dell’Unione delle camere penali Beniamino Migliucci. L’autore delle missive, lette dall’attore Enzo Decaro, il celebre giornalista e presentatore televisivo, di colpo chiamato a rispondere di accuse gravissime: associazione camorristica e spaccio di droga.

La compagna, Francesca Scopelliti, ha ricordato che la loro era “una storia d’amore piuttosto recente. La separazione forzata fu ancora più dolorosa perché originata da un obbrobrio giuridico, un’infamia ingiustificata, la protervia di due magistrati della Procura di Napoli, che volevano a tutti i costi un colpevole. Più emergeva che Enzo era una persona perbene e non si trovavano riscontri, più i giudici si accanivano alla ricerca di nuovi pentiti. I media lo hanno subito condannato, ma lui è stato un grande esempio, dimettendosi da parlamentare europeo per proseguire la battaglia sulla giustizia giusta”.
Il drammatico errore giudiziario sembra però non avere insegnato nulla: “La tristezza più grande è che ci si è fermati a trent’anni fa: il sistema penale-carcerario è rimasto immutato, nessuno è corso ai ripari. I malesseri che Enzo denuncia nelle sue lettere vivono nella nostra quotidianità. Il ministro della Giustizia dovrebbe tenere conto della sua storia”.

Presenti due testimonial d’eccellenza, Giuliano Ferrara, che ha firmato anche la prefazione del volume, ed Emma Bonino, che da decenni si batte sul tema. L’ex direttore del Foglio ha evidenziato che dalle lettere emergono “amore, umanità, personalità, il rapporto con la sorella, le figlie e soprattutto la compagna. La verità è che il “pentito dire” e il partito preso si erano appropriati del meccanismo giudiziario e lo trascinavano verso il basso, dove erano schiacciati Tortora e molti altri cittadini, come i famosi omonimi, che furono arrestati e detenuti a Poggioreale, distrutti da un’indagine che ha dato luogo a un processo che definire discutibile è un eufemismo grave”.
Anche Ferrara ha acceso i riflettori sull’assenza di provvedimenti conseguenti: “Un referendum sollecitò l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati, ma poi non si intervenne in modo significativo e non vi è stata la separazione delle carriere, per cui uomini come Falcone si erano spesi. Purtroppo tutte le classi dirigenti fanno un patto con i giudici, perché ne hanno paura. Il caso Tortora evidenziò per la prima volta l’onnipotenza della magistratura”.

“All’epoca i giornali dopo l’arresto non furono certo innocentisti – ricorda con amarezza la Bonino. I Radicali, Biagi e Sciascia le uniche voci fuori dal coro. Da allora Marco Pannella e Rita Bernardini non hanno mai interrotto una battaglia che oggi deve continuare. La conseguenza d’altronde è il disastroso stato delle carceri. Per riaffermare pienamente lo Stato di diritto attendiamo ancora le grandi riforme, come l’obbligatorietà dell’azione penale. Enzo ha insegnato ai giovani cos’è la dignità, non arrendendosi mai, neppure nei momenti di sconforto. Purtroppo abbiamo perso la memoria e la vista, guardiamo solo l’ombelico”. Migliucci ha aggiunto che il libro “non è solo una testimonianza di rabbia, dolore e sofferenza ma offre tanti spunti. Dalla separazione delle carriere al pubblico ministero collegato al giudice, dalla gestione dei pentiti alla custodia cautelare, che da “extrema ratio” si è trasformata in carcerazione preventiva. La condotta successiva a quando ha ottenuto Enzo giustizia e le sue lettere lanciano un messaggio e la speranza che il Paese possa migliorare. Questo dramma deve portare a una riflessione collettiva sulla presunzione d’innocenza, sull’esecuzione della pena e sul carcere, inteso come risocializzazione e rieducazione e non come vendetta.

Temi che saranno sostenuti dagli avvocati penalisti, mentre l’assenza della politica oggi è colpevole e imbarazzante”. Ha fatto discutere, in particolare, la mancata concessione di una sala in Senato, giustificata dall’assenza di “finalità istituzionali”. “Spero non sia stata dettata dal passato di magistrato del presidente Grasso. Sarebbe un’ulteriore ferita” ha commentato con amarezza la Scopelliti. Ad attenuare il caso la lettera inviata dall’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: “Enzo Tortora ha subito torti e sofferenze. Indagini e sanzioni penali non sono state fondate su basi probatorie adeguate. Problemi di sistema e di clima che restano ancora aperti”.

Francesco Straface

Il Dubbio, 18 giugno 2016

Cappato (Radicali) : Inutile inasprire le pene, rappresenta soltanto l’impotenza dello Stato


On. Marco CappatoIn un articolo sugli “Eccessi di riforma” della giustizia italiana, apparso su Il Messaggero di lunedì 25 maggio, Carlo Nordio censura l’incompetenza del legislatore. Ha ragione da vendere, Nordio: nel complesso e articolato quadro dei problemi che affliggono la giustizia nel Paese, l’incapacità professionale di chi ha la responsabilità di dettare le regole viene prima di qualsiasi valutazione politica.

Nel diritto penale sostanziale e processuale, di questi tempi l’incompetenza del legislatore si esprime in una specifica inclinazione a produrre leggi che, da un lato, inaspriscono le pene e, dall’altro, allungano i tempi della prescrizione. In realtà, chi è propenso ad attività delittuose non se ne astiene al pensiero dell’entità della pena che rischia, ma se mai a quello di una giustizia che funziona e che, anzitutto per questo, induce rispetto. L’inasprimento delle pene più che altro esprime dunque l’impotenza dello Stato che, quanto meno sarà in grado di punire, tanto più mostrerà i denti con i quali morderebbe se fosse in grado. In particolare, come ha detto e scritto Mario Baldassarri ad altro proposito, l’aumento delle pene comminabili per il reato di corruzione farà aumentare il prezzo della condotta del reo, ma non modificherà le statistiche della commissione del reato.

E l’allungamento dei tempi della prescrizione, in parte come effetto legale automatico dell’aumento delle pene, in parte per diretta disposizione, produce come unico risultato che i cittadini imputati di reati possono trovarsi a do-vere attendere tempi ancora più lunghi prima che i processi si concludano – peraltro di frequente non con la pronuncia di una sentenza definitiva, ma, come in precedenza, con il compimento della prescrizione.

Il legislatore sa che dell’inefficienza della giustizia spesso si avvalgono gli avvocati, contribuendo volontariamente a che il processo penale duri fino a che il reato del quale è imputato il cliente si estingua in esito al maturare del termine di prescrizione; al che il legislatore reagisce allungando il tempo a disposizione della magistratura per completare il processo prima che il termine maturi, forse pensando che la paradossale irraggiungibilità della tartaruga da parte di Achille non sia poi tanto irrealistica, se la corsa viene resa praticamente infinita.

Di nuovo, dunque, il legislatore fornisce denti da mostrare, che il magistrato potrà usare proprio sul presupposto dell’abnorme durata dei processi penali, in qualche modo confermato come normale e del quale anzi gli è implicitamente rivolto l’invito ad approfittare. Un paio di settimane addietro, nel corso di un incontro presso l’associazione radicale milanese Enzo Tortora, il parlamentare membro della Commissione giustizia Stefano Dambruoso ha diffusamente parlato, appunto, del progetto relativo all’aumento delle pene e all’allungamento dei tempi di prescrizione del reato di corruzione.

Nell’occasione, alla quale ero presente, ho esposto quanto nuovamente espongo qui, citando anche il pensiero di un bravo giudice che ho conosciuto in tempi ormai lontani, il cui assunto centrale è che, riguardo alla prescrizione del reato nel processo penale, il legislatore dovrebbe adottare una disciplina analoga a quella che vige riguardo alla prescrizione del diritto azionato nel processo civile.

In sede civile, la prescrizione di un diritto è interrotta dall’inizio di un giudizio, o dalla domanda proposta nel corso di un giudizio già iniziato, e dall’interruzione inizia un nuovo periodo di prescrizione che, peraltro, non corre fino al momento in cui il giudizio è definito con sentenza passata in giudicato; dunque, il trascorrere del tempo nel quale si svolge la vicenda processuale non influenza la prescrizione del diritto – salvo rimanendo il caso che il processo si estingua in esito ad abbandono per inattività delle parti, o a loro rinuncia in ragione di intervenuti accordi conciliativi, o ad altro.

In sede penale, invece, dall’interruzione la prescrizione comincia nuovamente a correre e, raggiunti determinati traguardi, si compie determinando l’estinzione del reato; indipendentemente dalla condotta sia dei giudici che degli imputati, per il solo trascorrere del tempo. C’è da chiedersi il perché delle due differenti discipline della prescrizione, quali siano gli effetti di quella in sede penale e cosa, in un’ottica riformatrice, si potrebbe ipotizzare di cambiare.

Alla prima domanda, l’usuale risposta è che il cittadino imputato non può rimanere indefinitamente in attesa di giudizio, mentre l’attore e il convenuto in sede civile se la possono vedere tra di loro, arrangiandosi in qualche modo; alla quale considerazione viene spesso aggiunto che, se venisse meno il rischio del compimento della prescrizione durante lo svolgimento del giudizio penale, verrebbe anche meno qualunque propensione dei giudici ad adoperarsi, lavorando duramente, al fine di sventarlo, con conseguente aumento dell’inefficienza del sistema giudiziario. Lode dunque al Codice Rocco del 1930, che ha dettato i principi ancora oggi vigenti in tema di prescrizione del reato – elaborati, comunque, in epoca nella quale il numero delle prescrizioni era infinitamente minore di quello odierno.

La replica viene in primo luogo dalla Carta costituzionale: il cui art. 111, nel dettare ai commi I e II che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge” la quale “ne assicura la ragionevole durata”, non si riferisce, come invece distintamente fanno i commi che seguono, al processo penale, ma al processo tout court e quindi non solo al processo penale, ma anche a quello civile; né tanto meno attribuisce all’imputato una tutela “privilegiata” rispetto a quella della parte di un processo civile.

Dunque, sul piano dei principi, è sensato concepire che la ragionevole durata di ogni tipo di processo (anche amministrativo, tributario, eccetera) sia regolata in modo omogeneo anche per quanto concerne la prescrizione dei diritti che in esso si facciano valere, compresi quelli dello Stato. Inoltre, a sostegno dell’opportunità di una conforme disciplina degli effetti del decorso del tempo nei vari tipi di processo, sul piano pratico non va trascurato il fatto che l’estenuante durata di un importante processo civile può rappresentare per un cittadino un problema non meno grave della perdurante pendenza di un importante processo penale e, anzi, molto più grave di quella di un processo penale per fatti di modesto rilievo o, comunque, senza carcerazione preventiva.

Né, con riferimento al preteso aumento dell’inefficienza del sistema giudiziario, sembra potersi immaginare qualcosa di peggio di una situazione come quella che si produrrebbe con l’entrata in vigore di una legge come quella allo studio sul reato di corruzione, nella quale il corso dei nuovi termini prescrizionali coprirebbe in molti casi una porzione fondamentale della vita dell’imputato, poco distinguibile da una situazione caratterizzata dall’assenza di termini.

L’attuale disciplina della prescrizione in sede penale, ha innegabilmente l’effetto di indurre gli imputati ad adottare una linea difensiva che spesso ha il centrale obbiettivo di fare trascorrere il tempo necessario affinché maturi la prescrizione del reato. Tale risultato è perseguibile in quanto un termine di prescrizione che possa maturare durante il processo esista, per quanto lontano: se tale termine mancasse, come manca nel diritto civile, le difese dilatorie perderebbero la loro ragione di essere.

L’assenza di un termine di prescrizione del reato che possa maturare durante il processo penale, in primo luogo, consentirebbe ai magistrati di disporre di tempo per la gestione dei processi senza essere “incalzati” dal termine di prescrizione, evidentemente ancor più che potendo contare su un termine di prescrizione di grande lontananza; in secondo luogo, l’assenza del corso della prescrizione dei reati durante i processi accelererebbe la speditezza di quelli pendenti e ne ridurrebbe notevolmente il numero.

In altri termini, se divenisse operativo il principio per cui, come il diritto fatto valere in un processo civile, anche il reato oggetto di un processo penale non si può prescrivere durante il relativo corso, avrebbe luogo senza alcun costo un importante effetto deflattivo sia delle condotte difensive dilatorie nei processi di primo grado, che della promozione dei processi di secondo grado e di legittimità avanti alla Corte di cassazione, alle quali gli imputati che mirano alla prescrizione del reato loro ascritto non avrebbero più alcun interesse.

Al che il legislatore potrebbe aggiungere la previsione di depenalizzazioni, di sanzioni alternative, di nuovi tipi di “patteggiamento” e di altri riti alternativi attuabili in qualunque stadio anche avanzato del processo, unitamente a una completa riorganizzazione dei servizi: così indicando e iniziando a percorrere una strada riformatrice ben più promettente di quella, velleitaria e inconcludente, dell’inasprimento delle pene e dell’allungamento dei termini di prescrizione.

Marco Cappato

Il Garantista, 3 giugno 2015

E’ giusto che chi sbaglia paghi. Il Governo favorevole alla responsabilità dei Magistrati


La responsabilità civile delle toghe è il punto sei della riforma della giustizia. Orlando ha pronto il testo. No al risarcimento diretto. Le somme saranno prelevate dallo stipendio. È giusto che chi sbaglia paghi. Anche tra i magistrati. Il governo Renzi intende rompere anche questo tabù. Gli uffici del ministero della Giustizia hanno già preparato un testo, un disegno di legge di circa una decina di articoli che difficilmente piaceranno del tutto alle toghe visto che è previsto il risarcimento da parte dello Stato che farà il prelievo dallo stipendio del magistrato che ha sbagliato “per dolo o colpa grave”. È il punto 6 delle linee guida della riforma della giustizia che, annunciata il 30 giugno scorso, da qualche giorno campeggia sotto forma di fiore sulla home page del ministero. Ogni petalo, un punto della riforma. Il Guardasigilli ha dato due mesi di tempo per i contributi esterni, via mail, all’indirizzo rivoluzione@governo.it.

Poi i testi, il più possibile condivisi, cominceranno il loro iter parlamentare. Inutile dire che la questione sia incandescente. Era il 1988 quando, sull’onda di un referendum richiesto dai Radicali, l’80 per cento degli italiani votò a larga maggioranza a favore della responsabilità civile dei magistrati. Il caso Tortora aveva sconvolto l’opinione pubblica. E quella sembrò la giusta e necessaria risposta. Solo che la legge Vassalli, nata da quel referendum, da allora è riuscita a condannare quattro magistrati. Decisamente pochi rispetto al numero di errori giudiziari che sono stati commessi. Da allora il tema è sempre stato un problema in cerca di soluzione ma mai veramente affrontato perchè una delle tante questioni legate alla giurisdizione vittime del clima da derby ideologico che ha congelato ogni problema legato alla giustizia nel ventennio berlusconiano. L’inerzia, alla fine, ha provocato un comune sentire per cui ancora oggi per l’80 per cento dei cittadini chiede che anche i magistrati siano sottoposti a una forma di risarcimento per i danni provocati. E alcune mostruosità legislative.

Ad esempio la norma del leghista Pini che introduce la responsabilità civile diretta ed è già stata approvata da un ramo del Parlamento (la Camera) nell’ambito della più vasta norma comunitaria che riguarda succhi di frutta e richiami ornitologici per i cacciatori. È l’Europa infatti che chiede di provvedere all’ennesimo vuoto normativo italiano. “Soltanto lo Stato, ove abbia dovuto concedere una riparazione, può richiedere l’accertamento di una responsabilità civile del giudice attraverso un’azione innanzi ad un tribunale” si legge nella Raccomandazione n° 12/2010 del Comitato dei ministri agli Stati membri del Consiglio d’Europa. Ora la legge comunitaria, quella con la norma Pini, potrebbe arrivare al Senato per essere approvata.

La Commissione Giustizia del Senato, a firma del senatore socialista Enrico Buemi, ha pronto un testo relativo alla responsabilità civile che potrebbe sostituire in corsa la norma Pini e viaggiare con la legge comunitaria. Ma tutto è stato bloccato. In attesa del testo del ministro Orlando. Che condivide alcuni passaggi fondamentali del testo Buemi. Certamente la responsabilità civile non sarà diretta: il cittadino che ritiene di aver subito un torto dal suo giudice che ha agito “con dolo o colpa grave”, non potrà mai rivalersi, come succede per altri professionisti, direttamente davanti a un giudice civile e pretendere il risarcimento. La rivalsa, cioè, sarà sempre filtrata dallo Stato che “avrà poi la possibilità di prelevare direttamente ogni mese fino alla metà dello stipendio del magistrato giudicato colpevole”.

Il governo condivide, anche, “l’eliminazione di tutti quei filtri di ammissibilità che finora hanno reso nei fatti inapplicabile la legge Vassalli”. Via i filtri, dunque. Resta da chiarire “chi definisce il dolo e la colpa grave”. Quali sono i confini della responsabilità del magistrato, quando veramente sbaglia e perchè. E il fatto che “la rivalsa del singolo cittadino debba essere sottoposta a un giudizio di ammissibilità”. “Faremo di tutto – si spiega dal ministero – per evitare che nelle pieghe del disegno di legge ci siano rischi di scivolamento in forme di responsabilità diretta “. Così come “faremo di tutto per tutelare l’indipendenza della magistratura e i diritti dei cittadini ed evitare che da queste norma possano derivare condizionamenti di sorta”. La magistratura è pronta alla battaglia e mette in guardia, come dice il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli, “dagli effetti paralizzanti e distorsivi” che una norma scritta male può avere su tutta la giurisdizione. E però stavolta i tempi sono maturi e non più rinviabili. I magistrati che sbagliano dovranno risarcire il danno.

Claudia Fusani

L’Unità, 14 luglio 2014

“Taci Di Persia, sei un pessimo magistrato e una soubrette, un uomo di un’arroganza demenziale” Francesca Scopelliti


Felice Di Persia - Magistrato«Quando Di Persia fu eletto al Csm dopo aver condannato Tortora, l’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, si rifiutò di stringergli la mano. Per Di Persia parla la storia». Raggiunta al telefono da Il Garantista Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora nel suo calvario giudiziario prima, e nelle file dei Radicali poi, non riesce a capacitarsi. L’intervista che Felice Di Persia, il titolare dell’inchiesta che mise alla sbarra Enzo Tortora, ha concesso al Velino a proposito della condanna di Tortora, e delle scuse di Diego Marmo rivolte ai familiari del presentatore dalle nostre colonne, la lascia una volta di più esterrefatta.

Dopo Diego Marmo, che ha rotto il lungo silenzio per fare le scuse ai familiari, anche Di Persia ha deciso di parlare. Che cosa ne pensa delle sue dichiarazioni?
Penso che quanto meno, anche se non posso accettarle perché tardive e insufficienti, Marmo ha fatto le sue scuse. Spero che gli siano utili a pacificarsi con la sua coscienza. Di Persia, visto quello che ha detto, ha perso invece un’ottima occasione per tacere. Sarebbe stato più dignitoso per lui restare in silenzio.

Che cosa l’ha turbata più di tutto delle dichiarazioni di Di Persia?
Di Persia ha confermato ancora una volta quello che allora apparve evidente a tutti: c’era il progetto di crocifiggere Tortora. C’era un piano, studiato a tavolino per fare di Enzo il condannato eccellente, da dare in pasto all’opinione pubblica in nome della vanità e dell’esibizionismo.

Colpisce molto, nell’intervista concessa, la maniera in cui Di Persia commenta la sentenza di assoluzione di Tortora. ”Non ritennero le prove raccolte idonee a una condanna: questo fa parte della fisiologia del processo. Dunque non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura”.
Sono parole che si commentano da sole. Di Persia non è disposto a tornare indietro, si arrocca nelle posizioni di trent’anni fa e in buona sostanza rivendica l’assurda pretesa di avere avuto ragione a perseguitare un innocente. Una questione di soubrettizzazione.

Che cosa intende di preciso?
Basterebbe guardare i titoli e i giornali di allora per comprendere quali benefici mediatici si sono assicurati quelli come Di Persia. Si facevano ritrarre in atteggiamenti sportivi, come piccoli eroi da rotocalco o moderne soubrette. Erano diventati personaggi pubblici grazie alla persecuzione di un personaggio pubblico vero, amato, da scagliare nella polvere e umiliare.

Di Persia dichiara a un certo punto che “Marmo c’entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell’accusa”.
È una chiosa che aggrava ancora di più la sua posizione e che ribadisce quello che ho sempre detto. Mi fa piacere che dopo trent’anni anche Di Persia concordi con me: fa passare il pubblico ministero di quel processo come il commediante di un’enorme farsa. Esattamente quello che ho sempre pensato.

Di Persia ha invitato tra l’altro Marmo, a suo dire ”il primo magistrato pentito della storia” ad autocancellarsi dalla vita sociale per dimostrare il suo pentimento.
È una frase dal sen sfuggita, del tutto rivelatrice di una mentalità castale che tratta Marmo alla stregua di un pentito da isolare secondo la tipica mentalità del clan. Allora ci fu perfetta concordia tra pm e giudici istruttori. Lucio Di Pietro e Felice Di Persia inchiodarono Tortora. E ora che qualcuno ha fatto un passo indietro, si è rotto il sacro sigillo di quella istruttoria che ancora Di Persia difende senza un briciolo di rimorso.

Ha infatti specificato che non ci furono errori giudiziari nella sua inchiesta. E che l’assoluzione di Tortora fa parte della dialettica processuale. Nessun cenno al carcere e alla malattia di Tortora. Ha definito l’assoluzione del presentatore come parte della “fisiologia del processo”.
Espressioni di questo genere dicono ancora una volta di quanta demenziale presunzione è nutrito il personaggio di Di Persia. Più delle mie considerazioni, valgono le moltissime pagine che spinsero i giudici dell’appello a spazzare via menzogna dopo menzogna, il castello di carte costruito da Di Persia e Di Pietro.

Di Persia rivendica ancora la correttezza del suo operato. Nessun rammarico, sembra.
Erano eccitati dal brivido di incastrare un personaggio noto ed amatissimo da 26 milioni di persone. In nome di questo progetto ne sacrificarono sull’altare la sua innocenza per ergersi a giustizieri e prendersi le luci della ribalta. Se non fosse così protervo e arrogante, Di Persia dovrebbe aprire il dispositivo di sentenza e rileggersi parola dopo parola, le prove dell’assurdità delle sue invenzioni. Lo spiega la sentenza d’appello quale fu la qualità del lavoro di Di Persia.

Si riferisce alla famigerata ”nazionale dei pentiti”?
Costruirono un’accusa fondata su calunnie ed infamie, alcune persino ridicole come quelle di Margutti e della valigetta di droga. È la sentenza dell’appello che meglio di me ha espresso quali considerazioni si possono fare sull’operato di Di Persia. Fu un pessimo magistrato che sparò nel mucchio e lavorò all’ammasso: colpevoli e innocenti nello stesso calderone indistinto.

Che cosa le ha raccontato di lui Enzo Tortora?
Le riferisco soltanto un piccolo particolare. Spesso, al termine di estenuanti interrogatori, Di Persia guardava Enzo negli occhi e gli sibilava: «Buona fortuna». Gli lasciava intendere che l’avrebbe stritolato. Era come mi scriveva Enzo dal carcere: “Questi, per salvarsi la faccia, fottono me”. È quello che fecero.

Nell’intervista, Di Persia dà a Marmo del ”magistrato pentito”. È come se l’ex procuratore, con le sue scuse, avesse rotto una sacra alleanza. Un gesto umano, che dal resto della casta viene letto come una sorta di tradimento, il primo della storia.
La reazione di Di Persia spiega meglio di molti ragionamenti perché è impensabile sperare che i magistrati possano autoriformarsi da soli. Ma allo stesso tempo, come è evidente da anni, è piuttosto ingenuo pensare che la politica possa giungere a un’autentica riforma. Il Parlamento vive sotto ricatto. E l’intervista di Di Persia è l’ennesimo capitolo di una storia di sacro terrore verso un potere assoluto e intoccabile, che si chiama magistratura italiana.

Francesco Lo Dico

Il Garantista, 07 Luglio 2014

Ottaviano Del Turco: “Io Torturato come Enzo Tortora”


On. Ottaviano Del TurcoOttaviano Del Turco è un uomo che sa sorridere. Vive una delle più incredibili vicende giudiziarie degli ultimi anni. Eppure non smette di scorgere nelle cose il loro verso paradossale. Solo così può accarezzare la vita che a un certo punto lo ha sottoposto a una prova terribile. «Nessuno può avere idea di cosa sia un processo come il mio, se non ci sta dentro. Solo da dentro si vedono tutti i dettagli di una tortura processuale come quella che ho vissuto, anche quelli piccolissimi». Non sono stati anni da incorniciare, questi ultimi sei, per Del Turco. Ma l’ex numero due della Cgil («l’immagine a cui tengo di più»), che è stato anche segretario del Psi, parlamentare antimafia, ministro e poi presidente dell’Abruzzo, questo signore contro il quale sei anni fa ci si è avventati con gli artigli della ferocia forcaiola più cieca, non smette di amare i suoi quadri, di passeggiare per la sua Collelongo, di gustarsi la solitudine che è anche benefico distacco. Né gli costa fatica raccontare i dettagli anche paradossali e comici della sua odissea processuale. Un pezzetto di questa storia è riemerso in tempi recenti: qualche settimana fa (il Garantista ne ha parlato domenica scorsa), i Pm di Chieti hanno spiegato ai giudici dov’era andato a finire il “tesoro” dell’uomo che accusa Del Turco: Vincenzo Angelini, ex re delle cliniche abruzzesi, la cosiddetta gola profonda che ha raccontato la storia delle tangenti scambiate con sacchi di mele, un uomo accusato di bancarotta per cifre colossali, avrebbe trasferito la bellezza di 100 milioni di euro alle Antille Olandesi. La Procura spiega di aver trovato le “contabili”, cioè le prove certe. Era tutto nell’hard disk di un commercialista, un certo Marco Rovella. Un uomo così pieno di sorprese, Angelini, uno che secondo l’inchiesta di Chieti avrebbe fatto fallire un impero di cliniche private per mettere da parte 100 milioni ai Caraibi, ha goduto di una considerazione assoluta da parte dei giudici di Pescara. Gli hanno creduto e hanno condannato Del Turco in primo grado a 9 anni e 6 mesi. «Quasi come Tortora», fa notare l’ex governatore, uno dei pochi passaggi in cui la voce si fa un po’ più arrabbiata.

Senta Onorevole, è chiaro che non ci sono certezze. Non ce ne sono della sua colpevolezza, non possiamo dire di averne neppure del supposto magheggio caraibico di Angelini. Ma le è mai passato per la testa, in questi anni, che dietro le accuse potesse nascondersi un presunto tesoro?

È stato evidente fin dall’inizio.

Evidente a chi?

A me che gli avevo fatto le leggi contro.

Quali leggi?

Prima che diventassi presidente della Regione, Angelini, proprietario di un gruppo come Villa Pini, stracolmo di convenzioni, riceveva i rimborsi a pie’ di lista. Diceva di aver erogato prestazioni per un determinato costo, e la Regione pagava.

Poi cos’è successo?

Che le delibere della mia giunta e le leggi approvate in Consiglio regionale hanno messo fine a quella follia. Ed evidentemente gli hanno creato dei problemi.

L’ha accusata per questo?

No. Angelini è stato passato al setaccio dal Nas dei carabinieri alcuni mesi prima che io fossi arrestato. Ai pm l’Arma ha detto: questo signore andrebbe arrestato. Nel momento in cui la Procura di Pescara comincia a mettere sotto torchio Angelini, una perizia accerta che 60 milioni del suo patrimonio sono già stati trasferiti dai conti delle cliniche ad altre imprecisate destinazioni.

Cosa gli succede?

Il procuratore capo Trifuoggi gli dice che tutto appare incomprensibile se non lo si ricollega a un meccanismo esiziale di concussione. Gli dice: lei questi soldi li deve accantonare per la politica, è l’unica spiegazione.

E lì Angelini fa il suo nome.

Macché. Dichiara di non aver mai pagato nessuno. È tutto negli atti processuali, questo scambio tra la Procura e Angelini. Trifuoggi insiste. Cerca di far capire ad Angelini che se lui fa i nomi di chi lo ha concusso rende un grande servizio alla Giustizia.

E quindi lui fa i nomi degli amministratori.

E nemmeno. Se ne torna a casa sua. Parla con il suo avvocato, evidentemente. Dopo 8 giorni si ripresenta in Procura e dice: sono stato concusso. Ho pagato tangenti. Solo a Del Turco ho dato oltre 5 milioni e mezzo.

Questo porta al suo arresto, il 14 luglio del 2008.

Il giorno dopo avremmo approvato una circolare, già pronta. Avrebbe reso ancora più stringenti i criteri per pagare le strutture convenzionate con la sanità regionale.

Quanto tempo ha passato in carcere?

Ci sono stato fino al 28 luglio. Poi sono passato ai domiciliari. Quindi alla fase più umiliante, quella dell’obbligo di dimora. Un confino. Quando avevo bisogno di muovermi dalla mia Collelongo per andare a Roma dovevo chiedere un permesso al gip. Poi avevo bisogno di un’autorizzazione anche per tornare a Collelongo. Di fatto sul Raccordo anulare ero una specie di evaso.

Adesso è in attesa dell’Appello. Secondo il suo avvocato difficilmente se ne parlerà prima del 2015. Nel frattempo è libero.

Ma preferisco confinarmi da solo, a questo punto, a casa mia a Collelongo. Faccio una passeggiata la mattina, prendo un caffè. Una partitella a carte. Poi torno, cerco di non stancarmi. Ho un linfoma. Un tumore non dei più aggressivi, per fortuna. Da alcuni anni sono in cura dal professor Mandelli. E ho smesso di tenere la testa sempre nelle carte del processo.

All’inizio ha studiato come se avesse dovuto difendersi da solo.

Poi i medici mi hanno detto: quello che le hanno fatto passare ha colpito le sue cellule. È come se i segni della sofferenza si vedessero al microscopio, capisce?

Cosa si aspetta dal processo di Appello?

L’assoluzione. E basta. Non voglio le scuse. So che proprio il Garantista ha pubblicato le scuse di Marmo alla famiglia Tortora. Non mi interessano. Le scuse le chiedono i magistrati che smettono di fare i magistrati.

Alla fine lei non è stato condannato per concussione.

No. Dopo l’escussione di 140 prove testimoniali tutte chiamate a suffragare la tesi della concussione, all’ultimo minuto è cambiato il capo d’imputazione. Senza che tale ipotesi fosse mai stata avvalorata da un solo testimone. Questo naturalmente è tra i motivi dell’istanza di Appello.

Peseranno anche i 100 milioni trovati alle Antille che, secondo la Procura di Chieti, costituirebbero il tesoro di Angelini?

Possono rafforzare il quadro già abbastanza chiaro emerso nel primo grado. Ma non saranno decisivi.

Cosa ha pensato di fronte alla notizia dei 100 milioni?

Che probabilmente ce ne sono altri. Angelini tende ad accumulare soldi. E ne pretende sempre, anche quando non ne ha diritto.

Cosa intende dire?

Le faccio un altro esempio. Vincenzo Angelini è uno che compra di tutto. A casa aveva centinaia di paia di scarpe, centinaia di magliette Lacoste tutte dello stesso colore. È stato intercettato dai vigili urbani mentre cercava di portar via da casa scatoloni pieni di cose così. Alcuni antiquari romani possono raccontare di aver venduto ad Angelini mobili di grandissimo pregio e valore che non sono mai stati ritirati. Li ha comprati, li ha pagati, ma li lascia lì. A deperire nei depositi. Nelle udienze del processo è capitato che Angelini cominciasse a urlare senza motivo, o che girasse i tacchi e se ne andasse all’improvviso. Tutti questi episodi non hanno mai messo in discussione la sua attendibilità.

Anche lei ama i quadri.

<+tondo>Me li vendo. Quelli che ho se ne vanno, uno dopo l’altro. Li vendo per vivere, per pagare gli avvocati. Ho speso decine di migliaia di euro, per difendermi. A casa avevo, ne ho ancora qualcuna, opere di grandi maestri, di alcuni di loro sono stato amico. La pittura per me è tutto. Ma devo vendere i quadri. Ne ho venduti di Schifano, di Guttuso.

Lei è stato tra i fondatori del Pd. Da quel partito le arrivano attestati di solidarietà?

Quasi mai. Tra un fragile impianto accusatorio e un vecchio militante hanno scelto la Procura.

Perché? Paura?

Sì, paura. Ne sono convinto.

Perché le è successo tutto questo?

Perché ho tagliato i costi della sanità. Perché chi ha governato la Regione dopo di me ha potuto completare il rientro dal dissesto grazie alle mie leggi. Perché mi sono messo contro i potenti. Toto, per esempio, il fondatore di Air One. Gestiva in società con Benetton la Autostrada dei Parchi, la Pescara-Roma. Una sera con una nevicata terribile tralasciano di spargere il sale. Muoiono cinque persone, altre centinaia di abruzzesi a pochi chilometri da Roma trovano i caselli chiusi e sono costretti a tornare indietro. Ha trattato quel manto stradale come se fosse la robba di Mazzarò. Lo attaccai con grande durezza.

Qual è il limite più grave della giustizia italiana?

Nel ’93 i processi di Mani pulite hanno messo in moto la valanga che avrebbe travolto il sistema delle garanzie processuali. Ma non ci metto più la testa. Devo avere rispetto per la mia salute, ora.

Errico Novi

Il Garantista, 06 Luglio 2014

Caso Tortora, Il Pm Di Persia da al collega Marmo del “pentito”. Un’occasione persa per tacere !


Enzo TortoraAnche lui da molti anni non parlava della condanna inflitta a Enzo Tortora. E che Felice Di Persia abbia voluto rompere il lungo riserbo sulla vicenda, è un dato che andrebbe accolto con favore. Non fosse che l’intervista rilasciata alVelino è un’occasione perduta. Allora titolare, insieme con Lucio Di Pietro, dell’inchiesta che portò Tortora alla sbarra, Di Persia avrebbe potuto fare ammenda per un’inchiesta che portò al più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana. Ferma la buona fede, la toga avrebbe potuto chiarire anche lui perché senza prove di bonifici, controlli bancari, pedinamenti e intercettazioni montò un castello di carte che fece finire in gattabuia il presentatore di Portobello sulla base delle dichiarazioni di pentiti farlocchi che sono costate la vita, a detta di Francesca Scopelliti, ma senza lo stupore di nessuno, a quel galantuomo di Enzo Tortora. Ma l’unico pentito verso il quale l’ex magistrato sembra puntare il dito è invece Diego Marmo.

«Ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che si è pentito con trent’anni di ritardo», chiosa Di Persia.  Ma nell’intervista che l’ex procuratore di Torre Annunziata ha dato al Garantista, è palese che sono solo ed esclusivamente le scuse ad essere arrivate in ritardo di trent’anni. “Il rammarico – ha spiegato l’ex pm al nostro giornale – c’era da tempo”.  Felice Di Persia, però, concede a Marmo il lusso di una seconda ipotesi accusatoria. «Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna – continua Di Persia – doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve autocancellarsi dalla vita sociale”. ”Autocancellarsi dalla vita sociale”, dice Di Persia. Che forse sarebbe a dire chiudersi in qualche eremo a recitare il penitentiagite per dimostrare l’autenticità del rammarico.

È proprio in questa sottile e violentissima fatwa, che la magistratura appare incapace di sincero cordoglio e capacità di autoriformarsi. «A quanto pare – commenta Di Persia – Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana. In questo caso, come fanno i pentiti, dia riscontri chiari alle sue tesi. Perché ha chiesto la condanna di Tortora? Spero lo faccia, ma non rifugiandosi però nel nome di qualcuno che non può smentirlo perché morto». Marmo è trattato insomma alla stregua di un pentito che il clan pretende di allontanare dal cerchio magico per vendetta. Marmo è il reprobo dal quale si pretende di estorcere, a dimostrazione di un sincero disagio interiore, la colpa assoluta e annichilente dell’autoesclusione sociale. Non se ne comprende invece il rammarico che chi scrive, insieme a pochi come Ambrogio Crespi, reputa sincero. Di quelle scuse alla famiglia, di quelle poche note che con molta discrezione Marmo ha affidato a Il Garantista a proposito del processo, si sottolinea nient’altro che la perversa intenzione di tirarsi fuori dalla melma. Ma la vera angoscia che forse generano le scuse di Marmo, inammissibili, spiazzanti e meravigliose, è la paura di restare ammollo al sangue innocente di Tortora. Un aspetto che Diego Marmo, ancora avvezzo a decriptare messaggi in codice, non trascura di cogliere nelle dichiarazioni che affida al nostro giornale. «Nella mia intervista a Il Garantista che peraltro Di Persia dice di non aver letto con precisione – ci scrive l’ex procuratore di Torre Annunziata – non ho accusato nessuno. Mi sono limitato soltanto a dire quali erano stati i ruoli dei singoli partecipanti».

Le dichiarazioni che Felice Di Persia ha rilasciato a Il Velino, sono la prova inconfutabile che le scuse di Diego Marmo alla famiglia Tortora hanno scavato un solco profondo nella coscienza dei protagonisti di quella storia giudiziaria, e nell’autopercezione che ha di se stessa la magistratura italiana. Intoccabile, unita come un sol uomo, sacerdotale, la casta dei giudici sembra di colpo cominciare a ruzzare dentro la piccola stia dei risentimenti. Le scuse del Grande Inquistore italiano,  dell’ “assassino morale” di Tortora che solo su di sé aveva attratto i fulmini della storia lasciando all’asciutto tutti gli altri carnefici, devono avere mosso qualche disagio negli altri complici della “congiura”. «Le mie scuse sono vere. Se arrivano con ritardo bisogna anche considerare che il tempo fa maturare, in molti casi. Per porgerle, d’altra parte, ci doveva anche essere l’occasione», ci scrive Diego Marmo. Come bene ha detto Ambrogio Crespi su queste colonne, il tempo della rivoluzione è arrivato. E reca in effigie il volto di Torquemada.

Francesco Lo Dico

Il Garantista – 06 Luglio 2014

Caso Tortora, occorre condannare pubblicamente chi ha martirizzato un innocente


Enzo Tortora, Alberto Dall'Ora e Raffaele Della ValleLa vicenda giudiziaria e infine la tragedia umana di Enzo Tortora, il famoso giornalista e presentatore televisivo, prima incarcerato e condannato innocente per traffico di droga e poi morto di cancro in conseguenza del gravissimo torto subìto, continua a rappresentare la cartina di tornasole del difficile rapporto tra la giustizia e l’opinione pubblica nel nostro Paese.

Il suo “caso”, il “caso Tortora”, continua infatti a pesare sulla coscienza dell’ordine giudiziario e sulla fiducia del popolo nei magistrati, e non si risolverà fintantoché i responsabili (tutti da molti anni ormai individuati per nome e cognome) non riceveranno una sanzione, quale che sia.

Nei giorni scorsi uno di quei magistrati, Diego Marmo, in un’intervista al quotidiano Il Garantista, ha dichiarato: “Adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto”. Nella requisitoria contro Tortora, lo aveva definito “cinico mercante di morte”.

La replica è arrivata da Gaia Tortora, la figlia di Enzo, oggi giornalista e caporedattore politico al Tg de La7: “È troppo tardi. Ci sono trent’anni di mezzo. Ma se avesse ammesso prima, di aver sbagliato, non avrebbe ottenuto le sue promozioni”.

Anni addietro, in occasione della teatrale ritrattazione d’uno dei calunniatori (Gianni Melluso: “Lo accusai, pur sapendolo innocente, per ottenere vantaggi da parte dei magistrati e dei carabinieri”), mi rivolsi al presidente nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, Nino Abbate, con queste parole: “Da ben dieci anni aspettiamo la punizione (cioè aspettiamo che tirino fuori di tasca i soldi per pagare i danni) di quei pm e di quei giudici di Napoli che prima arrestarono e poi condannarono senza prove né indizi Enzo Tortora.

Soltanto sulla “parola” di quindici “pentiti”. Quello fu il protocrimine, il peccato originale di tutta la magistratura italiana (requirente e giudicante). Commesso da pochi, anzi da pochissimi, ma con conseguenze incalcolabili e micidiali per l’intero Ordine. Le dò un’idea a buon mercato: lo Stato non ha voluto punirli? Ci pensi Lei, proponendone, sia pure con un enorme ritardo, l’allontanamento dall’Associazione Magistrati.

Non perderanno alcunché: non soldi, non stipendio, non promozioni, non potere. Soltanto una cosa: la faccia”. Ovviamente, non ottenni risposta. La proposta è ancora valida. Al di là della gravità del caso, la figura di Tortora ha infatti un’altissima valenza simbolica. Chi è stato suo amico, suo stretto amico, come chi scrive queste note, sa che Enzo non si tirava mai indietro se c’era da battersi per una casa di giustizia.

Per esempio, all’epoca del suo arresto, stava per metter mano ad un’indagine giornalistica sul linciaggio morale prima, e sull’assassinio poi, del commissario Luigi Calabresi, massacrato a Milano nel 1972 da fanatici dell’ultrasinistra. La persecuzione giudiziaria di cui cadde vittima lo distolse da questa ricerca, che toccherà poi al sottoscritto, dopo la sua morte, portare a termine.

Tutto questo aiuta a capire quanto crudele sia stato, per lui, dover soccombere di fronte ad un’operazione di somma ingiustizia, somma proprio perché mascherata da giustizia e attuata da coloro che della giustizia avrebbero dovuto essere i custodi, anzi i sacerdoti: cioè i magistrati. Tortora fu arrestato il 17 giugno 1983, mentre era all’apice del successo televisivo: la sua trasmissione del venerdì sera su Rai Due, Portobello, vantava 28 milioni di telespettatori, un’audience mai più raggiunta da nessuno showman nel nostro paese. Il suo arresto avvenne nel quadro del cosiddetto “maxi processo” alla camorra, un “maxi processo” nel quale furono tuttavia coinvolte soltanto alcune centinaia di figure di secondo piano, mentre i veri capi della malavita napoletana restavano al sicuro.

Occorre premettere che Tortora, genovese ma di origini napoletane, detestava fortemente la camorra e in genere la malavita, e più volte ne aveva fatto oggetto di duri attacchi televisivi. Il suo c o involgimento nella grande retata fu pertanto il risultato di un complotto nato nelle carceri ad opera di incalliti delinquenti come il pluriassassino Giovanni Pandico e il killer Pasquale Barra (aveva strangolato il boss Francis Turatello, squarciandogli poi il petto e mangiandogli il cuore), decisi a farla pagare cara a quel rappresentante del perbenismo borghese così severo nei loro confronti.

La cosa più incredibile è che le accuse lanciate contro Tortora e raccolte a verbale prima dai carabinieri e poi dalla Procura di Napoli, iniziarono nel marzo 1983, ossia tre mesi prima dell’arresto di Tortora, sicché la magistratura ebbe tutto il tempo di verificarle, smascherando e perseguendo i calunniatori. Ma nessuna indagine bancaria fu fatta sui conti di Enzo, né il suo telefono fu posto sotto controllo, né egli fu mai pedinato.

Al colonnello dei carabinieri Roberto Conforti e al procuratore di Napoli Francesco Cedrangolo bastarono quelle accuse basate sul nulla, che chiunque poteva inventare, per decidere di rovinare un galantuomo come Tortora.

Il dottor Cedrangolo ricevette, da chi scrive, un accorato rapporto che lo metteva in guardia contro il terribile errore giudiziario che si stava commettendo: un rapporto, di cui conservo copia, che gli feci pervenire attraverso sua nuora, la giornalista Francamaria Trapani, allora mia collega al settimanale Gente, di cui ero caporedattore. Anche quella mia lettera non ottenne risposta.

Dal momento dell’arresto, l’operato degli inquirenti fu mirato, anziché a cercare prove e riscontri alle accuse, a raccogliere le più inverosimili chiamate di correo, inventate da paranoici, mitomani, criminali come Gianni Melluso, calunniatori di professione e fanatici ricercatori di occasioni auto-pubblicitarie come il sedicente pittore Giuseppe Margutti.

Bastava che uno di tali individui, dall’interno di un carcere, o dall’anonimato della sua squallida vita quotidiana, si presentasse agli uomini del colonnello Conforti e ai sostituti del dottor Cedrangolo, perché le sue parole venissero prese come oro colato, pur prive del benché minimo straccio di prova, e il personaggio in questione ottenesse immediatamente un trattamento di favore.

Ormai quei Pm erano accecati dallo spasmodico sforzo di tenere in piedi la loro inchiesta, che sarebbe miseramente franata qualora si fosse scoperto il tragico errore compiuto con Tortora. Si arrivò a contestare al famoso presentatore un numero di telefono trovato sull’agendina dell’amica d’un camorrista: senonché quel numero corrispondeva a un certo Enzo Tortòna. Tortòna, e non Tortora.

E comunque, sarebbe bastato comporlo sulla tastiera telefonica, per capire che il famoso giornalista non c’entrava nulla. Ma, per non correre il rischio, quei magistrati indegni (come li definirà poi la sentenza d’appello) attesero ben otto mesi prima di decidersi a fare quella telefonata.

Uno scempio simile della giustizia e del diritto non sarebbe potuto avvenire senza la complicità di quasi tutti i giornalisti italiani, colpevolisti fin dall’inizio o per beceraggine o semplicemente perché, in un’epoca in cui c’era già l’imbecillità di sinistra di marca radical chic, Tortora, vecchio liberale, rigido conservatore di destra, stava antipatico. Tra di essi vi fu chi, alla notizia della condanna a 10 anni, brindò a champagne.

Né si può dimenticare, e qui concludo, la responsabilità morale dei liberali “ufficiali”, da Zanone (l’affossatore del Pli: sua la frase suicida “Il Pli è un partito che si colloca a sinistra della Dc”) fino a Malagodi, suoi compagni di partito (Tortora era iscritto al Pli dall’immediato dopoguerra), che non mossero un dito per difenderlo, non meno che quella, gravissima e inqualificabile, dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, ch’ebbe a dichiarare: “Tortora si è difeso male”, forse non dimentico di una trasmissione in cui Enzo, assieme a me, gli aveva rinfacciato una sua proverbiale battuta: “Le Brigate rosse sono nere”.

Miserie ch’ebbero il risultato di far risaltare il grande merito di Francesco Cossiga, il quale, salito al Quirinale nel 1985, convocò Enzo Tortora, nella sua veste di presidente del Partito radicale, indifferente alla sua condizione di detenuto agli arresti domiciliari, trattandolo con un tale calore umano e una tale simpatia da non lasciare dubbi sul messaggio che aveva inteso lanciare a tutta l’opinione pubblica.

di Luciano Garibaldi

Italia Oggi, 5 luglio 2014

Usarono Enzo Tortora per coprire il patto Stato-Camorra


Enzo_tortora_arrestoIl dottor Diego Marmo nella bella e importante intervista rilasciata a “Il Garantista”, sia pure trent’anni dopo, chiede scusa a Enzo Tortora; ci ricorda che la sua requisitoria si svolse sulla base dell’istruttoria dei colleghi Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, e “gli elementi raccolti sembrarono sufficienti per richiedere una condanna”; che per tutti questi anni ha convissuto con il tormento e il rammarico di aver chiesto la condanna di un uomo innocente; che fu a causa del suo temperamento focoso e appassionato che definì Tortora “cinico mercante di morte” e “uomo della notte”. Va bene, anche se si potrebbe discutere e controbattere tutto.

Per via del mio lavoro di giornalista al “TG2” mi sono occupato per anni del “caso Tortora” che era in realtà il caso di centinaia di persone arrestate (il “venerdì nero della camorra”, si diceva), per poi scoprire che erano finite in carcere per omonimia o altro tipo di “errore” facilmente rilevabile prima di commetterlo, e che si era voluto dare credito, senza cercare alcun tipo di riscontro, a personaggi come Giovanni Pandico, Pasquale Barra ‘o animale, Gianni Melluso. Ho visto decine e decine di volte le immagini di quel maxi-processo, per “montare” i miei servizi, e decine e decine di volte quella convinta requisitoria del dottor Marmo; che a un certo punto pone una retorica domanda: “…Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?”. Cercavamo…Anche Marmo, sembrerebbe di capire, cercava. E quali gli elementi di colpevolezza che emergevano durante il paziente lavoro di ricerca delle prove di innocenza? Non basta dire che la requisitoria del dottor Marmo si è svolta sulla base dell’istruttoria deli colleghi Di Pietro e Di Persia. Non basta.

Il 18 maggio di ventisei anni fa Enzo Tortora ci lasciava, stroncato da un tumore, conseguenza – si può fondatamente ritenere – anche del lungo e ingiusto calvario patito. Chi scrive fu tra i primi a denunciare che in quell’operazione che aveva portato Enzo in carcere assieme a centinaia di altre persone, c’era molto che non andava; e fin dalle prime ore: Tortora era stato arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata, fatto uscire solo quando si era ben sicuri che televisioni e giornalisti fossero accorsi per poterlo mostrare in manette. Già quel modo di fare era sufficiente per insinuare qualche dubbio, qualche perplessità. Ancora oggi non sappiamo chi diede quell’ordine che portò alla prima di una infinita serie di mascalzonate.

Manca, tuttavia, a distanza di tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: “perché?”. Forse una possibile risposta sono riuscito a trovarla, e a suo tempo, sempre per il “TG2”, riuscii a realizzare dei servizi che non sono mai stati smentiti, e ci riportano a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Venne chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”.

Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ebbe un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e, tra gli altri, Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, “mai più ritrovato”.

Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli. Che l’arresto di Tortora costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. Quello è stato fatto lo si sarà fatto in buona o meno buona fede, cambia poco. Le “prove”, per esempio, erano la parola di Pandico, camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un cumpariello. Barra è un tipo che in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia per sfregio l’intestino…Con le loro dichiarazioni danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Questo in istruttoria non era emerso? E il sedicente numero di telefono in un’agendina, mai controllato, neppure questo? C’è un documento importante che rivela come vennero fatte le indagini, ed è nelle parole di Silvia Tortora, la figlia. Quando suo padre fu arrestato, le chiesi, oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra cosa c’era? “Nulla”. Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? “No, mai”. Intercettazioni telefoniche? “Nessuna”. Ispezioni patrimoniali, bancarie? “Nessuna”. Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? “Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri”. Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? “Nessuna”. Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. u che prove? “Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato”. Qualcuno ha chiesto scusa per quello che è accaduto? “No”.

Arriviamo ora al nostro “perché?” e al “contesto”. A legare il riscatto per Cirillo raccolto i costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale.

E’ in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”. Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Tortora è stato chiamato a rispondere per calunnia. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Il dottor Marmo dice di aver agito in buona fede, non c’è motivo di dubitarne. Ma la questione va ben al di là della buona fede di un singolo. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”. Da quella vicenda è poi scaturito grazie all’impegno radicale, socialista e liberale, un referendum per la giustizia giusta. A stragrande maggioranza gli italiani hanno votato per la responsabilità civile del magistrato. Referendum tradito da una legge che va nella direzione opposta; e oggi il presidente del Consiglio Renzi e il ministro della Giustizia Orlando approntano una serie di norme che vanno in direzione opposta rispetto a quanto la Camera dei Deputati ha votato qualche settimana fa.

Valter Vecellio

Il Garantista, 30 Giugno 2014

Il Pm del caso Tortora Marmo si scusa… 30 anni dopo (poteva soffrire in silenzio)


Enzo Tortora, Alberto Dall'Ora e Raffaele Della VallePoteva starsene zitto. Poteva portare ancora il peso del suo silenzio. Poteva vedersela con la sua coscienza, che non fa mai dichiarazioni pubbliche. Giorni fa, Diego Marmo ha chiesto scusa alla famiglia di Enzo Tortora (scuse respinte) per le vicende giudiziarie che annientarono la carriera televisiva e la vita del famoso presentatore: “Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato.

E adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dietro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Tortora per quello che ho fatto. Agii in perfetta buona fede”.

Tormento? Marmo è tornato all’attenzione della cronaca le scorse settimane, quando è stato nominato assessore alla legalità del Comune di Pompei. A molti, la nomina è sembrata un insulto alla memoria di Tortora e così sono scoppiate le polemiche. Trent’anni fa Diego Marmo era il pubblico ministero che formulò pesantissime accuse contro Tortora, poi assolto con formula piena perché il presentatore di Portobello non faceva parte della camorra.

Ma di quelle accuse Tortora morì e nessun magistrato di quel processo aveva finora pubblicamente manifestato rincrescimento. Una pagina nera per la giustizia italiana e non solo: il Tg2 d’allora si distinse subito per l’accanimento con cui seguì la vicenda “dell’insospettabile di lusso”, la stampa preferì sposare, almeno all’inizio, la tesi colpevolista (con la sola eccezione di Enzo Biagi), molti mascherarono il suo arresto con una sorta di risibile rigenerazione da una tv che non piaceva. Marmo, che durante la requisitoria, nel 1985, descrisse il giornalista come “un cinico mercante di morte”, non era solo.

I magistrati inquirenti erano Lucio Di Pietro (promosso poi procuratore generale a Salerno e alla Procura nazionale antimafia) e Felice Di Persia (giunto poi al Csm). Tortora fu rinviato a giudizio da Giorgio Fontana, allora giudice istruttore, e messo alla gogna “nel nome del popolo italiano”. Le nostre ingiustizie si vendicano sempre. Non ci rendiamo conto, spesso, che nel porre rimedio alle cose finiamo col cercare un sollievo che le aggrava ancora di più.

Aldo Grasso

Corriere della Sera, 29 Giugno 2014