La Penna morì mentre era detenuto a Regina Coeli. Per la Cassazione devono essere risarciti i suoi familiari


Avrà conseguenze civilistiche, in tema di risarcimenti, la vicenda penale legata alla morte di Simone La Penna, detenuto a Regina Coeli e deceduto il 26 novembre 2009 all’interno del carcere. La quarta sezione della corte di Cassazione ha, infatti, assolto definitivamente il direttore sanitario del reparto sanitario del carcere, Andrea Franceschini, con la formula «per non avere commesso il fatto» e ha riconosciuto la estinzione per prescrizione delle accuse nei confronti del medico Andrea Silvano.
La suprema corte ha, però, fatto salvi ai fini degli effetti civili le condanne. In primo grado i due imputati erano stati condannati ad un anno di reclusione per omicidio colposo. Sentenza confermata dai giudici di secondo grado. La Penna, nel gennaio del 2009, venne portato nel carcere di Viterbo per scontare una condanna di due anni, quattro mesi e 29 giorni per detenzione di sostanze stupefacenti. Allora pesava 79 chili. Il 27 luglio venne ricoverato all’ospedale Sandro Pertini dove restò due giorni. La difesa, quindi, avanzò le richieste di arresti domiciliari ma furono respinte dal Tribunale di Sorveglianza, secondo il quale il regime detentivo era compatibile con il suo stato di salute. Le condizioni continuarono a peggiorare al punto che La Penna, dopo essere dimagrito 34 chili, venne trovato morto nella sua cella il 26 novembre di nove anni fa.
La sua vicenda fu accostata a quella di Stefano Cucchi morto mentre si trovava ricoverato all’ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre del 2009. «Questa drammatica storia – spiegano gli avvocati Sergio Maglio e Roberto Randazzo, legali di parte civile – ha caratteristiche sotto il profilo sanitario molto più gravi di quelle del caso Cucchi, e potrebbero riguardare anche un numero ben più cospicuo di casi, considerando che la morte del giovane avvenne a distanza di 9 mesi dalle prime ed evidenti manifestazioni dei disturbi alimentari accusati dal giovane».

Benevento, è morto il 90enne detenuto di San Leucio del Sannio. Venerdì scorso era stato scarcerato


Casa Circondariale di BeneventoSi è fermato il cuore dell’ultranovantenne di San Leucio del Sannio. La storia, purtroppo, è arrivata al capolinea. E, ora, non servono più udienze e magistrati. Perché è morto l’ultra novantenne di San Leucio del Sannio finito alla ribalta della cronaca negli ultimi mesi. Dopo oltre tre mesi di detenzione in carcere, venerdì scorso era tornato a casa. In attesa di essere trasferito presso un centro di riabilitazione per ricevere le cure di cui aveva bisogno dopo l’operazione al femore, conseguenza di una caduta.

L’anziano, secondo una prima ricostruzione, non si sarebbe sentito bene e per questo, dopo le prime cure, sarebbe stato trasportato in ospedale, dove il suo cuore ha cessato di battere. È l’ultimo capitolo di una storia cominciata lo scorso 23 giugno, quando il pensionato era stato arrestato dalla squadra mobile sulla base di un ordine della Procura generale di Napoli. Doveva scontare 8 anni per una vicenda di abusi sessuali risalenti al periodo 2000 – 2001: assolto in primo grado era stato condannato in appello con una sentenza non impugnata in cassazione.

Pena definitiva, dunque, di cui il suo attuale difensore, l’avvocato Eugenio Capossela, aveva chiesto il differimento al Tribunale di sorveglianza (udienza a dicembre) e poi al magistrato di Sorveglianza di Avellino. Quest’ultimo aveva detto no ritenendo compatibili le condizioni dell’uomo con il regime carcerario: un dato emerso dalla relazione dei sanitari.

Mentre era in infermeria, ad agosto il detenuto era rimasto vittima di una caduta dalla sedia a rotelle. Per questo era stato operato al Fatebenefratelli: qualche giorno di degenza, poi il rientro presso la casa circondariale di contrada Capodimonte. Che aveva, come detto, lasciato venerdì quando il magistrato di sorveglianza aveva concesso il differimento dell’esecuzione della pena per l’ultranovantenne, per consentirgli le terapie riabilitative. Di cui, ora, purtroppo, non ha più bisogno.

Enzo Spiezia

ottopagine.it, 8 settembre 2015

Tolmezzo: detenuto 66enne rischia di morire per colpa del Medico del Carcere


Carcere TolmezzoRischia di morire perché sono rimaste inascoltati i suoi appelli. Perché, nonostante fatti acclarati, un medico del reparto detenuti dell’ospedale di Salerno ha preferito deriderlo “sbattendogli” in faccia i suoi titoli di studio invece di salvaguardare quel diritto alla salute che non dovrebbe mai essere negato a nessuno. Anche ad un detenuto. Anche a Francesco Sorrentino, esponente della Nco, condannato a 30 anni per il sequestro di Franco Amato (leggerete a parte) e detenuto nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo.

L’avvocato difensore, Bianca De Concilio, dopo mesi di appelli a vuoti, e richieste che non hanno trovato alcun tipo di risposta, ha rotto gli indugi ed in una conferenza stampa ha ricostruita la storia di un uomo che aveva quasi scontato il suo conto con la giustizia e che è stato nuovamente tirato in ballo in una vicenda giudiziaria dallo stesso figlio.

Uno dei pochi congiunti rimasti in vita dopo averne perso due in tragiche circostanze (uno impiccato e l’altra in seguito ad un malore accusato durante un processo in aula bunker). Per seguire le udienze del processo al Tribunale di Nocera Sorrentino il 29 gennaio viene trasferito al carcere di Fuorni.

Qui inizia il dramma di un uomo già provato da 36 anni di carcere. Sorrentino denuncia tracce di sangue nelle urine. Dopo una visita sommaria ed esami di routine i medici gli somministrano antibiotici ma, nonostante ciò, le perdite ematiche continuano.

Il sessantaseienne chiede che vengano effettuati nuovi esami ma il medico rovescia sistematicamente il campione prelevato nel water. “Comprendo una certa diffidenza nei confronti dei detenuti – ha sottolineato l’avvocato De Concilio- ma ci sono casi e casi e non si può far di tutta un’erba un fascio. Bisogna approfondire per garantire quel diritto alla salute che non va negato a nessun essere umano. Nel caso di Sorrentino dopo oltre trent’anni di carcere fatti dignitosamente non avrebbe mai cercato un escamotage per uscire”.

L’uomo, per sottolineare la sua buona fede, è arrivato a fare l’esame -in pratica- davanti al medico che anche in quel caso ha rovesciato il campione e, di fronte alle insistenze del sessantaseienne, ha ribadito di sapere quello che faceva in quanto aveva acquisito un titolo di studio: “Gli ha riferito che era solo un detenuto e doveva restare in silenzio e accettare le prescrizioni mediche fatte da chi ha competenza in materia”.

Il rientro a Tolmezzo. Il 31 marzo, nonostante la richiesta dell’avvocato De Concilio ed il parere favorevole del presidente del collegio giudicante del Tribunale di Nocera (Diograzia ndr), Sorrentino viene trasferito nuovamente a Tolmezzo in virtù di un rinvio lungo dell’udienza del processo che vede l’ex esponente della Nco imputato. I sanitari della struttura penitenziaria friulana si rendono immediatamente conto del cattivo stato di salute dell’uomo che lamenta perdite più forti ed è sempre più provato e dimagrito. Viene immediatamente disposta una visita urologica ed un’ecografia, esami che non erano stati disposti a Salerno. I medici riferiscono che bisogna intervenire al più presto ma nel frattempo Sorrentino rientra a Salerno il 5 maggio per l’udienza che sarà celebrata due giorni dopo.

Qui inizia un nuovo calvario. La terribile diagnosi. L’uomo lamenta forti dolori alla vescica e chiede a gran voce esami più approfonditi. Litiga anche con i compagni di cella e con un poliziotto della penitenziaria. Vengono disposti 15 giorni di sospensione nonostante le condizioni fisiche di Sorrentino peggiorino di giorno in giorno. Il 26 maggio rende dichiarazioni spontanee davanti al giudice del Tribunale di Nocera, su consiglio dell’avvocato difensore, dove denuncia il suo delicato stato di salute e l’assoluto immobilismo dei medici del reparto detenuti del carcere di Salerno. Riferisce anche del suo delicato problema alla vescica. “Non si possono trattare i detenuti peggio dei cani”.

Vengono disposti esami più approfonditi ma nulla cambia. A Sorrentino vengono somministrati soltanto antibiotici fino al 31 maggio quando avverte un dolore lancinante e riferisce che non riesce più ad urinare. “Per fortuna di turno c’era un medico diverso da quello che finora l’aveva visitato ed immediatamente interviene inserendo un catetere e disponendo il trasferimento al pronto soccorso dove viene rilevata un’occlusione dovuta dal sangue. Le notevoli perdite di sangue hanno portato il valore dell’emoglobina a livelli bassissimi (otto).

Vengono immediatamente disposte le trasfusioni e gli accertamenti rilevano un tumore alla vescica di grosse dimensioni. La diagnosi è gravissima con l’uomo che ora è in forte pericolo di vita per la negligenza di un medico che avrebbe potuto disporre accertamenti cinque mesi prima e, di conseguenza, intervenire, probabilmente, in condizioni meno disperate. In occasione dell’udienza in programma oggi al Tribunale di Nocera, ed in attesa delle risultanze degli accertamenti disposti, l’avvocato Bianca De Concilio depositerà gli atti relativi agli ultimi accertamenti effettuati da Sorrentino. “Il nostro intervento è fatto a tutele dei detenuti. Chiederemo al ministero un’accurata ispezione ed alle modalità di intervento applicate alle strutture carcerarie”.

Tommaso D’Angelo

Cronache dal Salernitano, 12 giugno 2015

Giarrusso (Senatore M5S) : “Giulio Lampada vada in cella!”. Morirà ? Chissenefrega


Mario Giarrusso M5SIl sito del “Fatto quotidiano” riporta la notizia che il senatore del Movimento Cinque Stelle Mario Michele Giarrusso ha affermato che Giulio Lampada – accusato di essere un capo cosca calabrese, trattenuto in carcerazione preventiva per circa quattro anni, e pochi giorni or sono inviato agli arresti domiciliari per gravi ragioni di salute su istanza dei difensori – deve tornare in carcere. Giarrusso chiederà l’intervento diretto del ministro della giustizia e farà convocare per un’audizione, in Parlamento, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza che ha assunto la decisione di scarcerare Lampada.

Ora, di fronte a prese di posizione di questo genere, non si sa se ridere o piangere: ci sarebbero buone ragioni per l’una e per l’altra cosa.

Per ridere: il Tribunale di Sorveglianza non c’entra per nulla, perché esso si occupa solo di casi di detenuti definitivi, non di quelli ancora in attesa di una sentenza definitiva, come nel caso di Lampada, per il quale mi permetto di sperare – senza chiedere il permesso di Giarrusso – che la sentenza di condanna che lo riguarda non diverrà mai definitiva; cosa dovrà mai fare il ministro della giustizia invocato da Giarrusso? Colpire di anatema il Tribunale del Riesame di Milano che, dopo ben nove consulenze mediche, ripeto dopo nove consulenze tutte concordi, ha inviato Lampada agli arresti domiciliari? O che altro? Quali nuove e sconcertanti competenze Giarrusso vorrà mai attribuire al ministro? Quante sono, per amor di precisione, le consulenze mediche che debbono concordemente ritenere una persona in condizioni di salute talmente gravi da essere mandato a casa? Dieci, cento, trecentosessantacinque (cioè una consulenza per ogni giorno dell’anno)? Da quante Giarrusso sarebbe alla fine soddisfatto?

O, forse, debbo presumere che non lo potrebbe mai essere? Giarrusso tende forse all’infinito? E dall’audizione del Presidente del Tribunale del Riesame, tanto scrupoloso d’avere atteso per mesi e mesi prima di decidere, e l’esperimento di un numero sovrabbondante di consulenze di parte e d’ufficio – lo ripeto: tutte concordi – cosa spera di conoscere che non sia negli atti del procedimento? E questi atti ai quali egli spregiudicatamente si sovrappone per smentirli, Giarruso, componente di varie commissioni parlamentari e credo anche di quella antimafia, li conosce? Ne ha forse una pallida idea? Ce lo dica per favore, ce lo faccia sapere.

Per piangere: ebbene, siamo in presenza di un senatore della repubblica italiana, uno cioè mandato dal popolo sovrano ad esercitare la sovranità per suo conto, che ragiona in questo modo, cioè come uno che pretende di sparare giudizi di tale gravità – e per giunta pubblicamente – a prescindere da ogni prova circa la reale colpevolezza di Lampada e soprattutto circa il suo reale stato di salute che lo rende incompatibile con la detenzione in carcere.

Giarrusso mostra cioè di vivere e di esprimere il proprio mandato politico in chiave strettamente osservante dei pre-giudizi, che, come è noto, sono i nemici giurati dei giudizi, dal momento che mentre i primi si basano su una opinione del tutto sganciata dalla realtà, i secondi tendono a fondarsi sulla verità oggettiva dei fatti che sia stato possibile provare.

Anzi, potrebbe dirsi di più. Potrebbe cioè leggersi tutta l’attività dei Tribunali e delle Corti, nei vari e a volte contrastanti gradi di giurisdizione, come il faticoso, laborioso, ma necessario tentativo di transitare dal pregiudizio, al giudizio, dalla semplice opinione ( dei singoli ) alla verità ( da tutti condivisa). Ecco qual è, fra l’altro, il compito dei giudici nello Stato di diritto: spodestare il pregiudizio, per far posto alla verità.

Il che è ovviamente accaduto anche nel caso di Lampada e del suo invio agli arresti domiciliari per gravi ragioni di salute ( fra l’altro, calo ponderale di oltre trenta chili, incapacità di alimentarsi, duplice tentativo di suicidio…).

Sicché è il caso di comunicare a Giarrusso che con le sue improvvide dichiarazioni – tese a far tornare subito in carcere Lampada – egli si pone in rotta di collisione proprio con il lavoro dei giudici, tende cioè a vanificarne il significato e la funzione, cercando di regredire dal giudizio – da loro scrupolosamente formulato – al pregiudizio – di cui egli soltanto è evidentemente l’integerrimo custode e il pubblico dispensatore.

Ma quali titoli, quale legittimazione vanterebbe Giarruso per sovrapporsi a tal segno alle decisioni dei Tribunali? Per esigere cioè che Lampada torni “subito” fra le mura di quel carcere, dove, secondo i consulenti nominati dal Tribunale, altissimo sarebbe il rischio di più non uscirne vivo? Lo ignoro. Probabilmente, Giarruso si ritiene legittimato per definizione attraverso il suo impegno antimafia: ma – il punto è questo – l’impegno antimafia da chiunque rivendicato – o si esprime attraverso le strutture e i meccanismi giuridici dello Stato di diritto oppure, nel caso voglia farne a meno, diviene esso stesso, tragicamente, una forma di violenza e di sopraffazione, contro la quale è doveroso schierarsi e combattere da parte di ogni essere umano.

Perciò, se il Giarrusso politico non vuol contraddire il Giarrusso essere umano, che smetta i panni di Minosse, il quale, come è noto, “orribilmente… ringhia, giudica e manda, secondo che avvinghia” e torni a risiedere fra di noi, semplici esseri umani, che – con grande e diuturna fatica – cerchiamo di servire la giustizia nell’unico modo in cui riteniamo sia possibile e lecito farlo: spodestando il pre-giudizio, per far posto al giudizio.

Non sarà, per lui, facilissimo: ma con un po’ di impegno genuinamente umano, che non guasta mai, speriamo tutti possa farcela.

Vincenzo Vitale

Il Garantista, 3 giugno 2015

Cosenza, Sulla morte del detenuto Tavola, interrogati gli Agenti Penitenziari


 

Aldo TavolaLe condizioni di salute di Aldo Tavola sono state al centro della nuova udienza di oggi nell’ambito del processo sulla morte del detenuto deceduto il 26 giugno del 2012 nell’ospedale bruzio. Il tribunale di Cosenza ha acquisito i verbali delle guardie penitenziarie nel corso dell’udienza che si è svolta questa mattina nell’aula 5. L’uomo era stato trasferito nel nosocomio il 22 giugno per problemi neurologici.

Nel processo sono imputati Francesco Montilli, responsabile dell’area sanitaria del carcere di Castrovillari, e i medici dell’Annunziata Furio Stancati, Angela Gallo, Domenico Scornaienghi, Ermanno Pisani, Carmen Gaudiano e Antonio Grossi. Tavola che era stato ricoverato per problemi neurologici e lamentava – emerge dalle denunce dei familiari – dolori alle gambe, è deceduto però per shock emorragico causato da un’ulcera perforante.

Per l’accusa, i medici e il responsabile sanitario del carcere avrebbero sottovalutato la patologia lamentata dal paziente e riscontrata da alcuni esami endoscopici.
In particolare, il giudice monocratico del foro bruzio ha deciso di acquisire i verbali delle guardie che hanno svolto il servizio di piantonamento quando Tavola era detenuto. Solo due degli agenti sono stati sentiti, oggi, per ulteriori approfondimenti: Alfredo Ponterio e Giuseppe Brusco.

I due hanno riferito delle condizioni di salute del paziente: Tavola si lamentava per i dolori, ma i medici in servizio sono arrivati sempre a visitarlo. Il processo è stato rinviato al prossimo 23 giugno quando sarà sentito il direttore facente funzioni del reparto di Neurologia dell’Annunziata, Alfredo Petrone, e i consulenti della Procura, i medici legali Silvio Cavalcanti e Vannio Vercillo. Per quella data il giudice ha disposto, anche, l’acquisizione dei registri di accesso alle celle custoditi dalle guardie penitenziarie. Nel collegio difensivo, tra gli altri, anche l’avvocato Franz Caruso.

Mirella Molinaro

Corriere della Calabria, 07 Aprile 2015

Padova, detenuto calabrese morto di peritonite curato con antidolorifici, 5 Medici indagati


Casa Circondariale di PadovaLa cercavano per avere conferme dei sospetti sulla morte del detenuto Francesco Amoruso. E quando è stata rintracciata e convocata dagli investigatori, ha confermato: i sanitari le avevano indicato di somministrare al paziente del Buscopan.

Lei è un’infermiera che, all’epoca dei fatti, lavorava nel carcere Due Palazzi di Padova dove Amoruso – 45enne originario di Crotone, una condanna definitiva da scontare fino al 15 luglio 2023 per rapina, omicidio e reati legati allo spaccio di droga – è stato rinchiuso fino al 7 marzo del 2014.

Quel giorno il trasferimento urgente nel Pronto soccorso dell’Azienda ospedaliera padovana. Troppo tardi: è morto il 10 marzo tra dolori atroci in seguito a una peritonite stercoracea, una perforazione di un tratto dell’intestino con infiammazione del peritoneo (membrana che riveste gli organi addominali) e del passaggio retto-pelvico a causa di un’abnorme stasi di feci. Tutto ciò aveva provocato uno shock ipovolemico (una riduzione acuta della massa sanguigna circolante), con problemi renali e due arresti cardiaci.

Eppure il Buscopan si impiega nel “trattamento sintomatico delle manifestazioni spastico-dolorose del tratto gastroenterico e genito-urinario”: in pratica si usa per alleviare i classici crampi allo stomaco dovuti ad iperacidità gastrica. L’infermiera ha ammesso: quell’antidolorifico era stato prescritto al recluso colpito da dolori lancinanti tanto da reclamare più volte una visita medica.

E, in effetti, nell’arco di appena ventiquattr’ore, Amoruso era stato sottoposto a cinque visite dal personale sanitario dell’istituto. Visite che si erano concluse con la somministrazione di Buscopan, senza ritenere necessari altri approfondimenti diagnostici. Questi ultimi avrebbero imposto un immediato trasferimento in ospedale. Fu un errore quel mancato trasferimento: lo rileva un consulente tecnico nominato dal pubblico ministero Francesco Tonon che coordina l’inchiesta per omicidio colposo. Ma il magistrato vuole capire di più, in particolare se Amoruso pagò con la vita quel ricovero tardivo. Ecco perché ha sollecitato un’integrazione della consulenza tecnica.

Cristina Genesin

Il Mattino di Padova, 1 aprile 2015

Isernia: l’autopsia sul detenuto De Luca, morto in cella conferma “gli hanno sfondato il cranio”


Casa Circondariale 1Si infittisce sempre di più il mistero sulla morte di Fabio De Luca, detenuto nel carcere di Isernia deceduto lo scorso novembre in seguito a gravi ferite riscontrate alla testa. Era stata effettuata l’autopsia e ora abbiamo il responso: presenta il cranio sfondato da più parti. Cosa avvenne in quella cella è un vero e proprio giallo. A essere sotto inchiesta sono due detenuti originari di Napoli che si trovavano nella cella quando la vittima fu colpita, più un terzo individuo, probabilmente un’altra persona rinchiusa nel carcere.

Il reato ipotizzato è quello di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto. La perizia, depositata già da qualche giorno, è stata letta attentamente dall’avvocato del Foro di Isernia Salvatore Galeazzo, legale della. famiglia del detenuto, il quale fornisce anche qualche dettaglio al riguardo: “Il mezzo che ha prodotto le lesioni è da ricercare in un oggetto contundente a superficie liscia, di consistenza duro-elastica, che ha attinto il capo del De Luca in più punti”.

Di cosa si sia trattato se un bastone di legno, un manganello di ferro, forse ricoperto da un telo o da un panno o cos’altro non è dato sapere e il legale non si sbilancia. Anche perché in cella non è stato trovato nulla di corrispondente alla descrizione del dottor Vecchione. Dal grave trauma cranico e dalle conseguenti lesioni cerebrali all’altezza della nuca, sarebbe poi derivata la morte per arresto cardiocircolatorio.

Cosa sia accaduto davvero al carcere, però, resta ancora un mistero fitto. Un omicidio? Ma per quale movente? Una lite tra detenuti finita male? Oppure c’è qualche altra cosa sotto? Difficile fare qualsiasi congettura, al momento. La certezza, però, è che De Luca 45 anni originario di Roma aveva il cranio sfondato in più punti per opera di qualcuno. L’uomo, secondo le ricostruzioni della Squadra Mobile di Campobasso, che indaga sul caso, si era recato in un’altra cella per prendere una gruccia quando, alla presenza di due detenuti, avrebbe battuto la testa e sarebbe finito in coma. A dare l’allarme furono proprio i due detenuti che si trovavano con De Luca.

Una vicenda simile alla storia del marchigiano Achille Mestichelli, un ascolano di 53 anni che era detenuto nel carcere di Ascoli Piceno. Il detenuto, nello scorso mese di gennaio, era stato arrestato dai carabinieri della stazione di Castel di Lama in esecuzione di una sentenza definitiva. Era stato condannato a due anni di reclusione per aver commesso un furto, episodio risalente ad alcuni anni fa. Intorno alle 21 del mese scorso i detenuti con i quali divideva la cella hanno lanciato l’allarme in quanto il loro compagno dava flebili segni di vita.

È stato prontamente soccorso e visitato dal medico di turno il quale, valutato il suo stato di salute, ha deciso che l’uomo venisse trasferito all’ospedale di Torrette, provincia di Ancona, dove poi è finito in coma irreversibile per poi morire. Per il decesso è indagato con l’accusa di omicidio preterintenzionale un compagno di cella, Mohamed Ben Alì, tunisino di 24 anni. Secondo le testimonianze degli altri detenuti rinchiusi nella stessa cella (due italiani e due tunisini), Alì avrebbe spinto Mestichelli che sarebbe caduto battendo violentemente la testa.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 31 marzo 2015

Campobasso: Detenuto muore di Infarto. Lo curavano con il Malox. Indagati Agenti e Medici Penitenziari


Carcere CampobassoLa Procura della Repubblica di Campobasso ha iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omissione di soccorso quattro persone tra Agenti di Polizia Penitenziaria e Medici in servizio nella Casa Circondariale intervenuti nella cella del 34enne campobassano Alessandro Ianno, forse stroncato da un infarto il 19 marzo scorso. “Dalla mattina Alessandro si lamentava per dolori allo stomaco, al petto e alla spalla – racconta l’avvocato della famiglia, Silvio Tolesino – si sta cercando di capire chi gli ha somministrato il Malox. Noi vogliamo solo conoscere la verità”. Tra 60 giorni si saprà anche l’esito dell’autopsia. Ianno aveva già avuto problemi cardiaci in passato.

L’avvocato della famiglia Ianno sospetta che le cure mediche siano state prestate in forte ritardo al ragazzo “che già dalla mattina si lamentava per dolori alla spalla, allo stomaco e al petto”. I tipici segnali dell’arresto cardiocircolatorio. Ad Alessandro qualcuno, forse il medico della struttura di via Cavour “ma questo è ancora in fase di accertamento” avrebbe prescritto un Malox.

“I dolori non si sono placati – riferisce il legale Silvio Tolesino che assieme ad Antonello Veneziano sta seguendo il caso – anzi sono diventati più forti”. Alle 17 il collasso. Alessandro è morto sotto gli occhi di diversi testimoni. Inutili i tentativi di rianimarlo. “Il nostro non è un accanimento contro il personale penitenziario – con cui si è già schierato il sindacato Sappe – ma vogliamo sapere esattamente chi c’era per arrivare alla verità” dice ancora Tolesino nel giorno della sepoltura di Ianno i cui funerali si sono svolti questa mattina nella chiesta di San Pietro, a Campobasso. Alessandro divideva la stanza con altre tre persone, la loro versione non combacerebbe alla perfezione con quella del personale penitenziario in servizio. L’autopsia eseguita dal medico legale, dottor Vincenzo Vecchione stabilirà con esattezza come e perché è morto Alessandro e se, soprattutto, un tempestivo intervento sarebbe stato capace di salvargli la vita. La perizia non sarà depositata prima di 60 giorni.

C’è un ulteriore particolare sul quale sta lavorando l’avvocato Tolesino: prima dell’arresto, avvenuto a fine febbraio, Ianno aveva avuto qualche problema cardiaco. E si era sottoposto anche a una cura. “Se in carcere sapevano delle condizioni di salute di Alessandro come hanno potuto sottovalutare dei segnali tanto inequivocabili?” si domanda il penalista che ha presentato una domanda di accesso agli atti per confrontare la cartella clinica del paziente Ianno con quella del detenuto Alessandro.

Reggio Calabria, l’Ergastolano Santo Barreca ammesso al lavoro esterno. Favorevole anche l’Antimafia


carcere-fotogramma-258Il detenuto già da tempo ogni sabato mattina viaggia da solo in autobus per recarsi in una casa di riposo a fare volontariato.

Si aprono le porte del carcere di Tempio Pausania (Sassari) in cui è recluso Santo Barreca, 56 anni, pluriergastolano della frazione Pellaro di Reggio Calabria, detenuto da 25 anni, molti dei quali trascorsi, in passato, al regime detentivo speciale 41 bis O.P. A conclusione di un complesso iter procedimentale è intervenuto il parere favorevole della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria in merito all’ammissione del condannato al lavoro esterno. Santo Barreca già ritenuto organico all’omonima cosca operante nella zona sud della città calabrese, che un Gip presso il Tribunale di Reggio Calabria, sin dal febbraio 2011 ha considerato “completamente estinta”, “era da tempo avviato – spiegano gli avvocati – verso il completo recupero al consorzio civile”.

L’uomo aveva ottenuto dal Magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale di Sassari una serie di permessi che gli hanno consentito di assentarsi temporaneamente dalla casa circondariale della città sarda per partecipare a manifestazioni esterne. “L’ergastolano Santo Barreca – spiegano i legali – in parziale esecuzione del programma connesso ai benefici di cui all’art. 21 O.P., da tempo espleta lodevolmente una giornata di volontariato presso la comunità alloggio per anziani (distante 40 Km da Tempio Pausania) che raggiunge ogni sabato con mezzo pubblico libero e senza vincoli di sorta uscendo la mattina alle otto per rientrare con le stesse modalità la sera. Il detenuto è inoltre autorizzato all’uso di un’utenza telefonica mobile”. Secondo il sostituto procuratore Lombardo “il regime carcerario di alta sicurezza nel quale il Barreca Santo è attualmente allocato ha perso sostanzialmente la sua efficacia e la sua finalità” concludendo in ordine all’invocata declassificazione del detenuto affermando che “la stessa è già avvenuta sul piano sostanziale”.

Per gli avvocati Steve ed Aurelio Chizzoniti “l’ergastolano Barreca è ormai pronto ad usufruire di ulteriori benefici alternativi alla detenzione quali permessi premio e semilibertà alle cui conquiste “la già concessa autorizzazione al lavoro all’esterno è strettamente propedeutica”. Gli stessi difensori hanno voluto sottolineare che “l’obbiettivo tenacemente raggiunto da Santo Barreca non soltanto premia un percorso di adamantino recupero dello stesso ma essenzialmente traduce una eloquente vittoria dello Stato nel cui contesto è dimostrato che la finalità detentiva volta al recupero del condannato non è soltanto un’astratta e quasi surreale previsione ex art. 27 della Costituzione”.

Carceri, possibile prolungare l’orario di colloquio con i familiari detenuti al 41 bis


Cella 41 bis OPNei giorni scorsi, la Prima Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione (Pres. Cortese, Rel. Cavallo) con Sentenza nr. 3115, depositata il 22 Gennaio 2015, si è pronunciata nuovamente in merito allo svolgimento dei colloqui con i familiari da parte dei detenuti sottoposti al regime detentivo speciale ex Art. 41 bis c. 2 dell’Ordinamento Penitenziario, volgarmente noto come “carcere duro”.

I Giudici della Cassazione, per l’ennesima volta, hanno chiarito che anche per i detenuti sottoposti al regime differenziato “in assenza di specifiche disposizioni ministeriali” debbono valere le regole generali previste dall’Ordinamento Penitenziario “non oggetto di sospensione” precisando che il 41 bis “nulla stabilisce sulla durata massima del colloquio” mentre “il parametro di riferimento della norma è comunque rappresentato dalle normali regole di trattamento dei detenuti” poiché “l’ampiezza della previsione normativa in materia di colloqui è tale da indurre a ritenere che ulteriori limitazioni, al di là di quelle previste, non siano possibili, salvo che derivino da un’assoluta incompatibilità della norma ordinamentale – di volta in volta considerata – con i contenuti tipici del regime differenziato.”

Com’è noto, l’Ordinamento Penitenziario all’Art. 18 c. 2 prevede che “Particolare favore viene accordato ai colloqui con i familiari” mentre il Regolamento di Esecuzione Penitenziaria all’Art. 37 c. 10 prevede che “Il colloquio ha la durata massima di un’ora. In considerazione di eccezionali circostanze, è consentito di prolungare la durata del colloquio con i congiunti o i conviventi. Il colloquio con i congiunti o conviventi è comunque prolungato sino a due ore quando i medesimi risiedono in un comune diverso da quello in cui ha sede l’Istituto, se nella settimana precedente il detenuto o l’internato non ha fruito di alcun colloquio e se le esigenze e l’organizzazione dell’Istituto lo consentono. ….”.

L’Art. 41 bis O.P. citato nulla stabilisce sulla durata massima del colloquio tra familiari e detenuto: il parametro di riferimento della norma è comunque rappresentato dalle normali regole di trattamento dei detenuti. Per tale motivo, il detenuto che intenderà ottenere il prolungamento dell’orario di colloquio con i propri familiari sino a due ore, potrà presentare apposita richiesta al Direttore dell’Istituto Penitenziario ove si trova ristretto. Nell’istanza (vds. fac-simile disponibile alla fine di questa pagina) andranno indicati i motivi per i quali si chiede il prolungamento della durata del colloquio altrimenti si correrà il rischio di vedersela respinta. Uno dei motivi più importanti, da evidenziare, è l’eccessiva lontananza dal luogo di residenza dei propri familiari con quello del luogo di detenzione, una circostanza che – il più delle volte – anche per difficoltà di natura economica, impedisce di poter effettuare ogni mese il colloquio mensile cui si ha diritto.

Il Direttore dell’Istituto Penitenziario, a norma dell’Art. 75 c. 4 del Regolamento di Esecuzione Penitenziaria, “nel più breve tempo possibile” deve informare il detenuto che ha presentato l’istanza “dei provvedimenti adottati e dei motivi che ne hanno determinato il mancato accoglimento”.

Contro la determinazione del Direttore, il detenuto personalmente o il suo difensore di fiducia, ai sensi degli Artt. 35 bis e 69 c. 6 lett. b) dell’Ordinamento Penitenziario, entro 10 giorni dalla comunicazione del provvedimento, può presentare reclamo giurisdizionale al Magistrato di Sorveglianza territorialmente competente.

Nel caso di rigetto da parte del Magistrato di Sorveglianza può essere proposto, nel termine di 15 giorni dalla data di notifica o comunicazione dell’avviso di deposito della decisione stessa, reclamo al Tribunale di Sorveglianza territorialmente competente.

Nell’ipotesi in cui anche quest’ultimo rigettasse, nel termine di 15 giorni dalla notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito della decisione stessa, può essere proposto reclamo alla Corte Suprema di Cassazione per violazione di legge.

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