Sabella (Giudice): Provenzano era un vegetale, il 41 bis andava revocato, non può essere strumento di tortura


“Il 41bis è uno strumento indispensabile, non perdiamolo solo perché lo applichiamo per vendetta o, peggio ancora, per gli umori del Paese”. Il magistrato Alfonso Sabella, ex sostituto procuratore del pool Antimafia di Palermo di Gian Carlo Caselli e ora giudice del Riesame a Napoli, queste parole le pronunciava anche due anni fa, quando il boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano era ancora vivo. Ma Provenzano è rimasto al 41bis anche in coma: secondo i giudici era ancora pericoloso. Una decisione ora punita dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo, secondo cui il boss sarebbe stato sottoposto a trattamenti inumani e degradanti e che mette a rischio, secondo Sabella, lo stesso strumento.

Dottor Sabella, cosa ci dice questa sentenza?

Provenzano era in stato vegetativo, quindi che abbiamo utilizzato il 41bis come strumento di tortura. Le perizie, non solo quella di parte, ma anche quella del giudice e della Procura, attestavano che non era in condizione di dare nessun tipo di ordine dal carcere o di elaborare un pensiero diverso da “ho fame” e “ho sonno”.

Lei ha sostenuto sin da subito che andasse revocato…

Sì, proprio per salvare lo strumento. Non sono per l’idea che vada abolito, anzi: ritengo sia indispensabile per la lotta alla criminalità organizzata. Ma in quel caso, visto che ci si trovava davanti ad un vegetale, era indispensabile revocarlo. Era scontato l’esito di Strasburgo e basta un altro errore di questo tipo perché la Cedu ci dica che l’Italia usa il 41bis come strumento di tortura e non come strumento di salvaguardia di altri beni costituzionali.

È stata violata la sua dignità?

Provenzano è morto con dignità all’interno di una struttura sanitaria, la cosa però obiettivamente sgradevole è il fatto che si stato impedito ai suoi familiari di avere un contatto fisico con lui nelle ultime settimane della sua vita e di incontrarlo un po’ più frequentemente di una volta al mese e senza vetro divisorio. Non stiamo parlando del problema della detenzione, perché in carcere ci doveva stare, anche per la funzione retributiva della pena nel nostro ordinamento. Il problema è come ci doveva stare e credo che su questo la Corte abbia messo l’accento, soprattutto dopo che è stata accertata la sua condizione. La questione andava affrontata con molta laicità, perché era più che evidente che Provenzano non era capace di dare ordini alla sua cosca.

Perché non è stato revocato?

Si temevano le reazioni, perché era Provenzano. Invece revocare il 41bis a un vegetale è la cosa più normale del mondo. Se fosse stato in grado di dare ordini sarebbe stata un’aberrazione, ma è altrettanto aberrante averlo mantenuto ad un signore incapace di intendere e di volere.

È stato un problema di opinione pubblica più che di ordine pubblico, quindi?

Sì. Ma una cosa è la giustizia privata, una cosa è lo Stato. Uno Stato deve marcare la differenza con le organizzazioni criminali, non fa vendette, applica la legge, i principi fondamentali della nostra Costituzione e della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo. Altrimenti torniamo alla legge del taglione e chiudiamola qua.

Cosa cambierà dopo questa sentenza?

Io mi auguro che si tragga un insegnamento, cioè che il 41bis va limitato ai casi in cui c’è il pericolo che possano essere dati ordini all’esterno e quindi continuare a dirigere l’organizzazione criminale. A differenza di Provenzano, Salvatore Riina, ad esempio, è stato lucido fino all’ultimo istante, quindi è stato giusto mantenere il 41bis, per- ché in quel caso c’erano altri beni costituzionali a rischio.

Perché lo Stato non riesce ad applicare le sue stesse leggi?

Perché questo è un Paese che ragiona di pancia, senza pensare che la revoca del 41bis a Provenzano sarebbe stato un modo per tutelare lo stesso strumento, cioè applicandolo ai casi per cui è stato pensato. Ora, invece, c’è il rischio che la prossima volta in cui non avremo il coraggio di prendere delle decisioni impopolari ma giuste la Cedu dica che l’Italia si maschera dietro la scusa dell’ordine e della sicurezza pubblica per applicare uno strumento di tortura. E allora non potrà più stare nel nostro ordinamento. Se il ministro Orlando, all’epoca, avesse preso questa decisione, ci sarebbero state tante e tali di quelle polemiche da far cadere il governo.

I penalisti si dicono preoccupati in merito all’atteggiamento del nuovo governo sul tema. Qual è la sua opinione?

Non so come si sta muovendo, spero soltanto che non si agisca sempre sulla base delle pulsioni del momento, che forse possono portare qualche voto in più, ma che probabilmente fanno danni al Paese.

Simona Musco

Il Dubbio, 27 ottobre 2018

Catanzaro, Ergastolano si laurea in Giurisprudenza con 110 e lode


Casa Circondariale di CatanzaroClaudio Conte, 45 anni e 27 di carcere già fatto, ha lo sguardo mobile. Come cercasse, invano, un punto su cui fermarsi. S’intuisce l’emozione. La giornata è di quelle che segnano una vita. Per incontrarlo, si sono scomodati dieci docenti universitari guidati dal costituzionalista Luigi Ventura, preside della Facoltà di Giurisprudenza della “Magna Grecia”. Lui, il detenuto, quand’è stata l’ora dei ringraziamenti, ha detto: «Oggi è entrato in carcere un pezzo di libertà». Venerdì 22 aprile: tutt’intorno, nel penitenziario “Ugo Caridi” di Siano a Catanzaro che ospita 700 persone perlopiù meridionali, si respira aria di festa. La cerimonia di una laurea in legge dietro le sbarre, però, a guardarla con occhi distaccati, evoca, piuttosto che entusiasmo, le tristi parole di una vecchia canzone di Claudio Lolli: «Vent’anni (più o meno l’età in cui Claudio Conte è finito in carcere a Lecce) tra milioni di persone, che intorno a te inventano l’inferno. Ti scopri a cantare una canzone, cercare nel tuo caos un punto fermo. Vent’anni e solitudine sorella, ti schiude nel suo chiostro silenzioso, il buio religioso di una cella, la malattia senile del riposo. Vent’anni e solitudine nemica, ti vive addosso con il tuo maglione, ti schiaccia come un piede una formica, ti inghiotte come il cielo un aquilone, vent’anni e uscirne fuori è fatica». Eppure, in quel “chiosco silenzioso”, Claudio Conte ha fatto una «scoperta meravigliosa»: la Costituzione. Sicché, venerdì ha potuto depositare sul tavolo della Commissione di laurea un lavoro “poderoso” (l’ha definito così il prof. Ventura) che intercala il suo lungo percorso umano, lastricato di dolori e ravvedimento, con una mole enorme di riferimenti specialistici «sull’irretroattività delle preclusioni ai benefici penitenziari (introdotte nel ’92) ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo prima del 2008».

CLAUDIO CONTE E L’ERGASTOLO OSTATIVO Giornata decisiva per Claudio Conte. Come altre nella sua vita, ma le altre, alcune di sicuro, non gli hanno portato bene. Se è in carcere da quando aveva diciotto anni e mezzo ed oggi ha oltrepassato la soglia dei quaranta, è perché in quelle “altre” giornate, altrettanto indelebili, ha giocato pesante, nei borghi di città in cui la guerra dei clan «mischia vittime e carnefici» fagocitando giovani abbandonati a se stessi. E ora sono ventisette anni di galera dura con un ergastolo ostativo da scontare. Anzi no: perché quand’è ostativo il detenuto non sconta un bel niente, visto che (Lolli) «è incastrato senza resistenza» e ha «una coscienza rattrappita che vuole venir fuori e srotolarsi». Srotolarsi, ma non può: perché, nonostante l’articolo 27 della Costituzione, che non predilige pene contrarie al senso d’umanità ma chiede che tendano alla rieducazione del condannato, lo Stato l’imprigiona per la morte; «e ti schiaccia – canta Lolli – come un piede una formica…E uscirne fuori è fatica». La serrata requisitoria di Conte contro l’ergastolo ostativo (il titolo della tesi, disponibile anche in versione digitale, è: “Profili costituzionali in tema di ergastolo ostativo e benefici penitenziari”), ha avuto l’apprezzamento del prof. Ventura che l’ha definita «una lezione». Infatti Conte, per oltre un’ora, con la stessa abilità di uno sherpa del Nepal ad alta quota, ha illustrato norme, leggi, sentenze, decisioni difformi dai principi costituzionali, conducendo un ragionamento conclusosi con la richiesta «di una soluzione al problema dell’ergastolo ostativo nel rispetto del diritto».

CON L’ERGASTOLO PERDI LO STATUS DI CITTADINO Ma se lo Stato non gli dà, a lui che ha già ingollato ventisette anni di reclusione e a quelli come lui (in Italia sono 1.619 i condannati alla pena perpetua e 1.174 gli ergastolani ostativi ai sensi dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario) neppure il bacio che nella fiaba si concede al “principe ranocchio”, Conte la speranza non l’ha persa. Asserisce di sentirsi «schiavo», perché «con l’ergastolo non hai più lo status di cittadino ma sei ‘cosa’ di un potere che non ascolta», o «un naufrago alla deriva su un’isola deserta dove è inutile proclamarsi innocenti o colpevoli perché in questi luoghi nessuno ha il potere di liberarvi», ma non ha mai ceduto alla disperazione. E dopo un lungo cercarsi, lavorando di scavo nelle storie tortuose del suo mondo schiacciato da povertà e violenza, sostenuto da funzionari dello Stato come la direttrice del carcere di Siano Angela Paravati per la quale «la pena non può essere la rivalsa della società civile nei confronti del reo o il luogo delle vendette pubbliche e private da esercitare ampliando gli effetti della detenzione mediante sofferenze fisiche e psichiche dei carcerati», ha deciso di reagire. Studiando legge da mattina a sera. Compulsando libri e codici, prendendo appunti, scrivendo dell’angoscia di chi davanti a sé ha una prigione senza uscita. E presentandosi, infine, davanti alla Commissione di laurea della Facoltà di Giurisprudenza di Catanzaro (ha iniziato gli studi a Perugia) con una tesi sulla sua stessa condanna. Quella cioè del “fine pena mai” e senza benefici di sorta. «Un lavoro – asserisce il meridionalista Nicola Siciliani de Cumis che lo segue da tempo e che ha esperienza di ‘elaborazioni’ e di ‘confezioni’ di tesi di laurea – in odore di ‘novità’. Una sorta di ipertesto di straordinario impatto culturale con comparazioni e acquisizioni giurisprudenziali nazionali e internazionali mirate (Corte di Strasburgo!) finalizzate a costruire un originale «stato dell’arte» e a sostenere con rigore logico-giuridico «la tesi della tesi». Ossia il diritto di tutti i cittadini a un lavoro gratificante e il diritto alla libertà, quando si è compreso il valore delle vite spezzate. E si è pagato il prezzo nelle durezze della vita carceraria, «dove – ha scritto Claudio Conte recensendo il libro di Elvio Fassone “Fine pena: ora” – le deroghe alle garanzie processuali lasciano il reo in balia delle tante manchevolezze, le incapacità, l’insensibilità, la cieca e bieca burocrazia che deformano la pena detentiva in tortura, in pena capitale». E poi l’affondo: l’invito della tesi, a settanta anni di distanza dalla nostra Carta costituzionale, a rileggere, con rinnovata freschezza ermeneutica, gli articoli 2, 3, 27, 34.

«NEL CARCERE DI SIANO A CATANZARO PREVALGONO LE LUCI» Infine, le strette di mano. La Commissione, rigorosa nella disamina del laureando si concede eleganti deviazioni dalla routine e (“irritualmente”) fa omaggio a Conte di un volume collettaneo (“Principi costituzionali” di L. Ventura e A. Morelli). Si ritira per la decisione e sentenzia: «110, lode accademica e menzione accademica». Il relatore si sbilancia: «Non abbiamo studenti di questo livello nella nostra facoltà». Applaudono i parenti venuti dalla Puglia. Commozione e qualche lacrima. I detenuti, una decina, offrono i pasticcini. E’ l’ora di uscita, per chi può. La direttrice ringrazia – «il carcere deve garantire la speranza a persone che nel passato hanno commesso errori» – e legge la lettera di auguri dell’arcivescovo Vincenzo Bertolone al detenuto dottore. Al giudice di sorveglianza, Laura Antonini, che «ha voluto esserci», Claudio Conte consegna una copia della sua tesi con una stretta di mano. Prima che Conte rientri nel circuito di massima sicurezza, le ultime battute. Lui non si ritrae: «Ogni istante qui è prezioso, parliamo pure». Sovraffollamento e suicidi in carcere: «Accadono quando la capacità di resistenza è finita». Riflette: «Colpisce l’indifferenza di una società che al carcere affida la soluzione di conflitti sociali irrisolti». Del tempo che scorre: «In carcere si contano i giorni, le ore, i minuti». Dei gesti di autolesionismo di molti detenuti: «Sono la conseguenza dell’abuso della carcerazione preventiva e dell’omessa applicazione delle pene alternative in fase esecutiva». Del carcere di Siano dov’è giunto nel 2008: «Non può essere definito un fiore all’occhiello, come Bollate o Laureana di Borrello, ma neanche un girone infernale. La nuova gestione ha fatto molto e molto si vuole fare, tra mille difficoltà. Conciliare sicurezza con sviluppo e rispetto della persona non è facile. Luci e ombre esistono dappertutto, ma a Catanzaro prevalgono le luci. E io, in quasi trent’anni, ne ho viste di carceri…».

Romano Pitaro

Corriere della Calabria, Sabato, 23 Aprile 2016 

Agente Penitenziario : “Le botte ? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati ottimi”


Polizia_Penitenziaria_2Le parole degli agenti penitenziari: “Tanto da qui tu e gli altri uscirete più delinquenti di prima”. “Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?”. “Fermarlo? Chi, a lui? No, io vengo e te ne do altre, ma siccome te le sta dando lui, non c’è bisogno che ti picchio anch’io”.

Botte. E ancora botte. Sevizie. Perché con i detenuti, parole di agente penitenziario, “ci vogliono il bastone e la carota”. Un giorno di pugni e l’altro no, “così si ottengono risultati ottimi”. E la paura tiene buoni. Lividi, percosse, le ossa rotte, inutile nascondersi sotto la branda. Tanto “il detenuto esce dal carcere più delinquente di prima”, e, dice ancora il brigadiere, “non perché piglia gli schiaffi, ma perché è proprio il carcere che non funziona”.

La registrazione è così nitida da far sentire il freddo sulla pelle. Chi parla è Rachid Assarag, detenuto marocchino quarantenne, che sta scontando una pena di 9 anni e 4 mesi nelle carceri italiane. E chi risponde sono gli agenti, ora di un penitenziario ora di un altro. La conversazione è una testimonianza agghiacciante di quanto succede nei nostri istituti penitenziari. Dove il detenuto Rachid (condannato per violenze sessuali) viene ripetutamente picchiato e umiliato dagli agenti addetti alla sua custodia.

La prima volta nel carcere di Parma, racconta Rachid, dove in quattro (guardie) lo seviziano con la stampella a cui si appoggiava per camminare. Lui denuncia, ma chi crede alle parole di un detenuto? Così Rachid, assistito dall’avvocato Fabio Anselmo, mentre viene trasferito in undici carceri diverse dal 2009 (Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella), inizia a registrare tutto.

Conversazioni con la polizia penitenziaria, medici, operatori e magistrati. Voci dall’inferno. Come quando le guardie entrano nella sua cella per “scassarlo” di botte, o il sovrintendente ammette: “questo carcere è fuorilegge, dovrebbe essere chiuso da 20 anni, se fosse applicata la Costituzione”.

Agente con accento napoletano: “Mi hai fatto esaurire, ti sei anche nascosto sotto il letto”. Rachid: “Perché mi volevate picchiare”. “Se ti volevamo picchiare era più facile che ti prendevamo e ti portavamo giù”. Giù. Dove forse nessuno sente e nessuno vede. Sono le botte la rieducazione, come dice chiaramente qualcuno che Rachid chiama “brigadiere”. Probabilmente un sovrintendente della polizia penitenziaria.

Rachid registra e registra. Incalza anche: “Voi qui non applicate la Costituzione”. La risposta del brigadiere (lo stesso che teorizzava una seconda razione di botte per Rachid che chiedeva “fermati” all’agente che lo stava picchiando) è incredibile: “Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni. In questo carcere la Costituzione non c’entra niente”.

Le registrazioni di Rachid escono dal carcere, e l’associazione “A buon diritto” di cui è presidente Luigi Manconi, decide di renderle pubbliche. Conversazioni acquisite dai magistrati, e che testimoniano quanto gli abusi sui detenuti siano una (atroce) prassi abituale nei nostri penitenziari. Dai quali, come ammettono gli stessi agenti “si esce più delinquenti di prima, ma non per gli schiaffi che prendono, o quantomeno non solo, ma perché è l’istituzione carcere che non funziona”. Commenta Luigi Manconi, presidente, anche, della Commissione per i diritti umani: “Il carcere per sua natura e per sua struttura produce aggressività e violenza, e come dice il poliziotto penitenziario si trova in uno stato di permanente illegalità. Riformarlo è ormai un’impresa disperata. Si devono trovare soluzioni alternative”.

Rachid: “Devo uscire dal carcere più cattivo di prima? Dopo tutta questa violenza ricevuta, chi esce da qui poi torna”. E il “superiore” invece di smentirlo difende l’uso della violenza come metodo rieducativo. “Le botte? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati ottimi”. Tanto da dietro le sbarre nessuno parla, come dimostra il caso di Stefano Cucchi.

Da anni Rachid Assarag registra e fa esposti. Ma quasi nulla accade. Anzi mentre le denunce degli agenti nei suoi confronti avanzano, quelle di Rachid si arenano. Assarag da un mese è in sciopero della fame, ha perso 18 chili. Di recente è stato di nuovo denunciato per aver bloccato le ruote della carrozzina in cui ormai viene trasportato, per aver insultato le guardie e rovesciato la branda in cella, “disturbando il riposo e le normali occupazioni degli altri detenuti”.

Rachid, qualunque sia il reato di cui un detenuto si è macchiato, testimonia con le sue registrazioni che nei penitenziari italiani la violenza è prassi. Scrive l’associazione “A buon diritto”: “Se Assarag dovesse morire in carcere, nessuno potrebbe dire che non si è trattato di una morte annunciata”.

Maria Novella De Luca

La Repubblica, 4 dicembre 2015

Carceri, il Ministro Orlando “Chi dice buttate via la chiave va confinato in un angolo”


Ministro Orlando (2)“Mi spiace che di carceri non si ragioni più dal momento in cui si è superata la triste situazione del sovraffollamento. E non lo dico dal punto di vista di chi ha dato qualche contributo ad andare in questa direzione, ma dal punto di vista vostro. Noi abbiamo un sistema dell’esecuzione penale che è tra i più cari in Europa e che ha il più alto tasso di recidiva. Voi lavorate per mandare della gente in galera che quando esce è peggio di quando vi è entrata: credo che questo sia un elemento di frustrazione che dovremmo affrontare tutti insieme, anche in questo caso insieme.” Lo ha detto l’Onorevole Andrea Orlando, Ministro della Giustizia del Governo Renzi, intervenendo al Congresso Nazionale dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) tenutosi nei giorni scorsi a Bari.

“Perché una volta superata la situazione di sovraffollamento non abbiamo risolto il tema del modello attraverso il quale avviene la detenzione, che nel nostro Paese è un modello passivizzante, carcero-centrico, che finisce per perpetuare le gerarchie criminali che si realizzano all’esterno del carcere stesso. In questo io credo che una discussione seria, ampia – anche dei costi/benefici, senza approcci ideologici, e nel confronto fra questo e altri sistemi a livello europeo – io credo che debba essere fatta. Anche per fronteggiare quel populismo penale contro il quale il presidente Sabelli ha speso parole importanti nei mesi scorsi. Ma che va sconfitto non semplicemente con una discussione fra addetti ai lavori, ma parlando alla società italiana. Cercando di confinare – ha concluso il Ministro della Giustizia – in un angolo gli imprenditori della paura. Cercando di mettere in un angolo quelli che dicono “bisogna buttare via la chiave”. Senza considerare il fatto che la nostra Costituzione dice, non per caso, una cosa abbastanza diversa”.

Giustizia: decalogo del rifiuto alla richiesta del Papa di una “grande amnistia”


Cella Carcere ItaliaLa richiesta del Papa “di una grande amnistia” per il Giubileo Straordinario della Misericordia, può anche essere respinta al mittente. Purché lo si motivi con ragioni all’altezza dell’interlocutore, il quale possiede carisma, progettualità, credibilità in quantità che la politica ha smarrito da tempo.

Ovvio l’entusiasmo dei favorevoli, a cominciare dalla voce ragionevolmente visionaria di Pannella. Quanto agli altri, il silenzio generale è stato interrotto da poche risposte verosimili, ma non vere. Eccone il catalogo.

La risposta orgogliosa è, in apparenza, convincente. Rivendica il primato della politica sull’indulgenza cristiana. La misericordia è una virtù morale, che dispone alla compassione e opera per il bene del prossimo perdonandone le offese. Non può però dettare tempi e contenuti delle scelte giuridiche che, laicamente, rispondono all’etica della responsabilità, preoccupandosi delle conseguenze concrete più che dei buoni propositi.

Tutto giusto ma sbagliato se riferito al tema della clemenza, dove la voce di Bergoglio si è aggiunta (e non sostituita) a quella del capo dello Stato e della Corte costituzionale che, da tempo, hanno invocato una legge di amnistia e indulto. Il primo, motivandone le ragioni strutturali nel suo unico messaggio alle Camere, ignorato al Senato, discusso solo di sponda alla Camera. La seconda, evocandolo in un’importante sentenza del 2013 in tema di sovraffollamento carcerario. Rispondere picche al Papa, come già al Presidente Napolitano e ai Giudici costituzionali (tra i quali, allora, sedeva anche Sergio Mattarella), testimonia della politica non l’autonomia, ma la grave afasia.

La risposta pavloviana è quella di chi ama vincere facile. C’è la sua variante rozza (“Mai più delinquenti in libertà”) e quella più forbita (“Le carceri devono essere luoghi di rieducazione, ma chi è condannato deve stare in carcere fino all’ultimo giorno”). È un mantra costituzionalmente stonato. Se le pene “devono tendere” alla risocializzazione, durata e afflittività dipendono, in ultima analisi, dal grado di ravvedimento del reo: questo, alle corte, è quanto imposto dalla Costituzione. La certezza della pena è, dunque, un concetto flessibile, più processuale che sostanziale. Scambiarla con la legge del taglione significa abrogare l’intero ordinamento penitenziario, benché vigente da quarant’anni.

C’è poi la risposta causidica. Interpretare le parole del Papa come un appello alla politica ne fraintenderebbe il senso, esclusivamente ecclesiale. Che tale precisazione venga dal portavoce vaticano non stupisce: già nel 2002 la richiesta di clemenza di Papa Wojtyla – coperta da applausi in Parlamento – fu poi ignorata da deputati e senatori. Prudenzialmente, oltre Tevere, si vorrebbe evitare il déjà-vu.

Se Bergoglio ha usato – per la prima volta – la parola “amnistia”, l’ha fatto a ragion veduta, soppesandone l’inevitabile impatto politico. Non ha improvvisato. Ha proseguito la sua riflessione (sul senso delle pene, sulla necessità di un diritto penale minimo, sui pericoli del populismo penale) e la sua azione riformatrice (abolizione dell’ergastolo, introduzione del reato di tortura), entrambe costituzionalmente orientate. Isolare da ciò il suo appello alla clemenza è come divorziare dalla realtà delle cose.

Dal governo, invece, è giunta la risposta stupefatta: “Ma come? Proprio ora che il tasso di sovraffollamento è calato, grazie a misure deflattive adeguate? Proprio ora che si è aperto un grande cantiere per la riforma della giustizia e dell’ordinamento penitenziario?”. Lo stupore nasce da un fraintendimento di fondo: quello per cui un atto di clemenza generale sarebbe alternativo a riforme strutturali, quando invece ne rappresenta un tassello essenziale. Amnistia e indulto sono previsti in Costituzione come utili strumenti di politica giudiziaria e criminale, a rimedio di una legalità violata da un eccesso di processi e detenuti. È solo la sua rappresentazione collettiva (decostruita efficacemente da Manconi e Torrente nel loro libro La pena e i diritti, Ed. Carocci, 2015) ad aver trasformato una legge di clemenza da opportunità a catastrofe per i propri dividendi elettorali.

Resta la risposta possibilista. Fare in modo che “una legittima aspirazione della Chiesa possa diventare un fatto politico” (così il Presidente Grasso); tradurre questa richiesta “in qualche cosa di strutturale, che rimanga anche dopo” (così il ministro Orlando). Come? Le maggioranze dolomitiche necessarie e le divisioni tra le forze politiche, temo, bloccheranno i disegni di legge ora fermi in Commissione al Senato. Perché, allora, non riformare l’art. 79 della Costituzione che, nel suo testo attuale, oppone così rilevanti ostacoli alla loro approvazione? L’ultima amnistia risale al 1990, l’ultimo indulto al 2006. Restituire agibilità politica e parlamentare agli strumenti di clemenza: questa sarebbe una risposta possibile, e all’altezza della misericordia giubilare.

Andrea Pugiotto

Il Manifesto, 9 settembre 2015

 

Carceri, il “girone dei cattivi”, ideato dal Dap, alimenterà l’antisocialità dei detenuti


cella penitenziariaUna Circolare Dap, 0186697-2015, del 26 maggio 2015, sollecita l’istituzione, negli istituti penitenziari, di specifiche sezioni dove allocare i detenuti che abbiano dimostrato di essere meno pronti di altri al regime c.d. “aperto”, ovvero abbiano posto in essere condotte che li rendano con lo stesso incompatibili. Un girone dei cattivi, insomma, che li raggruppa e li assimila, li marchia e li isola.

La circolare muove dall’osservazione di un dato statistico: “l’aumento – seppur lieve – del numero di eventi critici configuranti aggressioni al personale”. Il fenomeno, prosegue la circolare, “è maggiormente presente laddove è in vigore un regime cosiddetto chiuso mentre la percentuale di aggressioni (seppur sempre in ascesa) è nettamente inferiore nelle sezioni dove è applicata una gestione aperta”.

Il primo dato, dunque, appare logico e coerente: quando la persona detenuta è abbrutita da uno stato di restrizione asfittico, è più probabile che indulga a comportamenti o ad atteggiamenti antisociali, espressione di uno stato d’animo di sofferenza e di oppressione. Del tutto illogico e incoerente risulta, invece, rispetto alla premessa argomentativa, il prosieguo del provvedimento amministrativo. Stabilita la prevalenza della necessità di salvaguardare la incolumità del personale (il Dap opera, dunque, in modo autonomo una perequazione di diritti di rango costituzionale), la circolare evidenzia l’opportunità di istituire un servizio di controllo che offra ausilio costante al personale, nonché di creare sezioni ex art 32 del regolamento di esecuzione. L’invocazione dell’art. 32 non sembra del tutto pertinente. La norma prevede infatti “assegnazione e raggruppamento per motivi cautelari”, ma le cautele cui si riferisce sono nei confronti di soggetti deboli che rischiano “aggressioni o sopraffazioni da parte dei compagni”. La circolare in questione, invece, tende alla istituzione di “sezioni appositamente dedicate ove allocare quei detenuti non ancora pronti al regime aperto ovvero che si siano manifestati incompatibili con lo stesso”.

Lo spirito, chiarisce la circolare, non vuole essere quello di isolare o di punire, bensì quello di agevolare, attraverso idonea attività trattamentale, il ritorno di tali soggetti ad un regime di carcerazione “aperto”, salvaguardando al contempo tale regime da atti di prevaricazione e violenza. Il proclama, tuttavia, non rassicura affatto e svela appieno la sua grave e vistosa incongruenza. Ha un intento punitivo immediatamente leggibile che travalica il potere disciplinare di sanzionare il singolo recluso che si sia reso responsabile di condotte contrarie ai regolamenti di istituto e ad esso si aggiunge.

Dà vita a un altro carcere dentro al carcere, più aspro, meno indulgente, più “chiuso” senza neppure specificare con chiarezza quali condotte si tradurranno per il detenuto in un nuovo marchio stigmatizzante e lo renderanno peggiore, più aggressivo, riconoscibile come cattivo. L’offerta trattamentale sarà ridotta insieme alla partecipazione del punito alle iniziative formative del carcere. I comportamenti antisociali, conformemente alla premessa logica della circolare, saranno con buona probabilità acuiti ed esasperati dall’inasprimento delle restrizioni. Nei nuovi ghetti, però, i reclusi saranno invisibili e innocui con buona pace della inviolabilità della libertà personale, della riserva assoluta di legge, della sempre più martoriata Costituzione.

Maria Brucale (Avvocato, Camera Penale di Roma)

L’Opinione, 9 giugno 2015

Agnese Moro : Sono contro l’ergastolo. Mio padre diceva che era una pena inumana per cui contraria alla Costituzione


Agnese MoroLa democrazia repubblicana, così come la disegna la nostra bella Costituzione, non è solo un sistema politico. È anche – e forse soprattutto – un progetto di vita individuale e sociale. Esprime una speranza di giustizia e di pace, che viene dalle generazioni che ci hanno preceduto, che ci accompagna dando sapore alle nostre esistenze, che vorremmo poter trasmettere ai nostri figli e nipoti.

Alla base del progetto della nostra democrazia repubblicana c’è la persona; ci sono le persone reali, la loro dignità, le loro difficoltà, la loro unicità e la loro grandezza. Per l’ideologia fascista che ha preceduto la Repubblica lo Stato era tutto, le persone niente. Per la Repubblica (ovvero per tutti noi), invece, ogni persona è preziosa, e siamo impegnati, tutti insieme, a difenderne i diritti e la dignità.

Ed è per questo che quando uno di noi sbaglia, anche gravemente, noi lavoriamo per impedirgli di seguitare a sbagliare e gli infliggiamo una pena che non è una vendetta, ma che gli deve servire a cambiare e a ritornare tra noi. Dall’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Noi non buttiamo via nessuno, e rivogliamo tutti indietro. In questo nostro progetto di vita l’ergastolo è decisamente un corpo estraneo; una contraddizione insanabile con la nostra Costituzione. Perché fa della pena una punizione e basta; perché sancisce un allontanamento definitivo e senza appello dal resto della società; perché – come diceva mio padre Aldo Moro nei suoi scritti giuridici – è decisamente contraria al senso di umanità perché nega anche la speranza di poter tornare a vivere la dimensione della libertà che caratterizza così profondamente il nostro essere uomini.

Bisognerebbe avere anche l’onestà e il coraggio di affrontare il tema della giustizia. È facile dire a chi ha perso qualcuno perché un altro essere umano gli ha tolto la vita: “Ti faremo giustizia; manderemo il responsabile in prigione per molti anni o per sempre, e tu sarai ripagato”. È una menzogna. Le perdite subite non si risanano, e nessuna punizione può ripagare di un affetto che non c’è più.

Può invece aiutare – tanto – vedere che chi ha fatto del male ha capito quello che ha combinato, ne è realmente dispiaciuto, vorrebbe con tutte le sue forze non averlo fatto; che riprende a vivere in maniera diversa, cerca di essere utile alla società, porta il rimorso suo e anche il dolore delle proprie vittime.

È quanto di più vicino alla giustizia si possa chiedere. Ed è la saggia via proposta dalla nostra Costituzione.

Agnese Moro

Famiglia Cristiana

Giustizia: cancelliamo il 4 bis della Legge Penitenziaria, è contro la Costituzione


281778_203223483069863_6404471_nDi qualunque condanna si tratti, è inammissibile una carcerazione non protesa alla riammissione in società. C’è una norma nell’ordinamento penitenziario che è stigmate, preclusione di speranza, mutilazione di rieducazione, negazione di umanità.

C’è una norma che spezza ogni anelito dì cambiamento a coloro che sono stati condannati per una determinata categoria di reati, salvo che collaborino con la giustizia. C’è una norma che e incostituzionale e deve essere abrogata.

E’ l’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario. E una nonna tarlata da stridenti contraddizioni rispetto al dettato costituzionale, scaturigine di indirizzi giurisprudenziali schizofrenici. I giudici di legittimità esprimono principi assoluti e inderogabili afferenti alla proiezione di ogni pena alla rieducazione del condannato per poi stravolgerli ineluttabilmente a fronte dello sbarramento cieco dei reati ostativi alla concessione di qualsivoglia beneficio intramurario ad eccezione della liberazione anticipata.

Si impone, dunque, un adeguamento normativo della legislazione ordinaria a quella di rango costituzionale reso più cogente da imperativi comunitari che ricordano come sia inammissibile una carcerazione non protesa alla riammissione della persona detenuta nel tessuto sociale, alla aspirazione alla libertà, alla speranza di restituzione alla vita (Vinter c. Regno Unito).

Occorre una visione costituzionalmente orientata dell’accesso alle misure alternative alla carcerazione attraverso verifiche del percorso compiuto dalla persona ristretta avulse da meccanismi mercimoniosi; una “valutazione della condotta complessiva – per usare le parole della Cassazione – che consenta di verificare che l’azione rieducativa svolta abbia condotto il detenuto ad una revisione critica della vita anteatta”; una valutazione che non radichi il giudizio sul compiuto ravvedimento del condannato a logiche auto od eteroaccusatorie che si scontrano con principi anch’essi di valore e rango costituzionale, ma adotti criteri personalistici ed esuli da logiche preconcette ed aprioristiche.

“Nemo tenetur se detergere” è principio cui è improntato l’intero sistema ordinamentale e da esso trae sostanza la giurisprudenza di legittimità che con indirizzo costante afferma: “la concessione delle misure alternative alla detenzione non presuppone la confessione del condannato”. Nessuno può essere coartato all’autoaccusa, ad affermare la propria responsabilità penale; nessuno può essere privato del diritto di professarsi innocente (magari perfino di esserlo!). É una tutela offerta dalla Costituzione e racchiusa nei principi di inviolabilità del diritto di difesa e di non colpevolezza posti a presidio della libertà – da intendersi come valore assoluto e preminente – ma anche del decoro e della reputazione del soggetto nel contesto in cui il vive.

La correlazione tra aspirazione all’accesso ai benefici penitenziari e obbligatorio approdo a condotte auto ed etero accusatorie – quando non meramente delatorie – contrasta con violenza con i principi evocati e si pone in feroce contrapposizione con il diritto di qualunque soggetto, perfino condannato con sentenza definitiva, a proclamare la propria innocenza.

La Corte Costituzionale ha offerto uno spunto di cambiamento, un segnale positivo affermando l’esistenza di “un criterio costituzionalmente vincolante” che impone di “escludere rigidi automatismi” nella materia dei benefici penitenziari, ossia divieti aprioristici all’accesso ai benefìci premiali e alle misure alternative al carcere tratti dal tipo di reato.

Esiste, dunque, una vistosa separazione tra compimento del percorso rieducativo e collaborazione con la giustizia per cui è, deve essere, del tutto ammissibile che un percorso di reinserimento nel tessuto sociale possa dirsi compiuto anche in difetto di approdo alla scelta collaborativa. Nessun uomo può giungere al pentimento, quello autentico dell’anima, se non sarà mai perdonato. Nessuna spinta positiva esercita una pena che non ha fine né emenda. Il 4 bis è una norma che deve essere cancellata. Lo chiede la Costituzione, lo chiede la ragione.

Avv. Maria Brucale

Il Garantista, 30 aprile 2015

Contro l’ergastolo, le parole di Papa Francesco. Molti Giudici sapranno ascoltarle ?


Papa FrancescoLo spettacolare discorso del Pontefice sui temi della giustizia penale ha il destino segnato. All’inizio echi sui media e plauso generale; poi i primi distinguo e i persistenti silenzi; infine la sua riduzione a profetica testimonianza.

È un dejà vu. Inviato un anno fa, il messaggio del Quirinale sulla condizione carceraria non è stato mai discusso in Senato. La Camera invece, asserendo incredibilmente che non lo si potesse dibattere in Aula, preferì discuterne i contenuti di sponda, dopo cinque mesi e due rinvii, in un emiciclo semivuoto.

Destino comune perché comune è il denominatore dei due documenti: lucidità di diagnosi, rigore nella prognosi, chiarezza nell’indicare i rimedi. Inevitabile, per la politica, la tentazione del fuggi fuggi generale.

Eppure, per la posta in gioco, l’intensa riflessione del Papa chiama all’assunzione di responsabilità tutti: chi plasma il diritto penale (il legislatore), chi gli dà forma di diritto vivente (i giudici e la dottrina giuridica), chi ne controlla la legittimità (la Consulta), chi è chiamato a informare senza cedere alle semplificazioni del populismo penale (i media). Vedremo chi sarà all’altezza della sfida.

Esserne all’altezza significa assumerla integralmente. Soprattutto nel punto di massima contraddizione: il ripudio della pena capitale e dell’ergastolo. In Italia, infatti, non c’è più la pena di morte, mentre sopravvive la pena fino alla morte.

Ha ragione Francesco: “L’ergastolo è una pena di morte nascosta”. Quanti sanno, infatti, che in Italia esistono non uno ma più ergastoli (comune, con isolamento diurno, ostativo)? Quanti sanno che, oggi, gli ergastolani sono 1.576? Molti reclusi da oltre 26 anni, senza liberazione condizionale; altri da più di 30 anni, durata massima per le pene detentive. Quanto a quelli ostativi (1.162, la stragrande maggioranza), sono ergastolani senza scampo: per essi le porte del carcere non si apriranno mai.

Dobbiamo forse attenderne la morte, per riconoscere che tutte queste persone scontano una pena senza fine? Nel frattempo, su di loro ci si accanisce. Leggi recenti negano agli ergastolani il beneficio della liberazione anticipata speciale, la durata massima dell’internamento in ospedale psichiatrico giudiziario, finanche il rimedio risarcitorio per detenzione inumana. Come se la loro colpa fosse uno stigma irredimibile, quando invece per Costituzione tutte le pene “devono tendere” alla risocializzazione del reo.

La pena di morte, “in tutte le sue forme” viene collegata dal Papa “con l’ergastolo”, entrambe abolite in Vaticano nel 2013. Altrettanta coerenza è pretesa dalla Costituzione. Il suo art. 27, 4° comma, rifiuta sanzioni irrimediabili: la pena di morte è vietata perché condannare un innocente è sempre possibile. L’ergastolo, al contrario, è un atto di fede cieca verso un’infallibilità giudiziaria che la Costituzione esclude.

La fallacia normativistica di un ordinamento a prova di errore si spinge, con l’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, al paradosso kafkiano: se condannati all’ergastolo ostativo, auguratevi di essere davvero colpevoli, perché solo il colpevole può utilmente collaborare con la giustizia (guadagnando così una possibile libertà). Ma se malauguratamente foste innocenti, peggio per voi: dovrete rassegnarvi a morire murati vivi.

Quarant’anni fa la Consulta liquidò il problema della costituzionalità dell’ergastolo con una motivazione più breve di questo articolo. Da allora mai più un tribunale ha risollevato la questione. Molti giudici, commossi e ammirati, avranno letto le parole del Papa contro il “fine pena mai”. Sapranno anche ascoltarle?

Andrea Pugiotto

Il Manifesto, 29 ottobre 2014

In Italia più di 1.000 ergastolani “ostativi”, lo Stato non rispetta la sua legalità


carcere chiaveIntervista ad Andrea Pugiotto, Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Ferrara, realizzata dalla giornalista Francesca de Carolis.

Il luogo comune che nessuno muore in carcere a fronte di una realtà di più di mille ergastolani ostativi; il confine costituzionale fra forza e violenza che impedisce che l’uso della prima sconfini in quello della seconda; un tema, quello dell’ergastolo, su cui la volontà popolare non può esercitarsi, in quanto di rilevanza costituzionale; il rischio che il problema gravissimo del sovraffollamento fa correre: che il reo diventi vittima.

Quando e perché ha scelto di fare della questione carceraria e in particolare dell’ergastolo non solo il suo filone principale di studio, ma anche una vera e propria battaglia civile?

Provo a rispondere muovendo da un dato giuridico. Nel nostro ordinamento penale esiste un principio secondo il quale, quando si ha il dovere giuridico di impedirlo, non evitare un reato equivale a cagionarlo. Analogamente, avere una competenza (cioè un sapere) e non fare nulla, è un grave peccato di omissione o, per noi laici, una grave responsabilità personale. Nasce da qui, da questa consapevolezza, l’urgenza non solo di studiare e di scrivere, ma anche di trovare strumenti inediti ed efficaci in grado di veicolare il proprio sapere in una battaglia di scopo.

Non accade spesso, tra i membri dell’Accademia…

Non saprei dire. E comunque, in questo, ognuno risponde solo a se stesso: nel mio caso la circolarità tra l’impegno scientifico e l’impegno civile era un esito pressoché obbligato. Da costituzionalista, infatti, ho sempre pensato il diritto come violenza domata, e la Costituzione come regola e limite al potere. Visti da tale angolazione, il carcere e le pene rappresentano indubbiamente un campo d’indagine privilegiata, un banco di prova tra i più impegnativi per misurare la distanza tra la dimensione ontica del diritto, la sua effettività, e la dimensione deontica del diritto, il suo dover essere. O, se preferisce, tra il diritto vivente e il diritto che insegno.

Iniziamo dall’ergastolo, al cui superamento lei ha dedicato un’attenzione tutta particolare. Un tema impopolare, senza parlare del luogo comune difficile da scalfire: “l’ergastolo in Italia non esiste più”…

Sul tema dell’ergastolo, ma vale in realtà per tutti i principali problemi che ruotano attorno alle pene e alla loro esecuzione, è davvero larga la forbice tra il senso comune e la realtà delle cose. Ecco perché è fondamentale la parola, lo scritto, il dibattito pubblico, la capacità di creare momenti di riflessione non reticente: tutte occasioni capaci di colmare la distanza abissale tra l’opinione omologata, la doxa dominante, e la consapevolezza delle cose, l’epistème. Quante persone sanno, ad esempio, che in Italia esistono non uno ma più tipi di ergastolo? Quante sono al corrente che, al 22 settembre 2014, dietro le sbarre si contavano 1.576 ergastolani dei quali ben 1.162 ostativi?

Parlo di ergastoli al plurale perché, accanto a quello comune contemplato nell’art. 22 del codice penale, presentano un proprio regime autonomo ed una propria ratio l’ergastolo con isolamento diurno (art. 72 c.p.) e l’ergastolo ostativo (per i reati previsti all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario). Di ergastolo nascosto si deve poi parlare per l’internamento dei rei folli negli ospedali psichiatrici giudiziari che, di rinnovo in rinnovo, spesso si traduce in una detenzione senza fine. Degli attuali 1576 ergastolani, molti sono reclusi da oltre 26 anni, che pure è il termine raggiunto il quale è possibile accedere alla liberazione condizionale, anche se si sta scontando una pena a vita. Altri addirittura sono in carcere da più di 30 anni, che è la durata massima per le pene detentive. Quanto agli ergastolani ostativi (e sono almeno 681), sono condannati a morire murati vivi, perché per essi – salvo non mettano qualcuno al loro posto, collaborando proficuamente con la giustizia – le porte del carcere non si apriranno mai. Mi (e vi) domando: dobbiamo forse attenderne la morte in carcere, per affermare che queste persone stanno scontando una pena senza fine?

L’ergastolo, però, è già stato sottoposto a giudizio, sia costituzionale, mi riferisco alla sentenza n. 264 del 1974, che popolare con referendum radicale del 1981. Tutte e due le vote ne è uscito confermato…

Quanto a quel voto popolare contrario all’abrogazione dell’ergastolo, come per ogni altro referendum la vittoria del no non produce alcun vincolo giuridico, perché solo la vittoria del sì – con conseguente cancellazione della legge – è in grado di innovare l’ordinamento. Semmai, il fatto che la Corte costituzionale abbia allora dichiarato ammissibile il quesito, ci dice che l’ergastolo non è una pena costituzionalmente necessaria: le leggi il cui contenuto è imposto dalla Costituzione, infatti, non possono essere sottoposte a referendum abrogativo. Da ultimo, vorrei ricordare che anche la sovranità popolare si esercita “nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1, 2° comma) e se l’ergastolo è una pena illegittima, non basta a metterlo in sicurezza un voto referendario.

Ma la Corte costituzionale, ricordavamo, ha escluso che il “fine pena mai” violi la nostra Carta fondamentale…

Quella sentenza di rigetto, che risolveva un problema gigantesco con una motivazione di sole tremila battute, giuridicamente, non preclude la riproposizione della questione di legittimità dell’ergastolo. Da allora, infatti, il quadro costituzionale è mutato: pensi, ad esempio, all’introduzione in Costituzione nel 2007 del divieto incondizionato della pena di morte (art. 27, 4° comma), che molto ci dice sull’illegittimità di pene irrimediabili e che eleva a paradigma la finalità risocializzatrice cui tutte le pene “devono tendere”, come enuncia l’art. 27, 3° comma. La stessa giurisprudenza costituzionale, nel tempo, ha valorizzato in massimo grado questo vincolo di scopo, che non può mai essere sacrificato integralmente ad altre diverse finalità, arrivando anche, con la sentenza n. 161/1997, a dichiarare illegittimo l’ergastolo per i minori. Infine, quella sentenza di quarant’anni fa diceva cose che, oggi, andrebbero rilette con maggiore attenzione di quanto finora è stato fatto.

Ci spiega?

La ratio decidendi di quella decisione è che l’ergastolo non viola la Costituzione perché non è più pena perpetua, potendo il condannato a vita beneficiare della liberazione condizionale, istituto che estingue la pena restituendo il reo alla libertà. Con tutto il rispetto, si tratta di un sofisma. Equivale a dire che l’ergastolo esiste in quanto tende a non esistere. Rovesciato, quell’argomento dimostra che una reclusione a vita è certamente incostituzionale: dunque, tutti i condannati che per le ragioni più varie hanno scontato l’ergastolo fino a morirne, sono stati sottoposti a una pena che la Costituzione respinge. È accaduto. Accade anche oggi. Continuerà ad accadere, finché sopravvivrà la previsione legislativa di una pena perpetua.

Perché, allora, in tutti questi anni, l’ergastolo non è mai stato cancellato dal codice penale?

Perché le pene, la loro tipologia, la loro durata, rappresentano un formidabile “medium comunicativo”, come dice Giovanni Fiandaca, manipolabile ad arte e catalizzatore di ansie sociali, È un serbatoio cui la politica attinge a piene mani per rispondere simbolicamente alla paura percepita dal corpo sociale. Ma dal quale si tiene alla larga, quando si tratta di restituire al diritto penale cornici edittali più ragionevoli di quelle attuali, o se si tratta di mettere in discussione un sistema penale tolemaicamente costruito attorno al paradigma della pena detentiva. Difficile, in questo contesto, che l’ergastolo, cioè la massima tra le pene, possa essere cancellato da un voto, parlamentare o referendario, entrambi suggestionabili ad arte.

Infatti lei ha indicato come strada alternativa l’incidente di costituzionalità davanti alla Consulta. E a questo scopo ha elaborato un atto di promovimento (pubblicato nella rivista Diritto Penale Contemporaneo e che è anche in appendice al volume Volti e maschere della pena curato con Franco Corleone). Perché questa strada dovrebbe riuscire dove hanno fallito legge e referendum?

Prevedere come i giudici costituzionali risponderebbero a rinnovati dubbi di legittimità sull’ergastolo va oltre le mie capacità. Tuttavia, diversamente da un voto politico, so che il loro giudizio andrà argomentato secondo coerenza logica e giuridica, sarà guidato da un principio di legalità costituzionale che ha una sua logica stringente non inquinabile da ragioni di opportunità. Riducendo l’essenziale all’essenziale: i giudici delle leggi rispondono alla Costituzione, non al consenso popolare. Compito del giudice che impugna la legge è argomentare persuasivamente perché il carcere a vita, cioè a morte, si collochi fuori dall’orizzonte costituzionale delle pene. In ciò la dottrina giuridica può dare il suo contributo. Dopo di che, vale la massima “fai ciò che devi, accada quel che può”.

Può sembrare un atto di sfiducia nella logica democratica, fatta di partiti, confronto parlamentare, leggi approvate a maggioranza…

Capisco l’obiezione ma la respingo. Nasce dall’ubriacatura di questi ultimi vent’anni a favore di una mera democrazia d’investitura, quasi che gli strumenti della sovranità popolare si risolvano esclusivamente nel voto periodico, inteso come delega a una forza politica, a sua volta riunita attorno al capo di turno che tutto prevede e a tutto provvede. La democrazia liberale, disegnata nella nostra Costituzione, è molto più ricca e articolata. Prevede la rappresentanza politica, ma anche la seconda scheda referendaria, il pluralismo associativo, l’esercizio delle libertà civili, la rivendicazione dei propri diritti per via giurisdizionale. La sovranità popolare, in altri termini, si esercita continuamente attraverso tutti questi canali di partecipazione. Tra essi c’è anche la via della questione di costituzionalità, laddove ne ricorrano le condizioni di ammissibilità previste dalla legge.

La via giurisdizionale come forma complementare di partecipazione politica, dunque?

In un certo senso è così. Per la condizione carceraria, ad esempio, il processo di riforme introdotte nell’ultimo anno da Governo e Parlamento è stato messo in moto da importanti decisioni giurisdizionali sui diritti dei detenuti, pronunciate dalla Corte di Strasburgo e dalla Corte costituzionale, sollecitate opportunamente da singoli detenuti o da giudici chiamati, altrimenti, ad applicare norme illegittime. Diversamente, tutto sarebbe rimasto come prima. Spero accada, e presto, anche per l’ergastolo.

Più in generale, comunque il diritto esige sanzioni per condotte penalmente illecite, pene detentive, anche dure…

Premesso che la pena è un male necessario, senza il quale sarebbe a rischio l’esistenza stessa dell’ordinamento e, con esso, le condizioni minime necessarie a una convivenza pacifica, va fatta salva una precisazione, in verità decisiva. La nostra Costituzione ammette la forza di cui lo Stato ha il monopolio ma nega la violenza. E lo fa proprio con riferimento alle situazioni in cui il soggetto è nelle mani dell’apparato statale: se è costretto a una qualunque restrizione di libertà (art. 13, 4° comma), durante l’esecuzione della pena (art. 27, 3° comma), quando è sottoposta a un trattamento sanitario obbligatorio (art. 32, 2° comma). I tanti obblighi internazionali che pongono il divieto di trattamenti crudeli, inumani, degradanti, e ai quali l’Italia è egualmente vincolata ora anche per obbligo costituzionale (mi riferisco all’art. 117, 1° comma), chiudono questo cerchio normativo. Ecco il punto: quando la pena minacciata dal legislatore, irrogata dal giudice, eseguita dalla polizia penitenziaria sotto il controllo della magistratura di sorveglianza, travalica il confine che separa la forza dalla violenza, non è più una pena legale.

E questo è proprio quello che accade nelle nostre carceri sovraffollate, come ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo, condannando l’Italia per il divieto di tortura sancito dall’art. 3 della Cedu…

Esattamente. Anche qui urge una precisazione, per me decisiva. Affrontare il problema “strutturale e sistemico”, per dirla con i giudici di Strasburgo, di galere colme fino all’inverosimile, non significa fare fronte a un problema umanitario, né essere chiamati a un sussulto di civiltà o a un obbligo morale. Quello che abbiamo davanti, e di cui il sovraffollamento è solo il lato più visibile, è innanzitutto un problema di legalità. La sua soluzione, dunque, non è una scelta dettata da buonismo o affidata a valutazioni di opportunità politica. È, semmai, un vero è proprio dovere costituzionale cui non possiamo sottrarci. Pena, altrimenti, un micidiale cortocircuito ordinamentale.

Quale?

Quello per cui, mentre condanna un soggetto ad espiare una pena per aver violato la legge, è lo Stato che contestualmente viola la propria Costituzione, la Cedu, l’ordinamento penitenziario e finanche il suo regolamento di esecuzione. È un cortocircuito micidiale perché, a riconoscere che lo Stato non rispetta la propria legalità sono i suoi stessi organi apicali: sul problema del sovraffollamento carcerario, per esempio, i richiami più severi sono venuti dal Presidente della Repubblica, dalla Corte costituzionale, dal Primo Presidente della Corte di cassazione. La stessa Presidenza del Consiglio, con propri decreti, ha proclamato nel 2010 e reiterato negli anni successivi lo stato di emergenza in ragione dell’attuale condizione carceraria. Sono state addirittura emanate apposite circolari ministeriali che riconoscono il problema dei troppi suicidi dietro le sbarre, la violazione della capienza regolamentare nelle carceri, il problema di una carente assistenza sanitaria per i detenuti. Se questo è il quadro, corriamo il serio pericolo che il reo diventi vittima, perdendo così la consapevolezza della propria condotta antigiuridica, percepita come minuscola davanti a una illegalità statale tanto certa quanto vasta.

Lei fa molti incontri in carcere e in carcere, è entrato più volte. Che percezioni ne ha ricavato?

Entrare in un carcere, anche se occasionalmente, è un’esperienza sconvolgente. Varchi uno, due, tre, più cancelli che, ad ogni passaggio, si richiudono rumorosamente alle tue spalle. Gli odori, i suoni, i colori, gli spazi, i visi che incroci – del detenuto, dell’agente penitenziario, dei familiari di detenuti, il più delle volte mogli, madri, sorelle fuori dal carcere in attesa di entrare per i colloqui – ti si imprimono nel ricordo. È come se tutti i tuoi sensi acuissero la loro capacità di percezione. Fondamentalmente, è un’esperienza che ti mette in contatto con il dolore più sordo, quello che sembra non avere né rimedio né speranza. Per quanto mi sia sforzato, non riesco minimamente a realizzare che cosa siano, quotidianamente, il tempo dietro le sbarre, l’assenza di spazio, la convivenza coatta tra detenuti, l’amputazione della sessualità come libera scelta.

Dove trovare le parole per far capire a chi non ha visto, per raccontare…

Nella letteratura spesso riesco a trovare le parole capaci di raccontare del carcere ciò che altrimenti non saprei personalmente narrare. Adriano Sofri, su tutti, ha questa straordinaria dote. Penso ai suoi libri più carcerari: Le prigioni degli altri (Sellerio), Altri Hotel (Mondadori, 2002), alcune pagine di Piccola posta (Sellerio, 1999) e quelle sull’ergastolo in Reagì Mauro Rostagno sorridendo (Sellerio, 2014). Tra le mie letture più recenti, ho trovato coinvolgenti alcuni romanzi che ruotano attorno all’esperienza del carcere, guardata con occhi diversi: lo sguardo del detenuto che è entrato e uscito di galera (Sandro Bonvissuto, Dentro, Einaudi, 2012), lo sguardo dei figli di madri detenute che hanno vissuto i loro primi tre anni di vita dietro le sbarre (Rosella Postorino, Il corpo docile, Einaudi, 2013), lo sguardo dei genitori di figli detenuti in regimi di massima sicurezza (Francesca Melandri, Più alto del mare, Bur, 2012). Per capire l’ergastolo, poi, i libri di Nicola Valentino, Carmelo Musumeci e – senza alcuna piaggeria – le testimonianze da lei raccolte Urla a bassa voce (Stampa Alternativa, 2012) sono stati per me letture fondamentali.

La scrittura e la lettura, in effetti, possono essere chiavi d’accesso a una realtà, come quella del carcere, altrimenti sconosciuta…

È vero, ma c’è anche dell’altro. Le parole “libro” e “libertà” derivano dalla medesima radice: liber. Ci aveva mai fatto caso? Io la trovo una coincidenza fantastica. Non è una bizzarria, allora, se in altri paesi per ogni libro letto in detenzione è prevista una riduzione della pena da scontare. Del resto, non si è sempre detto che la lettura è una forma di evasione?

Una Città, 15 ottobre 2014