Coronavirus, il Pg della Cassazione Salvi: “Rischio epidemia, alleggerire le carceri”


CORTE DI APPELLO, INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIOCoronavirus, il Pg della Cassazione Salvi invia un messaggio alle Corti d’Appello di tutta Italia, chiedendo di privilegiare arresti domiciliari e braccialetto elettronico, salvo i casi di assoluta gravità. Il giurista Gian Luigi Gatta: “È giusto perché adesso la priorità è la salute pubblica”. Mentre la politica si divide, la magistratura si organizza da sé, sfruttando le leggi già in vigore, per affrontare e tentare di risolvere l’emergenza carceraria nei giorni durissimi del Coronavirus e dopo le rivolte di marzo. Il primo aprile, il Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Salvi, dopo una riunione via web con i Pg di tutta Italia, ha sottoscritto un documento di 19 pagine che, sfruttando le leggi attualmente in vigore, tenta di affrontare il surplus di detenuti chiusi nelle patrie galere che, per oggettiva mancanza di spazio, non possono rispettare le regole anti Covid-19 ovviamente obbligatorie per tutti gli italiani.

La parola chiave con cui si chiude il testo è “detenzione domiciliare semplice”, indicata come la strada maestra da seguire. Non siamo di fronte ad alcuna forzatura, ma semplicemente allo sforzo di interpretare e applicare le norme già esistenti”.

Come scrive Gian Luigi Gatta, docente di diritto penale all’Università di Milano e direttore di “Sistema penale”, rivista online sulla giustizia che pubblica la circolare di Salvi e la commenta, “l’idea di fondo del documento è che l’esigenza di tutelare la salute pubblica, prevenendo la diffusione del contagio nelle sovraffollate carceri italiane, è in questo momento una priorità, che suggerisce ai pubblici ministeri l’opportunità di valutare le diverse opzioni che la legislazione vigente mette a disposizione per ridurre la popolazione penitenziaria”.

E infatti il punto di partenza è proprio questo: “Nel sistema processuale italiano il carcere è l’extrema ratio”. Di conseguenza, mai come in queste ore, “occorre incentivare le misure alternative idonee ad alleggerire la pressione delle presenze non necessarie in carcere” e questo “limitatamente ai delitti che fuoriescono dal perimetro presuntivo di pericolosità e con l’ulteriore necessaria eccezione legata ai reati da codice rosso”.

Derivano da qui due input per i pubblici ministeri: “Arginare la richiesta e l’applicazione di misure cautelari e procrastinare l’esecuzione delle misure emesse dal gip”. Poi, valutare il fermo per l’indiziato di delitto e l’arresto in flagranza, privilegiando i domiciliari. Ancora accelerare la convalida dell’arresto e il processo per direttissima. Visto che i delitti sono in calo addirittura del 75% probabilmente per l’obbligo di stare in casa, il consiglio del Pg Salvi ai suoi colleghi è quello di optare per gli arresti domiciliari anche con braccialetto. “Ad eccezione dei casi di rilevante gravità e di assoluta incompatibilità, si dovrebbe privilegiare, rispetto alla custodia cautelare in carcere, la scelta degli arresti domiciliari, ove necessario anche con l’uso del braccialetto elettronico, se disponibile”.

E se i braccialetti, com’è evidente dall’affannosa ricerca che in queste ore ne sta facendo il Guardasigilli Alfonso Bonafede, non ci sono? “In caso di indisponibilità – consiglia Salvi – la giurisprudenza di legittimità in materia impone comunque un bilanciamento delle diverse esigenze, tra cui quella della tutela della salute individuale e collettiva è particolarmente significativa”.

Il Pg della Cassazione consiglia, in quel caso, di “applicare la detenzione domiciliare semplice: il detenuto dovrà essere controllato con i mezzi ordinari fino a quando non dovesse essere possibile applicare il dispositivo di controllo, a meno che non sussistano gravi motivi ostativi alla concessione della misura”. A ciò si aggiunge il suggerimento di sospendere o rinviare le misure cautelari già emesse e di rinviare quelle per le pene sotto i 4 anni. Per chiudere ancora con le parole di Gatta si tratta di “un documento di particolare interesse non solo per la prassi, ma anche per il valore che assume, in questo particolare momento che sta attraversando il Paese e, con esso, la giustizia penale”.

Secondo il giurista il testo è “la sintesi di riflessioni maturate da chi è chiamato, istituzionalmente, a prendere decisioni che incidono non solo sulla libertà personale e sui diritti fondamentali dei detenuti, ma anche – nel contesto di un’epidemia in corso – sulla salute pubblica di tutti i cittadini, compresi gli operatori penitenziari e di pubblica sicurezza, che si trovano a contatto con le persone private della libertà personale”.

Gatta considera “pregevole, a fronte dell’evidente insufficienza degli strumenti legislativi di nuovo conio, lo sforzo di cercare soluzioni nel diritto vigente, anche attraverso l’attività interpretativa e la proposta di adattare, allo scopo, soluzioni giurisprudenziali già sperimentate”.

Liana Milella

La Repubblica, 4 aprile 2020

Coronavirus, l’ex Pm Edmondo Bruti Liberati: “Se il carcere va fuori controllo, è a rischio la sicurezza pubblica”


Edmondo Bruti Liberati“Bisogna scarcerare subito”. Per l’ex Procuratore di Milano di fronte all’emergenza coronavirus “ridurre il sovraffollamento è urgente, prima che la situazione possa diventare ingestibile”.

“Si sente dire che nulla è e sarà più come prima dopo il Covid-19. È possibile pensare forse che il pianeta carcere sia in un altro sistema solare?”. È questo il fil rouge che segue l’ex Procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nella sua riflessione con Repubblica sulle conseguenze del coronavirus sulla giustizia e sul carcere. Se nulla è e sarà più come prima, anche l’approccio alle scarcerazioni dovrà essere differente, perché “se il carcere va fuori controllo, sarà di conseguenza a rischio la sicurezza pubblica”. Quindi “è nell’interesse generale della collettività, se si vuole, delle persone “per bene”, che il carcere sia gestibile, facendo uscire un numero significativo di detenuti, con esclusione delle categorie di pericolosi”. I braccialetti? “Adesso lasciamoli perché comunque è fuori del mondo la sicurezza matematica che nessuno di coloro che usciranno dal carcere commetta nuovi reati”.

Carcere, giustizia, coronavirus. Un’emergenza quotidiana come questa diventa inevitabilmente dramma. Con 58mila detenuti coinvolti e migliaia di cittadini alle prese con una giustizia online. Che impressione le fa tutto questo?

“Nell’Ottocento i grandi carceri venivano costruiti in città come Regina Coeli a Roma e San Vittore a Milano come ammonimento della sorte che spetta a chi viola la legge. Oggi queste strutture, ormai al centro delle città, ci ammoniscono che non si tratta di un altro mondo, del tutto separato. Da qualche decennio in carcere sono andate anche persone diverse dalla malavita tradizionale: tossicodipendenti provenienti da famiglie che hanno vissuto il dramma di non essere riusciti a sottrarre i loro figli da quella spirale e anche, per reati economici o di corruzione, persone di ambienti “per bene”. Questa, molto parziale, “livella” ha costretto molte persone “per bene” che sarebbero state chiuse nell’ideologia “legge e ordine” e del “buttare la chiave delle celle” a fare esperienza di quanto provvidenziali siano le misure alternative al carcere”.

Lei la vede così? Io scorgo soprattutto interpretazioni e sensibilità diverse a seconda delle appartenenze ideologiche…

“Le mura di cinta del carcere non tracciano la linea tra i buoni e i cattivi. In carcere sono legittimamente detenute persone condannate per aver commesso un reato o in custodia cautelare, quando il sistema di giustizia ha ritenuto questa misura indispensabile. Per tutta la mia carriera, come giudice e come pubblico ministero, mi sono occupato di penale e per diversi anni sono stato magistrato di sorveglianza. In carcere ho conosciuto sia molti violenti e sopraffattori, sia persone, anche tra condannati per reati non lievi, che non potevo liquidare nella categoria dei “cattivi””.

Giusto il primo aprile, anche il Pg della Cassazione Giovanni Salvi ha ribadito che “il carcere è sempre l’estrema ratio”, quindi se lo è in condizioni normali, adesso più che mai è necessario evitarlo…

“Il Procuratore Generale, prima di indicare possibili interpretazioni, ha posto in modo netto la seguente questione: “L’emergenza coronavirus costituisce un elemento valutativo nell’applicazione di tutti gli istituti normativi vigenti”. Covid-19 ha mutato il nostro modo di vita, ha determinato sofferenze e lutti, conseguenze drammatiche sull’occupazione e sull’economia. Nulla è e sarà più come prima, si dice. È possibile pensare forse che il pianeta carcere sia in un altro sistema solare?”

Giovanna Di Rosa, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, ha inviato una lettera ufficiale agli altri capi degli uffici per chiedere uno stop alle carcerazioni. Misura giusta, inevitabile, oppure eccessiva?

“I magistrati di sorveglianza sono impegnati, in condizioni difficilissime, nell’applicazione degli istituti che consentono misure alternative al carcere, ma sulla base della loro esperienza ne hanno indicato l’assoluta insufficienza a far fronte a una situazione eccezionale”.

Anche lei è stato Magistrato di Sorveglianza a Milano negli anni Settanta e ha vissuto le rivolte di quel periodo…

“Il carcere è relativamente isolato rispetto all’esterno, ma non è impermeabile. Oltre all’ingresso dei nuovi arrestati, vi è una serie di contatti con l’esterno che passano per gli agenti penitenziari e anche per tutte le persone che contribuiscono alla gestione della struttura. In caso di epidemia la situazione rischia di andare fuori controllo; sarebbe difficile garantire protezioni adeguate agli stessi agenti penitenziari. Tra i detenuti il timore per l’infezione, eventualmente anche sollecitato e sfruttato da quei, pochi ma di peso, detenuti pericolosi, potrebbe rendere la situazione ingestibile. Le prime vittime delle rivolte in carcere sono i detenuti non pericolosi (la grande maggioranza), assoggettati alle sopraffazioni dei, pochi, pericolosi, quando il controllo non è più assicurato dalla polizia penitenziaria. Le ricadute di una situazione fuori controllo sull’ordine e la sicurezza pubblica sarebbero disastrose”.

Ci spiega con semplicità che si può fare per alleggerire (e non “svuotare” termine orribile) le carceri?

“Ridurre il sovraffollamento del carcere è oggi necessario e urgente. Senza aspettare situazioni che potrebbe divenire ingestibili. Tutti gli argomenti “umanitari” sono già stati messi in campo. Ma a chi fosse insensibile propongo un messaggio in termini utilitaristici. È nell’interesse generale della collettività, se si vuole, delle persone “per bene”, che il carcere sia gestibile, facendo uscire un numero significativo di detenuti, con esclusione delle categorie di pericolosi. Nell’interesse dell’ordine e della sicurezza pubblica. Nessuno, ovviamente, può garantire che per i detenuti che dovessero uscire vi sia “recidiva zero”. Ma la situazione di quasi-coprifuoco che è in atto di fatto riduce di molto la concreta possibilità di mettere in atto quei reati predatori che più possono preoccupare”.

Lei ritiene che un’ipotesi di indulto o amnistia, come sollecitano i Radicali e le Camere penali, sia praticabile?

“Vi è un ruolo oggi per gli intellettuali: personaggi pubblici autorevoli, non solo giuristi, di diverse tendenze, compresi sostenitori di “legge e ordine”, di “tough on crime”, ma consapevoli dell’eccezionalità della situazione si impegnino a far passare un messaggio di razionalità, che possa far breccia nell’opinione pubblica e indurre tutte le forze politiche, anche della attuale opposizione, a un’assunzione di responsabilità”.

Il suo è un sì a misure di clemenza?

“No, affatto. Oggi un indulto è impraticabile, ma vi sono misure che possono portare a una limitata, ma significativa e immediata diminuzione dei detenuti. Le disposizioni del decreto legge n.18 del 17 marzo 2020 sono del tutto insufficienti. La prossima sede parlamentare della conversione del decreto legge apre due astratte possibilità; quella, perniciosa, di emendamenti che restringano le pur limitate disposizioni finora introdotte e quella, virtuosa, di emendamenti che coraggiosamente amplino l’ambito di operatività delle misure già introdotte e vi aggiungano altre misure deflattive”.

A cosa sta pensando?

“Le proposte tecniche non mancano, dall’ampliamento della detenzione domiciliare, a quello delle riduzioni di pena per la cosiddetta “liberazione anticipata per buona condotta”, alla sospensione degli ordini di esecuzione per i reati non gravi. Si veda, da ultimo, il documento del 23 marzo dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale. Per i semiliberi si ipotizza che non rientrino in carcere la sera e così dovrà essere per un periodo non breve. Ma altrettanto si deve fare per gli ammessi al “lavoro all’esterno”, una condizione giuridica diversa, ma nella pratica assimilabile alla semilibertà. Aggiungo un aspetto che può apparire minore, ma non lo è”.

E sarebbe?

“L’inevitabile riduzione dei colloqui ha creato situazioni di tensione e molti detenuti comunque possono avere contatti solo telefonici con le loro famiglie. Sia questa l’occasione di un cambio di filosofia. Il 90% delle persone presenti in carcere non fa parte della criminalità organizzata: smettiamo di considerare le telefonate un “premio” da centellinare. Nei limiti delle possibilità pratiche consentiamo – ripeto, ai detenuti non di criminalità organizzata – la massima possibilità di telefonate, che possono comunque essere soggette a controllo. Consentire di mantenere i contatti con le famiglie non è solo, oggi, un gesto di umanità, ma è anche un investimento sulla futura risocializzazione del detenuto”.

I braccialetti elettronici. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede li sta cercando disperatamente. Teme l’effetto boomerang di possibili fughe. Ma questi braccialetti servono o no? Soprattutto, adesso, non rallentano le scarcerazioni?

“Non riusciamo a produrre in numero sufficiente mascherine, camici e apparecchi di respirazione. Pensa qualcuno, il Ministro o altri, che oggi vi possa essere una bacchetta magica che faccia comparire quei braccialetti che ieri non c’erano? Ho già detto che è fuori del mondo la sicurezza matematica che nessuno di coloro che usciranno dal carcere commetta nuovi reati. Ma indiscusse statistiche di lungo periodo hanno dimostrato che la percentuale di recidiva è enormemente più bassa per coloro che sono stati ammessi a misure alternative alla detenzione. Lasciamo realisticamente perdere ora i braccialetti e pensiamoci per il futuro quando potranno contribuire a ridurre gli ingressi in carcere di persone non pericolose. Oggi, con una Italia bloccata, le stesse possibilità di fuga sono ridotte. Piuttosto potrebbe essere necessario pensare a strutture essenziali dove far alloggiare e quindi poter controllare coloro che un domicilio non l’hanno”.

Un’ultima riflessione sulla giustizia e sui processi civili e penali via web: come li giudica? C’è una possibile lesione del diritto alla difesa? Manca il faccia a faccia tra il giudice che condanna guardando negli occhi il suo prossimo condannato? È una via costituzionalmente lecita? O stiamo infrangendo i pilastri del diritto creando un precedente pericoloso?

“L’emergenza è stata l’occasione che ha “costretto” molte sedi giudiziarie a recuperare il gap informatico allineandosi alle esperienze degli uffici più avanzati. Molte di queste prassi di emergenza, finora sottoutilizzate per pigrizia di alcuni e mancanza di iniziative del Ministero della Giustizia, dovranno andare a regime. Il modulo del lavoro dal domicilio, soprattutto per il personale amministrativo, consentirà di affrontare anche in futuro situazioni particolari con vantaggio anche per l’efficienza del sistema giudiziario”

Davvero il suo è un giudizio totalmente positivo?

“No, perché alla fine la macchina della giustizia si regge anche sul contatto quotidiano faccia a faccia (magari a distanza di un metro), sul parlarsi di persona tra tutti coloro che operano nei palazzi di giustizia: magistrati, avvocati, amministrativi, forze di polizia. Questo mi ha insegnato un’esperienza di quasi mezzo secolo: una parola di sostegno a un collega in difficoltà, uno scambio franco con un avvocato, un incoraggiamento a un amministrativo sopraffatto dai numeri, un confronto con la polizia giudiziaria, un atteggiamento reciprocamente rispettoso con l’imputato (e per me il saluto, lo sguardo di conforto di chi mi incontrava nel palazzo di giustizia in un momento tragico della mia vita privata). Diverso il discorso per il processo: anche qui molto si può e si dovrà fare in via telematica; in questa situazione di emergenza, con strumenti di presenza a distanza, si sono potute fare le udienze per direttissima ed evitare il collasso del sistema. Ma poi giudici, pubblici ministeri, avvocati e imputati nei momenti salienti del processo dovranno vedersi in faccia, sempre a distanza di un metro”.

Liana Milella

La Repubblica, 5 aprile 2020

Quintieri (Radicali): Battisti ha diritto ad avere in cella la foto del figlio. Non esiste tale divieto


Leggo sulla stragrande maggior parte degli organi di informazione, locale e nazionale, che al detenuto Cesare Battisti, ergastolano sottoposto anche alla pena accessoria dell’isolamento diurno per 6 mesi, ristretto nella Casa di Reclusione di Oristano “Salvatore Soro”, sarebbe stato vietato dall’Amministrazione Penitenziaria di tenere con sé la foto del figlio Raul.

Tale notizia, insieme a tante altre diffuse in questi giorni, ha dell’incredibile poiché non esiste nessuna norma legislativa o regolamentare che impedisca al detenuto Battisti ed a qualsivoglia detenuto, anche in regime detentivo speciale ex Art. 41 bis O.P., di tenere con sé, nella propria camera di pernottamento, delle foto riproducenti luoghi e/o familiari, parenti ed amici. Pertanto, qualora dovesse corrispondere al vero un simile divieto, adottato dall’Amministrazione Penitenziaria, centrale o periferica, sarebbe illegittimo ed annullabile dal Magistrato di Sorveglianza di Cagliari, all’esito di reclamo giurisdizionale ex Art. 35 bis O.P.

Invero, il detenuto Battisti, alla stregua degli altri detenuti, ha il diritto di tenere all’interno della propria camera, la foto del figlio (e qualunque altra foto voglia), essendo espressamente consentito dal Regolamento di Esecuzione Penitenziaria (D.P.R. n. 230/2000). Infatti, a norma dell’Art. 10 comma 3, “E’ ammesso il possesso di oggetti di particolare valore morale o affettivo qualora non abbiano un consistente valore economico e non siano incompatibili con l’ordinato svolgimento della vita nell’Istituto.“.

Inoltre, la quasi totalità dei Regolamenti interni degli Istituti Penitenziari (quelli che ne sono dotati), ex Artt. 16 O.P. e 36 Reg. Es. O.P., prevedono che “Nelle camere di pernottamento, nello spazio di propria pertinenza, è consentita l’affissione di immagini, foto, scritti e disegni, purché non siano offensivi della morale, non siano pregiudizievoli per l’ordine, la disciplina o la sicurezza, non impediscano al personale di custodia di effettuare i controlli e siano realizzate in modo tale da non arrecare danno alcuno ai beni mobili ed immobili dell’Amministrazione.”

Solo per i detenuti sottoposti al regime detentivo speciale ex Art. 41 bis O.P. esiste qualche “restrizione” (peraltro assurda, in parte già disapplicata a seguito di reclami giurisdizionali) poiché “E’ consentito tenere nella propria camera immagini e simboli delle proprie confessioni religiose, nonché fotografie in numero non superiore a 30 e di dimensione non superiore a 20×30. Per ragioni connesse alla sicurezza interna, le fotografie dovranno essere appoggiate sul mobilio con modalità tali da non recare danno allo stesso. Fatto salvo che per una singola immagine o fotografia di un familiare, è vietata l’affissione alle pareti e su qualsivoglia superficie di immagini, fogli, fotografie e quant’altro possa essere ostativo allo svolgimento dei prescritti e necessari controlli da parte del personale penitenziario ovvero possa recare danno ai beni dell’Amministrazione. Ogni violazione sarà sanzionata in via disciplinare.”

Negli anni passati, la Corte Suprema di Cassazione, chiamata a pronunciarsi in merito, a seguito di un reclamo proposto da un detenuto sottoposto al regime detentivo speciale ex Art. 41 bis nella Casa Circondariale di Viterbo, al quale la Direzione dell’Istituto aveva impedito di tenere,nella propria camera, una fotografia della madre deceduta, sol perché eccedente (18×15) le misure massime (10×15) stabilite dal Regolamento interno, ha stabilito che il “diritto soggettivo della persona reclusa, individuabile in quello alla cura delle relazioni affettive, da ritenersi esercitabile anche attraverso la conservazione di immagini riproducenti le persone care, specie se decedute. In simili casi, infatti, è da ritenersi che il diritto in questione comprenda quello alla conservazione dell’immagine che riproduce la persona defunta, sorta di diritto al “mantenimento della memoria” attraverso la visione dell’immagine medesima, aspetto che rientra nel mantenimento della dignità della persona. Non vi è dubbio, infatti, circa il riconoscimento e la tutela – anche nell’ambito delle leggi di Ordinamento Penitenziario, di simile posizione giuridica (diritto alla affettività nei limiti di compatibilità con la condizione), come proiezione essenziale dei diritti della persona, in quanto tale fruibile da parte del detenuto.” (Cass. Pen. Sez. I, n. 54117/2017 del 14/06/2017, dep. il 30/11/2017, Ric. Costa).

Ne consegue che, il detenuto Cesare Battisti, ha il pieno diritto – eventualmente reclamabile innanzi al Magistrato di Sorveglianza di Cagliari avente giurisdizione sull’Istituto Penitenziario di Oristano, di aver restituita la foto del figlio e di tenerla con sé, non essendoci nessuna disposizione legislativa o regolamentare, che lo proibisca. Eventuali limitazioni al godimento di tale diritto, imposte dall’Amministrazione Penitenziaria, possono essere disapplicate dal Magistrato di Sorveglianza perché in contrasto con quanto prescrive la Legge Penitenziaria e la Costituzione.

Carceri, Cassazione: Si alla circolazione dei provvedimenti giudiziari tra detenuti al 41 bis


Non è legittimo il trattenimento della corrispondenza contenente copia di provvedimenti giurisdizionali, sia di merito che di legittimità, anche se privi di attestazione che ne certifichi la provenienza, disposto dalla Magistratura di Sorveglianza, nei confronti di un detenuto sottoposto al regime detentivo speciale previsto dall’Art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, anche se riferiti ad altri detenuti, parimenti sottoposti a trattamento differenziato, in assenza di accertate manipolazioni del testo.

Lo ha stabilito la Corte Suprema di Cassazione, Sezione Prima Penale, Adriano Iasillo Presidente, Raffaello Magi Relatore, con la Sentenza n. 500/2019 del 23/10/2018, depositata il 08/01/2019, annullando l’Ordinanza emessa il 16/06/2017 dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, in accoglimento del ricorso proposto dal detenuto Salvatore Madonia, attualmente sottoposto al regime speciale 41 bis O.P. presso la Casa Circondariale di Viterbo.

Oggetto del Procedimento era il reclamo proposto al Tribunale di Sorveglianza di Roma, ai sensi dell’Art. 18 ter O.P., dal detenuto Salvatore Madonia, relativo al trattenimento di una missiva inviata dallo stesso al fratello Antonio Madonia, ristretto in altro Istituto Penitenziario, sempre in regime di 41 bis O.P., disposto dal Magistrato di Sorveglianza di Viterbo. Alla missiva era allegata una copia di un provvedimento giudiziario, in apparenza emesso dal Magistrato di Sorveglianza di Sassari e relativo alla doglianza di altro detenuto, accolta da quell’Autorità Giudiziaria.

Il Tribunale di Sorveglianza di Roma, respingeva il reclamo, condividendo il provvedimento di trattenimento, emesso dal Magistrato di Sorveglianza di Viterbo, posto che “il provvedimento giudiziario non reca alcuna attestazione che ne certifichi la provenienza e si ritiene che il soggetto non possa accedere a tutti i provvedimenti giudiziari di merito riferiti ad altri detenuti, salvo le decisioni di legittimità della Corte di Cassazione.”

Contro tale Ordinanza il detenuto proponeva ricorso in Cassazione, deducendo erronea applicazione della disciplina regolatrice (Art. 18 ter e 41 bis O.P.), evidenziando che il provvedimento giudiziario oggetto della missiva recava già il visto di censura in uscita dalla Casa Circondariale di Sassari, essendo pervenuto al Madonia nello stesso modo, tramite missiva di altro detenuto. Già da tale aspetto, emergeva la diversità di approccio al tema della trasmissibilità di decisioni giurisdizionali tra soggetti ristretti al regime differenziato di cui all’Art. 41 bis O.P., con evidente disparità di trattamento in ragione del luogo di detenzione. Inoltre, il ricorrente, evidenziava, che non vi sarebbe base legale per il divieto, richiamato dal Tribunale di Roma, di inoltro di un provvedimento giurisdizionale da un detenuto ad un altro, essendo anzi tale interesse meritevole di tutela per l’esercizio dei diritti e delle facoltà riconosciute ai soggetti sottoposti al trattamento differenziato, specie in riferimento a provvedimenti che affrontano temi di interesse generale. La limitazione della accessibilità alle sole decisioni di legittimità, sostenuta dal Tribunale, non appariva ragionevole né risultava prevista dalle disposizioni di legge.

Ebbene, i Giudici del Palazzaccio, gli hanno dato ragione, ritenendo il ricorso fondato, criticando in fatto e in diritto l’operato del Tribunale di Sorveglianza di Roma. Ed infatti, il fatto che il Madonia sia – pacificamente – in possesso del documento in questione, a lui pervenuto in modo analogo, con “nulla osta” alla consegna documentato dal visto di censura rappresenta, effettivamente, un indicatore di genuinità del documento in questione o comunque in assenza di manipolazioni del testo idonee determinare, secondo le vigenti disposizioni di Legge, il mancato inoltro della missiva. Dunque, se non vi è motivo concreto di dubitare non già della “provenienza” del documento, quanto della “assenza di manipolazioni” di un testo che apparentemente consiste nella copia di un provvedimento giurisdizionale, il Tribunale di Sorveglianza non potrebbe legittimamente disporre il trattenimento della missiva. Per il Giudice di legittimità ove si dubiti della conformità al testo rispetto a quello originale il Tribunale è tenuto : a) ad indicare in modo specifico i punti che destano sospetto; b) a realizzare le opportune verifiche istruttorie, essendo sempre possibile disporre l’acquisizione di copia ufficiale del provvedimento in questione a mezzo della cancelleria del Giudice che lo ha emesso. In tale punto, pertanto, la motivazione espressa nel provvedimento impugnato risulta generica e non assistita, in ogni caso, dalla necessaria completezza dell’istruttoria.

Infine, il Supremo Collegio, nel ricordare che il potere del Magistrato di Sorveglianza di disporre il trattenimento della corrispondenza indirizzata al detenuto sottoposto al regime speciale di cui all’Art. 41 bis O.P., è diretto ad evitare pericoli per l’ordine e la sicurezza pubblica, oltre che ad impedire contatti con l’esterno ritenuti pericolosi perché attinenti a finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, o che tendono a rinsaldare i vincoli di appartenenza alle organizzazioni mafiose, ha sostenuto che la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma non appariva rispondente, per come sinteticamente espresso, a tale aspetto finalistico, posto che si esclude la trasmissibilità tra soggetti sottoposti al trattamento differenziato di qualsivoglia provvedimento giurisdizionale di merito. Tale affermazione, non è esplicitata con riferimento ad una concreta previsione di Legge, a meno che non si voglia far discendere simile divieto dalla generale previsione – di cui all’Art. 41 bis c. 2 quater lett. a) – relativa alla necessità di impedire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza, qui attraverso la comunicazione di qualsiasi contenuto informativo.

Anche in tale ipotesi, tuttavia, il Tribunale non tiene conto dei particolari contenuti della missiva e del fatto che rispetto ad altre esigenze costituzionalmente protette, quali l’esercizio concreto dei diritti spettanti al soggetto privato della libertà personale (tra cui quello alla difesa e alla libertà di informazione), la circolazione di decisioni giurisdizionali – una volta accertata l’assenza di manipolazioni del testo – risulta senza dubbio una componente strumentale al concreto esercizio dei diritti medesimi, posto che l’interesse – alla conoscenza dei contenuti di un provvedimento giudiziario – sussiste sia per le decisioni di legittimità che per quelle di merito. Va pertanto affermato nuovamente che, in simili casi, la dimensione del controllo può investire esclusivamente la presenza o meno nel testo del provvedimento di elementi grafici che ne alterino il contenuto al fine di veicolare – in tal modo – messaggi ad altri detenuti, in tal modo eludendo le specifiche previsioni legislative in tema di regime trattamentale differenziato.

La Prima Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione, per tutte le suddette ragioni, in accoglimento del ricorso, ha disposto l’annullamento dell’Ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Sorveglianza di Roma per un nuovo esame.

Cass. Pen. Sez. I, n. 500/2019 del 23/10/2018, dep. il 08/01/2019 (clicca per leggere)

Sassari, il diritto allo studio deve essere garantito anche ai detenuti al regime 41 bis OP


Non c’è dubbio che la Magistratura di Sorveglianza di Sassari stia dando “filo da torcere” al Ministero della Giustizia ed al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per quanto concerne la tutela dei diritti dei detenuti sottoposti al regime detentivo speciale ex Art. 41 bis c. 2 O.P., ristretti negli Istituti Penitenziari situati nel territorio di competenza.

Nelle scorse settimane, infatti, la Prima Sezione Penale Corte Suprema di Cassazione, con le Sentenze nr. 40760/2018 e 40761/2018 del 13/09/2018 (Presidente Bonito, Relatore Minchella), su conforme richiesta della Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, ha respinto i ricorsi proposti dal Ministro della Giustizia, dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e della Casa Circondariale di Sassari, per il tramite dell’Avvocatura dello Stato, contro le Ordinanze emesse il 14/12/2017 dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari che confermavano i provvedimenti assunti dall’Ufficio di Sorveglianza di Sassari il 19/09/2017 che, in accoglimento dei reclami dei detenuti Francesco Schiavone e Francesco Pesce, aveva disapplicato i Decreti del Ministro della Giustizia – con i quali era stato loro applicato il regime detentivo speciale previsto dall’Art. 41 bis c. 2 dell’Ordinamento Penitenziario – nella misura in cui essi prevedevano una sola ora d’aria per i ristretti a quel regime, così statuendo che le ore d’aria dovessero essere due e dovessero essere separate dalla socialità.

Nei giorni scorsi, l’Ufficio di Sorveglianza di Sassari (Giudice Dott.ssa Luisa Diez), pronunciandosi su un reclamo giurisdizionale ex Art. 35 bis O.P. proposto da un detenuto, è tornato ad occuparsi delle prescrizioni trattamentali afferenti il c.d. “carcere duro”, anche a seguito dell’ultima Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 02/10/2017 emanata proprio con l’obiettivo dell’uniformazione ed omogeneità del trattamento negli Istituti Penitenziari ove sono ristretti i detenuti sottoposti al regime detentivo speciale 41 bis O.P.

Questa volta, il Magistrato di Sorveglianza, è stato chiamato a giudicare un ordine di servizio della Direzione della Casa Circondariale di Sassari che aveva concesso al detenuto reclamante di poter utilizzare il personal computer dell’Amministrazione solo per un’ora al giorno (prima dalle ore 16,00 alle 17,00 e poi dalle ore 12,00 alle 13,00), in alternativa alla saletta di socialità e con la precisazione che qualora il detenuto fruisca delle dure ore consecutive di “passeggio”, non potrà utilizzare il computer. Col reclamo è stata lamentata l’insufficienza di una sola ora in rapporto alle esigenze di studio (il detenuto è iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Sassari, nella quale sono previsti anche esami di informatica), e che le limitazioni imposte sviliscono la finalità igienico-sanitaria soddisfatta dalla permanenza all’aria aperta e la finalità ricreativa-culturale correlata all’utilizzo della sala socialità. Per tale ragione, chiedeva (tra l’altro) di poter utilizzare, per ragioni di studio, il personal computer per quattro ore giornaliere all’interno della propria cella, poiché non vi erano ostative ragioni di sicurezza.

Per il Magistrato di Sorveglianza di Sassari, “Il diritto allo studio è tutelato al più alto livello, a tutti, dall’art. 34 Cost. e viene ribadito specificamente per i detenuti dagli artt. 12, 15, 19 O.P. e dagli artt. 1, 16, 21, 41, 43, 44 e 59 reg. O.P. Come precisato dal menzionato Art. 1 Reg. O.P., l’offerta di interventi diretti a sostenere gli interessi culturali del detenuto fa parte del trattamento rieducativo. E’ ben noto, del resto, come l’istruzione, quindi l’accesso alla cultura rappresenti uno strumento essenziale di crescita individuale e sociale, uno strumento prezioso per favorire una riflessione critica del proprio passato criminale e delle spinte devianti di carattere personale e ambientale. Tale interesse, e il corrispondente diritto, ha natura diversa da quelli, pure garantiti dall’ordinamento, alle relazioni interpersonali (essendo l’uomo un animale sociale che non può vivere a lungo completamente isolato, pena gravi ripercussioni psico-fisiche) e alla permanenza all’aria aperta (indispensabile per la salvaguardia di essenziali esigenze igienico-sanitarie, oltre che psicologiche). La contestata disposizione dell’Amministrazione, invece, cumula e confonde indebitamente tali profili, imponendo al detenuto che ha bisogno del computer per esigenze di studio di rinunciare alla fruizione della sala socialità con i compagni di detenzione oppure alla seconda ora di permanenza nel cortile. In questi termini, pertanto, la soddisfazione di un diritto riconosciuto dall’ordinamento si traduce nell’ingiustificata compressione di altri diritti, pure riconosciuti dal legislatore, con l’inevitabile effetto di ripercuotersi negativamente anche sul primo, posto che in tal modo il suo esercizio viene di fatto disincentivato e scoraggiato, anziché tutelato e sostenuto, come dovrebbe essere secondo le pur chiare e molteplici indicazioni normative.”

Secondo il Magistrato di Sorveglianza, che richiama il recentissimo intervento del giudice di legittimità, “la sovrapposizione operativa di sfere di diritti diversi è un’operazione scorretta e come tale censurabile, stante la diversità degli interessi protetti, ciascuno dei quali deve trovare piena tutela”; atteso che “la permanenza all’aperto, la socialità, il lavoro e lo studio sono diritti diversi, che non possono essere in concreto disciplinati l’uno a scapito degli altri”. Infatti, “la limitazione normativa ex Art. 41 bis c. 2 quater, lett. f) alla permanenza all’aperto è limitata alla permanenza all’aria aperta e non ad attività da svolgersi in spazi detentivi chiusi”.

Discende da quanto sopra che l’utilizzo da parte del detenuto del computer dell’Amministrazione, a lui riconosciuto per ragioni di studio, deve essere in concreto organizzato in modo tale da non pregiudicare né la fruizione in compagnia della c.d. saletta socialità né la sua permanenza all’aria aperta, la cui limitazione a una sola ora, ai sensi dell’art. 10 O.P., può essere disposta soltanto per ragioni eccezionali, esposte in apposito provvedimento congruamente motivato, da ritenersi mancante nel caso in specie. Pertanto, il Magistrato di Sorveglianza di Sassari, in applicazione del principio generale dettato dall’Art. 5 della Legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. e), ha disposto la disapplicazione parziale dell’ordine di servizio della Casa Circondariale di Sassari poiché, imponendo limiti ingiustificati comprimenti altri diritti (socialità e permanenza all’aperto) riverberanti indirettamente in maniera negativa sullo stesso diritto allo studio, comporta un attuale e grave pregiudizio all’esercizio di tutti e tre tali diritti, ai sensi e per gli effetti dell’Art. 69, c. 6 lett. b) O.P., precisando che “la limitazione appare ancor più gravosa se considerata nel quadro generale di sospensione delle regole di trattamento e di conseguente sottrazione di molte possibilità trattamentali, anche fisiche e sportive, organizzate e partecipate.” 

Più precisamente, il Giudice, ha disapplicato l’ordine di servizio nelle parti in cui stabilisce che l’uso del computer debba avvenire in alternativa alla fruizione in compagnia della saletta di socialità e che è vietato utilizzare il computer in ipotesi di fruizione di due ore consecutive di permanenza all’aperto, nonché la disapplicazione per quanto di rilevanza di altri eventuali atti amministrativi avallanti la censurata interpretazione della Direzione dell’Istituto Penitenziario di Sassari (il riferimento è all’Art. 14.1 della Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 02/10/2017) e, per l’effetto, ha ordinato alla Direzione di consentire al detenuto, entro quindici giorni dalla comunicazione della ordinanza, di utilizzare tutti i giorni il pc senza alcun pregiudizio dei suoi concorrenti diritti di fruire dell’accesso in compagnia alla saletta di socialità e di permanere due ore all’aria aperta.

UdS di Sassari – Ordinanza del 4-10-2018 (clicca qui per leggere)

Cassazione, Per i detenuti in 41 bis 2 ore di “permanenza all’aperto”, oltre alle ore per la “socialità”


Finalmente è stata posta la parola “fine” ad una assurda questione riguardante i diritti dei detenuti sottoposti al regime detentivo speciale ex Art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario. Infatti, la Prima Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione (Bonito Presidente, Minchella Relatore), si è definitivamente pronunciata respingendo, su conforme richiesta della Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, i ricorsi proposti dal Ministro della Giustizia, dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dalla Casa Circondariale di Sassari, per il tramite dell’Avvocatura dello Stato, contro le Ordinanze emesse dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari il 14/12/2017, confermatorie dei provvedimenti assunti dal Magistrato di Sorveglianza di Sassari il 19/09/2017, che in accoglimento dei reclami dei detenuti Francesco Schiavone e Francesco Pesce, aveva disapplicato i Decreti del Ministero della Giustizia – con i quali era stato loro applicato il regime detentivo speciale previsto dall’Art. 41 bis c. 2 dell’Ordinamento Penitenziario – nella misura in cui essi prevedevano una sola ora d’aria per i ristretti a quel regime, così statuendo che le ore d’aria dovessero essere due e dovessero essere separate dalla socialità.

Per il Tribunale di Sorveglianza di Sassari, era corretta la ricostruzione dell’impianto normativo così come effettuata dal Magistrato di Sorveglianza, il quale aveva distinto la permanenza all’aperto dalla socialità: così aveva preso atto che l’Art 41 bis, lett. f), Ord. Pen. prevedeva che la permanenza all’aperto non potesse superare le due ore, ma che questo aspetto non andava confuso in modo generale con il tempo trascorso fuori dalla cella, poiché la presenza all’aria aperta aveva una finalità prettamente volta a tutelare il benessere psico-fisico, tanto che l’Art. 10 Ord. Pen. prevedeva che la permanenza all’aperto potesse essere ridotta ad un’ora soltanto per ragioni eccezionali e con provvedimento motivato; diversamente da ciò, lo spazio temporale della socialità aveva la finalità di favorire interessi culturali e relazionali; pertanto il Decreto Ministeriale errava nell’accorpare permanenza all’aperto e socialità, statuendo che entrambe non potessero avere durata superiore ad un’ora senza alcuna giustificazione in termini di ragioni di sicurezza: peraltro, si ampliava il disagio del confinamento in cella per 22 ore al giorno, per cui la socialità doveva durare un’ora e la permanenza all’aperto due ore (salve ragioni eccezionali e motivate). Pertanto, il Tribunale di Sorveglianza di Sassari, nel confermare la disapplicazione dei Decreti Ministeriali applicativi del regime detentivo speciale nella parte in cui prevedevano, per i detenuti soggetti allo stesso, una sola ora d’aria riconosceva, ai detenuti reclamanti Francesco Schiavone e Francesco Pesce, il diritto di fruire di due ore d’aria giornaliere, oltre all’eventuale ora di socialità, da fruire all’interno di appositi spazi predisposti dalla Direzione dell’Istituto, osservando che “il diritto alla salute psico-fisica del detenuto non può essere irragionevolmente compromesso attraverso una ulteriore afflizione del regime detentivo, almeno in assenza di una specifica dimostrazione che la permanenza all’aria aperta per due ore potesse pregiudicare le esigenze di sicurezza ed ordine alla base del provvedimento impositivo del regime differenziato.”

La Corte Suprema di Cassazione, sulle conformi conclusioni espresse dalla Procura Generale della Repubblica, con Sentenze nr. 40760/2018 e 40761/2018 del 13/09/2018, ha rigettato i ricorsi perché infondati evidenziando la correttezza delle Ordinanze emesse dalla Magistratura di Sorveglianza di Sassari, all’esito dei precedenti gradi di giudizio. Per i Giudici della Cassazione, “la sovrapposizione della permanenza all’aria aperta e della socialità costituisce un’operazione non corretta, poiché accomuna senza ragione due differenti ipotesi, la cui unica connotazione comune (e cioè lo stare al di fuori della stanza detentiva)”. Inoltre, “la permanenza all’aria aperta risponde espressamente alla finalità di contenimento degli effetti negativi della privazione della libertà personale, tanto che sono previste le valutazioni dei servizi sanitario e psicologico e tanto che essa deve perdurare almeno due ore al giorno e che la riduzione di essa ad una sola ora al giorno è resa possibile soltanto nel rispetto della rigida condizione della sussistenza di ragioni eccezionali poste alla base di un provvedimento motivato.”. Peraltro, va anche annotato che “il comma 2 quater dell’art. 41 bis Ord. Pen., nel prevedere alla sua lettera f) che la sospensione di alcune regole del trattamento riguardi anche «la limitazione della permanenza all’aperto, che non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone, ad una durata non superiore a due ore al giorno fermo restando il limite minimo di cui al primo comma dell’articolo 10», non prevede affatto una compressione in via generale di tale permanenza all’aperto, ma rinvia alla disciplina generale (giacché è lo stesso art. 10 citato a prevedere che la permanenza all’aperto possa avvenire in gruppi). Tutto ciò non va sovrapposto alla c.d. socialità, termine che indica il tempo da trascorrere in compagnia all’infuori delle attività di lavoro o di studio: la socialità, quindi, viene fatta nelle stanze detentive, all’ora dei pasti (riunendosi in piccoli gruppi), oppure nelle apposite “salette”.

Per gli Ermellini “Si tratta, in altri termini, di due distinte situazioni che hanno differente finalità e che, anche nell’impianto normativo, non risultano fungibili tra di loro: la permanenza del detenuto all’aria aperta risponde ad esigenze igienico-sanitarie, mentre lo svolgimento delle attività in comune in ambito detentivo è valorizzata nell’ottica di una tendenziale funzione rieducativa della pena, che non può essere del tutto pretermessa neppure di fronte ai detenuti connotati da allarmante pericolosità sociale, come appunto quelli sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41 bis Ord. Pen. (tanto è vero che questo stesso articolo prevede soltanto che siano «adottate tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità», ma non che la socialità sia cancellata). Così, stabilito che il tempo per le attività in comune deve essere consentito senza incidenza sul diritto a fruire delle ore di permanenza all’aperto, va osservato che, nella fattispecie, la limitazione de qua era stata disposta in assenza di ragioni eccezionali e specificate in provvedimenti, ma soltanto in attuazione di una normativa interpretata in senso ingiustificatamente restrittivo.”.

Per completezza di informazione si segnala che, recentemente, vi era stata una Ordinanza del Magistrato di Sorveglianza di Viterbo del 22/03/2018, che confermava l’interpretazione restrittiva della preclusione di cui al comma 2-quater lett. f) dell’Art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, così come da ultimo integrata dalla Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 02/10/2017 n. 3676/6126, che stabiliva il limite massimo di due ore giornaliere di permanenza all’aperto per i detenuti sottoposti al regime detentivo. In altri termini, i detenuti, secondo il citato Magistrato, potevano usufruire di due ore giornaliere all’aria aperta, in alternativa ad un’ora massima di tempo da impiegare nelle attività ricreative/sportive, nell’accesso alla sala pittura o alla biblioteca. Ma non entrambe. Purtroppo, con il pronunciamento della Corte di Cassazione, anche il Magistrato di Sorveglianza di Viterbo (ed altri che la dovessero pensare come lui), dovrà cambiare idea, non interpretando più la normativa “in senso ingiustificatamente restrittivo” così come fatto sino ad ora.

Cass. Pen. Sez. I, n. 40760/2018 del 13/09/2018, Schiavone (clicca per leggere)

Cass. Pen. Sez. I, n. 40761/2018 del 13/09/2018, Pesce (clicca per leggere)

Mica bisogna essere “amici dei mafiosi” per accorgersi degli eccessi del regime 41 bis


casa-circondariale-di-tolmezzoSecondo la Cassazione ai detenuti per mafia è legittimo limitare il diritto a essere genitori. Giusto. Ma lo è anche dal punto di vista dei figli? Un caso a Trieste.

Questa rubrica si è già occupata del 41 bis: il cosiddetto regime carcerario “duro”, riservato ai mafiosi e ai detenuti ritenuti particolarmente pericolosi.

Lo abbiamo scritto in luglio, poco prima che Bernardo Provenzano morisse in cella anche se da tempo totalmente incapace d’intendere e di volere: se sono più che giustificate le regole che cercano d’impedire contatti esterni a chi dal carcere potrebbe condizionare o guidare gli affiliati di un’organizzazione criminale, pare assai meno corretto imporre altre norme, del tutto vessatorie, che con quella logica non hanno nulla a che spartire. Per esempio il divieto di cucinare. O l’obbligo di andare in bagno sempre e soltanto sotto l’occhio vigile di un agente di polizia penitenziaria. O anche l’isolamento nelle cosiddette “aree riservate”, dove i “41 bis” non possono nemmeno rivolgere la parola agli agenti. Hanno senso?

Perfino la presidente della commissione Antimafia, Rosi Bindi, che non ha mai avuto particolari propensioni garantiste, si è posta il problema, sia pure a livello squisitamente teoretico: “Sul 41 bis – ha detto – siamo disponibili a fare tutte le valutazioni per capire se ci sono regole non rispettose della dignità della persona”.

Questa rubrichetta si è permessa anche di criticare, ma una volta o due soltanto, la Corte di cassazione per alcune sentenze almeno apparentemente illogiche. Ecco, in questo caso i due temi si fondono insieme. Perché una recentissima sentenza della prima sezione penale della suprema corte (la numero 47939 dell’11 ottobre 2016) ha rigettato il ricorso di un boss della camorra, in carcere a Trieste per una sfilza di reati lunga così. Che cosa succede?

Che il boss è separato dalla prima moglie e ha avuto una seconda compagna (mai sposata) in Spagna, dove a lungo è stato latitante ed è stato catturato nel 2012. Da entrambe le relazioni il boss ha avuto figli, e dalla seconda in particolare è nato un figlio che è ancora minorenne. Per questo il recluso ha chiesto di poter dialogare telefonicamente una volta al mese con il ragazzino. Ma il Tribunale di sorveglianza di Trieste ha respinto la richiesta e stabilito che, in base al 41 bis, il recluso abbia diritto a un solo colloquio telefonico mensile con un familiare.

Questione chiusa. O forse no – Così il boss ha sollevato una questione di legittimità costituzionale, lamentando che fossero stati violati gli articoli 3, 29 e 30 (uguaglianza, rapporti familiari e doveri paterni all’educazione), perché la legge fondamentale non prevede “un numero di colloqui maggiore per i detenuti che abbiano figli nati fuori dal matrimonio”. Il Tribunale ha respinto l’eccezione, sostenendo che la vera ragione per cui gli veniva rifiutato il colloquio fosse da cercare nelle “difficoltà logistiche derivanti dal suo essere dimorante in Spagna”.

Il boss ha quindi fatto ricorso in Cassazione. Che ha respinto la richiesta. Confermando che il 41 bis, laddove limita a una sola telefonata mensile i rapporti familiari del recluso, non viola alcun suo diritto costituzionale: “La norma – scrivono i giudici – ha ripetutamente superato il vaglio di legittimità in considerazione delle esigenze di ordine e di sicurezza che giustificano le limitazioni previste”. E pertanto è legittimamente limitato anche l’esercizio del diritto a essere genitori. Fine della questione.

Tutto bene, tutto giusto. E nessuno prova particolare simpatia per un boss della camorra, ci mancherebbe. Ma i supremi giudici, così come la Corte costituzionale nelle valutazioni pregresse cui fa riferimento la Cassazione, hanno visto la questione dal punto di vista di un bambino? Hanno provato a immedesimarsi nella sua lontananza da un padre? Chissà…

Maurizio Tortorella

Tempi, 11 dicembre 2016

Rossano, Quintieri (Radicali): Gli ergastolani non hanno diritto alla cella singola


CARCERE ROSSANOAlla luce di quanto accaduto nei giorni scorsi presso la Casa di Reclusione di Rossano ove un detenuto, C.D., napoletano, condannato alla pena dell’ergastolo, ha aggredito il Medico Psichiatra ed un sottufficiale del Corpo di Polizia Penitenziaria, poiché voleva essere collocato in cella singola, ritenendo di averne diritto per il suo status di ergastolano, nell’esprimere la mia convinta solidarietà alle vittime, intendo precisare quanto peraltro già sostenuto durante numerose visite circa l’insussistenza di tale diritto in capo agli ergastolani. Infatti, numerosi detenuti in espiazione della pena dell’ergastolo, in virtù di quanto disposto dall’Art. 22 comma 1 del Codice Penale che prevede l’isolamento notturno, sono convinti che spetti loro il diritto di essere collocati in una camera singola mentre in realtà l’isolamento notturno, a differenza di quello diurno, non costituisce una vera e propria sanzione penale, ma soltanto una modalità esecutiva della pena, peraltro, affidata alla discrezionalità dell’Amministrazione Penitenziaria.

Invero, la Corte Suprema di Cassazione, chiamata ripetutamente a pronunciarsi in merito ad ordinanze emesse dalla Magistratura di Sorveglianza, con le quali venivano rigettati i reclami proposti dai detenuti per la omessa attuazione dell’isolamento notturno, ha affermato il seguente principio di diritto : «l’isolamento notturno del condannato all’ergastolo, che rappresenta un inasprimento sanzionatorio e non una sanzione vera e propria come quello diurno, non può considerarsi oggetto di un diritto soggettivo giuridicamente azionabile dall’interessato. Ne consegue, che è legittimo il rigetto di istanza presentata da condannato alla pena dell’ergastolo e mirante ad ottenere, in costanza della sua esecuzione, l’isolamento notturno.».

Inoltre, allo stato, tuttavia, l’isolamento notturno, quale istituto generalizzato collegato alla pena dell’ergastolo con finalità segregante, non può considerarsi più previsto dall’ordinamento giuridico positivo, giacche gli Artt. 22, 23 e 25 del Codice Penale che lo menzionavano, devono ritenersi implicitamente modificati in parte qua in seguito all’entrata in vigore dell’Art. 6 comma 2 dell’Ordinamento Penitenziario approvato con Legge nr. 354/1975. Dispone, infatti, tale norma che i locali destinati al pernottamento dei detenuti consistono “in camere dotate di uno o più posti”, senza distinguere la pena da eseguire. Ed il Regolamento di Esecuzione Penitenziaria approvato con Decreto del Presidente della Repubblica nr. 230/2000, nel dare attuazione al disposto legislativo, ribadisce all’Art. 110 comma 5 che l’esecuzione della ergastolo debba essere effettuata nelle Case di Reclusione. Peraltro, l’Ordinamento Penitenziario, contempla l’Art. 89, norma di coordinamento, in forza del quale deve ritenersi abrogata “ogni altra norma incompatibile con la presente legge”. E’ del tutto evidente, quindi, che i provvedimenti assunti dall’Amministrazione Penitenziaria – che non ammettano il detenuto ergastolano (che lo richieda) ad essere “isolato” durante la notte con collocazione in cella singola, specie in presenza di ragioni ostative come il sovraffollamento – siano conformi alla Legge, non essendo un diritto soggettivo del condannato, giuridicamente azionabile.

Per completezza di informazione evidenzio che, durante gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale voluti dal Ministro della Giustizia On. Andrea Orlando e, più precisamente, durante i lavori del Tavolo 2 “Vita detentiva, responsabilizzazione, circuiti e sicurezza” coordinato dal Dott. Marcello Bortolato, Magistrato di Sorveglianza di Padova, è stata proposta la cella singola per gli ergastolani mediante la modifica dell’Art. 6 dell’Ordinamento Penitenziario, inserendo dopo il comma 3 il seguente : “3.bis. Al condannato alla pena dell’ergastolo è garantita nell’istituto di assegnazione la camera ad un posto a meno che egli richieda di coabitare con altri detenuti.”

Con l’occasione, intendo dissociarmi dalle critiche mosse alla Casa di Reclusione di Rossano, all’esito di una visita effettuata da una delegazione del Partito Radicale Transnazionale guidata da Giuseppe Candido il 15/08/2016 perché diverse criticità che sono state raccontate sulla stampa non rispondono al vero (ad esempio, assenza di un Mediatore Culturale per i detenuti stranieri, assenza di attività trattamentali, etc.).

Emilio Enzo Quintieri, Esponente di Radicali Italiani

Carceri, Cassazione “boccia” Magistratura di Sorveglianza di Cosenza e Catanzaro


Corte di cassazione1La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Prima Penale (Chieffi Severo, Presidente, Di Tomassi Maria Stefania, Relatore), pronunciandosi sui reclami di alcuni detenuti, ristretti negli Istituti Penitenziari di Cosenza e Catanzaro, ha sonoramente bocciato l’operato della Magistratura di Sorveglianza di Cosenza e Catanzaro, annullando i provvedimenti impugnati e disponendo la trasmissione degli atti ai Magistrati di Sorveglianza competenti per un nuovo giudizio che si attenga ai principi di diritto statuiti nelle sentenze.

In particolare, i Supremi Giudici hanno esaminato il ricorso proposto dal detenuto Lorenzo Ruffolo, assistito dall’Avvocato Cristian Cristiano del Foro di Cosenza – avverso il Decreto emesso il 26/11/2014 dal Magistrato di Sorveglianza di Cosenza nonché il ricorso proposto dal detenuto Rocco Alvaro, assistito dall’Avvocato Giacomo Iaria del Foro di Reggio Calabria – avverso il Decreto emesso il 07/12/2014 dal Magistrato di Sorveglianza di Catanzaro. In entrambi i casi, i rispettivi Magistrati di Sorveglianza hanno dichiarato inammissibili, senza alcun contraddittorio, le istanze avanzate dagli stessi ai sensi dell’Art. 35 ter dell’Ordinamento Penitenziario (Legge nr. 354/1975) per ottenere il risarcimento per il trattamento carcerario degradante ed inumano subito a causa della detenzione in spazi vitali inadeguati in quanto inferiori ai 3 metri quadrati : il Ruffolo nella Casa Circondariale di Cosenza e l’Alvaro nelle Case Circondariali di Palmi, Rossano, Paola e Catanzaro.

Secondo i Magistrati di Sorveglianza, le istanze proposte dai detenuti, erano inammissibili, in quanto difettavano i presupposti principali per l’azionabilità della domanda e cioè l’esistenza di un pregiudizio “attuale e grave” tanto al momento della domanda quanto al momento della decisione (dovendosi perciò escludere la possibilità di ricorrere alla Magistratura di Sorveglianza sia con riferimento a violazioni subite in detenzioni pregresse e diverse sia per violazioni medio tempore venute meno per intervento dell’Amministrazione Penitenziaria o della stessa Magistratura di Sorveglianza) e perché le istanze erano formulate genericamente, non avendo i detenuti dedotto e documentato specifiche e dettagliate condizioni di detenzione, tali da integrare eventuali violazioni in atto dell’Art. 3 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali, neppure chiedendo alle predette Autorità Giudiziarie, di azionare poteri istruttori ufficiosi, per accertare i pregiudizi lamentati.

La Cassazione, invece, passando ad esaminare la declaratoria di inammissibilità delle istanze reclamo dei ricorrenti Ruffolo e Alvaro, ha rilevato che queste recavano, oltre al richiamo all’Art. 35 ter dell’Ordinamento Penitenziario ed alla richiesta di riparazione per il trattamento carcerario assertivamente degradante subito, adeguati riferimenti al periodo complessivo di detenzione patito negli Istituti Penitenziari di Cosenza, Palmi, Rossano, Paola e Catanzaro.

Le ragioni delle richieste (causa petendi) e l’oggetto delle stesse (petitum), contenute nelle istanze – reclamo dei detenuti, risultando chiaramente enucleabili, non potevano, dunque, ritenersi affette da una genericità talmente assoluta da essere riconducibile alla categoria della manifesta infondatezza, per difetto delle condizioni di legge.

Per gli ermellini, non c’è bisogno che le istanze – reclamo debbano avere una forma specifica essendo sufficiente l’indicazione del petitum e della causa petendi e comunque, la disciplina del procedimento di cui all’Art. 35 comma 3 dell’Ordinamento Penitenziario, implica che l’attività di accertamento sia demandata, anche mediante l’esercizio di poteri officiosi, al Magistrato di Sorveglianza che è chiamato a pronunciarsi sul reclamo, esercitando, evidentemente, gli ampi poteri istruttori di cui è titolare ai sensi dell’Art. 666 comma 5 del Codice di Procedura Penale.

Proprio la natura essenzialmente “compensativa”, più che “risarcitoria” in senso stretto, del rimedio introdotto dall’Art. 35 ter dell’Ordinamento Penitenziario, finalizzato a “garantire una riparazione effettiva delle violazioni dell’Art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo derivanti dal sovraffollamento”, richiesta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo nella Sentenza pilota Torreggiani, esclude che la domanda debba essere corredata dalla indicazioni precisa e completa degli elementi che si pongono a fondamento della stessa ed, in specie, che configurano il pregiudizio da ristorare. E’ quindi, soltanto necessario che vengano indicati i periodi di detenzione, gli Istituti di Pena e la riconducibilità delle condizioni detentive alle suddette violazioni derivanti dal sovraffollamento, mentre la sussistenza del pregiudizio per specifiche violazioni dell’Art. 3 della Convenzione Europea costituisce thema probandum.

La Corte Suprema di Cassazione, infine, ha ritenuto errata la tesi sostenuta dai Magistrati di Sorveglianza di Cosenza e Catanzaro che la condizione di accoglibilità della domanda riparatoria rivolta agli stessi sia la “attualità” del pregiudizio, anche perché la ritenuta esclusione del rimedio risarcitorio di competenza del Magistrato di Sorveglianza, disciplinato dal comma 1 e 2 dell’Art. 35 ter dell’Ordinamento Penitenziario, per coloro che in costanza di detenzione lamentino il pregiudizio derivante da condizioni di carcerazione inumane in violazione dell’Art. 3 della Convenzione Europea non più attuali, perché rimosse, non risulta conforme, sotto il profilo logico-sistematico, alle finalità proprie delle disposizioni introdotte dal legislatore in materia di Ordinamento Penitenziario nel 2013 e 2014, per porre termine alle condizioni di espiazione delle pene detentive ritenute in contrasto con la Convenzione dei Diritti dell’Uomo secondo le indicazioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (a partire dai casi Sulejmanovic e Torreggiani), per risarcire i pregiudizi derivanti da tali condizioni e, più in genere, per realizzare un sistema di tutela dei diritti dei soggetti ristretti con maggiori caratteristiche di effettività e tempestività rispetto a quello esistente, sia pure modulato ed applicato secondo i correttivi interventi della Corte Costituzionale e, in specie, della sentenza n. 26 del 1999.

La ratio complessiva delle modifiche, tra le quali la disciplina dei particolari rimedi risarcitori di cui all’Art. 35 ter dell’Ordinamento Penitenziario, va rintracciata – come già precedentemente indicato dalla Corte di Cassazione – nel “rafforzamento complessivo degli strumenti tesi alla riaffermazione della legalità della detenzione con estensione dei poteri di verifica e di intervento dell’Autorità Giurisdizionale”.

Per le ragioni esposte, i provvedimenti impugnati sono stati annullati senza rinvio e sono stati trasmessi ai competenti Magistrati di Sorveglianza di Cosenza e Catanzaro affinché le istanze-reclamo dei detenuti vengano trattate nel contraddittorio delle parti ai sensi dell’Art. 35 bis comma 1 dell’Ordinamento Penitenziario.

Cass. Pen. Sez. I, Sent. n. 873 del 2016 – Pres. Chieffi, Rel. Di Tomassi, Ric. Alvaro (clicca per leggere)

Cass. Pen. Sez. I, Sent. nr. 876 del 2016 – Pres. Chieffi, Rel. Di Tomassi, Ric. Ruffolo (clicca per leggere)

Carceri, Per i rimedi risarcitori compensativi non occorre la gravità ed attualità del pregiudizio


Corte di cassazione1Con decreto del 13.11.2014 il Magistrato di Sorveglianza di Foggia dichiarava inammissibile, ai sensi dell’art. 666, comma 2, cod. proc. pen., l’istanza con la quale Koleci Alban, detenuto presso la Casa Circondariale di Foggia, chiedeva il risarcimento per le condizioni inumane di detenzione ai sensi dell’art. 35-ter legge n. 354 del 1975 (Ord. Pen.), come introdotto dall’art. 1 d.l. n. 92 del 2014 conv. nella legge n. 117 del 2014.

Riteneva, a ragione, che presupposto necessario ai fini del risarcimento in forma specifica della riduzione della pena detentiva da espiare, di competenza del Magistrato di Sorveglianza, è l’attualità del pregiudizio al momento della richiesta, siccome previsto dall’art. 69, comma 6, lett. b), Ord. Pen., espressamente richiamato dall’art. 35-ter, comma 1, Ord. Pen.; in mancanza dell’attualità, unico risarcimento possibile è quello di competenza del giudice civile, previsto dal comma 3 dell’art. 35-ter citato, della liquidazione di una somma di danaro di euro 8,00 per ciascuna giornata nella quale vi è stato pregiudizio.

Rilevava, quindi, che, nella specie, il detenuto aveva formulato la richiesta con riferimento al periodo compreso tra il 14.8.2009 ed il 29.10.2014 «lasciando intendere che al momento della presentazione della domanda, il 31.10.2014, il pregiudizio fosse cessato, seppure da pochi giorni».

L’interessato ha proposto personalmente ricorso alla Corte Suprema di Cassazione, denunciando la violazione di legge ed il vizio della motivazione in relazione all’ art. 35-ter Ord. Pen..

Preliminarmente rilevava che nell’istanza avanzata il 29.10.2014 era stato precisato che le condizioni inumane, vissute per complessivi 1.405 giorni presso gli istituti di pena indicati, «persistono a tutt’oggi».

Contestava, comunque, che il rinvio dell’ art. 35-ter, comma 1, Ord. Pen. al pregiudizio di cui all’art. 69, comma 6, lett. b), Ord. Pen. si riferisca anche ai presupposti di «gravità» ed «attualità», dovendosi, invece, avere riguardo esclusivamente al tipo di pregiudizio dei diritti del detenuto determinato da un comportamento dell’Amministrazione Penitenziaria.

La interpretazione sostenuta nel provvedimento impugnato, ad avviso del ricorrente, non è conforme alla ratio ed alle finalità perseguite dal legislatore attraverso l’introduzione della norma, in particolare, quella di prevedere uno strumento effettivo ed immediato di tutela per i detenuti contro il pregiudizio derivante da condizione detentiva inumana e degradante.

Inoltre, se si dovesse avallare l’interpretazione posta a fondamento del provvedimento impugnato, stante la ripartizione di competenza tra magistrato di sorveglianza e giudice civile come prevista dall’ art. 35-ter Ord. Pen., rimarrebbero esclusi da ogni forma di tutela tutti i condannati ancora detenuti in espiazione di pena per i quali la condizione degradante sia cessata. Questi, infatti, non potrebbero agire dinanzi al giudice civile in quanto ancora ristretti e, comunque, verrebbero privati della possibilità di ottenere il rimedio risarcitorio in forma specifica al quale può provvedere soltanto il magistrato di sorveglianza. Conseguentemente, deve ritenersi che presupposto per proporre il reclamo di cui all’ art. 35-ter Ord. Pen. al magistrato di sorveglianza sia soltanto l’attuale stato di detenzione dell’istante e la prospettazione delle circostanze di fatto dalle quali desumere l’esistenza del pregiudizio da condizione detentiva inumana e degradante.

La Suprema Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi in merito, ha stabilito che “la ritenuta esclusione del rimedio risarcitorio di competenza del magistrato di sorveglianza, disciplinato dal comma 1 e 2 dell’art. 35-ter Ord. Pen., per coloro che in costanza di detenzione lamentino il pregiudizio derivante da condizioni di carcerazione inumane in violazione dell’art. 3 CEDU non più attuali, perché rimosse, non risulta conforme, sotto il profilo logico-sistematico, alle finalità proprie delle disposizioni introdotte dal legislatore in materia di ordinamento penitenziario nel 2013 e 2014, per porre termine alle condizioni di espiazione delle pene detentive ritenute in contrasto con la Convenzione dei diritti dell’uomo secondo le indicazioni della Corte EDU (a partire dai casi Sulejmanovic e Torreggiani), per risarcire i pregiudizi derivati da tali condizioni e, più in genere, per realizzare un sistema di tutela dei diritti dei soggetti ristretti con maggiori caratteristiche di effettività e tempestività rispetto a quello esistente, sia pure modulato ed applicato secondo i correttivi interventi della Corte cost. e, in specie, della sentenza n. 26 del 1999.”

Inoltre, secondo i Giudici del Supremo Collegio “Pur avendo il legislatore ricondotto il pregiudizio derivato al detenuto dalle condizioni inumane e degradanti della carcerazione a quello più generale dell’esercizio dei diritti del soggetto ristretto, derivante dall’inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste dall’ordinamento penitenziario, attraverso il richiamo espresso del comma 1 dell’ art. 35-ter all’art. 69 comma 6 lett. b) Ord. Pen., ciò non autorizza a ritenere che le caratteristiche di «gravità» e «attualità» del pregiudizio indicate da tale ultima norma costituiscano presupposto essenziale per accedere al rimedio risarcitorío compensativo che può essere richiesto dal detenuto al magistrato di sorveglianza a norma del comma 1 e 2 dell’ art. 35-ter Ord. Pen.”

Per tale motivo, il provvedimento impugnato dal detenuto Koleci Alban, è stato annullato senza rinvio e gli atti sono stati trasmessi al Magistrato di Sorveglianza di Foggia perché provveda alla trattazione della richiesta nel contraddittorio delle parti ai sensi dell’Art. 35 bis comma 1 dell’Ordinamento Penitenziario.

Cass. Pen. Sez. I, n. 46966 del 16.07.2015 – Pres. Chieffi, Rel. La Posta, Ric. Koleci (clicca per scaricare)

conforme

Cass. Pen. Sez. I, n. 46967 del 16.07.2015, Pres. Chieffi, Rel. La Posta, Ric. Mecikian (clicca per scaricare)