Prof. Pelissero (UniTorino): “si condanni alla galera e si butti via la chiave” non è compatibile con i principi fissati dalla Costituzione


Non è facile comprendere le dinamiche che sorreggono il diritto penale, specie quando si tratta di fatti lesivi di diritti fondamentali delle persone e dell’intera comunità associata; soprattutto, non è facile trasmettere le ragioni che stanno alla base di decisioni che appaiono, a prima vista, un’inaccettabile concessione in favore di chi ha commesso un reato, specie se efferato. Il fatto è che siamo tendenzialmente propensi ad identificarci con chi è vittima del reato e mai con chi ne è l’autore (salvo che l’autore sia colui che si difende da un’aggressione ingiusta, ed allora il discorso cambia completamente).

Il caso Viola deciso nel giugno di quest’anno dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con sentenza divenuta definitiva, riguarda un condannato alla pena dell’ergastolo per reati gravi connessi alla criminalità organizzata; la vicenda giudiziaria ed il suo epilogo rappresentano un esempio emblematico della complessità delle questioni sottese alla pronuncia. È necessario provare a semplificare, senza banalizzare, il ragionamento seguito dai giudici di Strasburgo che hanno condannato l’Italia per violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti in relazione ad una specifica disciplina in tema di ergastolo.

L’ergastolo per essere compatibile con i principi costituzionali deve sempre assicurare al condannato effettive possibilità di interruzione della detenzione: la logica semplificatoria “si condanni alla galera e si butti via la chiave” non è compatibile con i principi fissati dalla Costituzione (le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, art. 27 comma 3) e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (divieti di trattamenti inumani e degradanti, art. 3): ogni detenuto ha diritto al riesame della sua personalità in corso di detenzione, perché ogni personalità non è statica, ma è destinata a mutare nel tempo in ragione delle esperienze vissute, tanto più dopo anni di vita in carcere.

Una volta che l’autorità giudiziaria abbia accertato le condizioni per ritenere il detenuto rieducato e privo di collegamenti con la criminalità organizzata, il mantenimento in carcere non avrebbe altro significato che quello di barbara ed inefficace vessazione. Per questa ragione anche l’ergastolano può accedere alle misure alternative alla detenzione e alla liberazione condizionale, sebbene con limitazioni temporali ben più gravose di quelle riservate agli altri detenuti.

Se non che la recrudescenza della criminalità organizzata all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, ha indotto il legislatore a condizionare, per i condannati a reati connessi a tale forma di criminalità, l’accesso ai benefici penitenziari alla collaborazione con l’autorità giudiziaria. La collaborazione è divenuta, dunque, condizione necessaria per vedere effettivamente interrotta la pena detentiva e inevitabilmente per i condannati alla pena dell’ergastolo la mancanza di collaborazione con l’autorità giudiziaria rende l’ergastolo pena destinata a non finire effettivamente mai (c.d. ergastolo ostativo).

Nella sentenza Viola contro Italia la Corte europea dei diritti dell’uomo rompe l’equazione “rieducazione-collaborazione”: vi possono essere, infatti, casi nei quali la collaborazione c’è, ma manca la rieducazione, perché il detenuto si decide a chiamate di correità semplicemente per beneficiare del premio della collaborazione; oppure vi possono essere situazioni – e sono le più – nelle quali la mancata collaborazione dipende dalla volontà di non voler far ricadere sui propri famigliari gli effetti di faide incrociate o di non voler coinvolgere altri nelle vicende giudiziarie. La Corte lacera il velo ipocrita di una rieducazione necessariamente condizionata alla collaborazione: la preclusione nell’accesso ai benefici penitenziari si traduce in un trattamento inumano e degradante.

Alla luce di questa pronuncia, credo che la Corte Costituzionale non possa che accogliere la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di Cassazione in relazione all’impossibilità di accedere ai permessi premio per i condannati all’ergastolo per reati aggravati dal metodo o dalla finalità mafiosa. D’altra parte è la stessa sentenza Viola a richiamare nelle sue argomentazioni i più recenti orientamenti della Corte Costituzionale che hanno ribadito la costante centralità della funzione rieducativa della pena in fase esecutiva, con accenti molto critici sulla disciplina delle preclusioni nell’accesso ai benefici penitenziari.

Si tratta, sia chiaro, di una questione che non investe complessivamente la disciplina dell’ergastolo ostativo, perché interessa solo la concessione dei permessi premio (il vero banco di prova sarebbe l’accesso alla liberazione condizionale, l’unico istituto che consente all’ergastolano di uscire definitivamente dal carcere). Non di meno l’attesa pronuncia della Corte Costituzionale costituirà un banco di prova sulla tenuta dell’intera disciplina dell’ergastolo ostativo: quale senso, infatti, avrebbe ammettere gli ergastolani ai permessi premio, se fosse poi loro precluso l’accesso a misure che garantiscono più ampi spazi di libertà?

Sarà poi responsabilità del legislatore affrontare la revisione della disciplina dell’ergastolo ostativo, senza che ciò implichi l’abolizione della pena dell’ergastolo o l’apertura delle porte del carcere per tutti gli ergastolani (questo sì sarebbe un messaggio distorto, perché la sentenza della Corte europea non ha questo effetto). Ci sono ampi margini per formulare una nuova disciplina che assicuri il rispetto della dignità del detenuto, senza che questo implichi il mancato rispetto per le vittime dei reati ed il sacrificio delle esigenze di prevenzione della criminalità. La pena non può solo guardare al passato (il fatto commesso), ma deve guardare al futuro, sempre.

Marco PelisseroProfessore di Diritto Penale Università di Torino

Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2019

Prof. Sergio Moccia: Lo Stato di diritto non conosce eccezione alle regole che pone. L’ergastolo ostativo è incostituzionale


La Grand Chambre della Corte europea per i diritti dell’uomo ha deciso di invitare l’Italia a modificare la legge che dispone l’ergastolo ostativo, quello, cioè, effettivamente senza fine, a meno che il recluso non decida di collaborare. In realtà la Grand Chambre ha ribadito quanto la Corte aveva già stabilito in una decisione del giugno scorso, contro cui il Governo italiano aveva presentato ricorso evidenziando, tra l’altro, la conformità della sanzione alla Costituzione italiana, stabilita nel 2003 da una decisione “tartufesca” della Corte costituzionale, che grida vendetta per la sua inconsistenza argomentativa.

In poche parole, secondo la Corte l’ammissione al beneficio è l’esito di una “libera scelta del condannato” di collaborare e quindi non viene in discussione l’art.27 c. 3 Cost.; ma la Corte non tiene conto che questa libera scelta può essere condizionata dai possibili riflessi sui familiari e del fatto che chi sia innocente, eppur condannato, non abbia alcun modo di “collaborare”, a meno di inventarsi qualcosa.

Tre, invece, gli argomenti – di ben altra consistenza, civile e giuridica – alla base della decisione della Corte europea dei Diritti umani (Cedu): in primo luogo, il contrasto con il principio di difesa della dignità umana di una norma che non consente a chi sia privato della libertà di poterla, a determinate condizioni, riacquistare; quindi, l’inconsistenza della presunzione di pericolosità a fronte della mancata collaborazione, senza considerare i progressi del singolo sulla via della legalità; ed infine il dubbio forte sulla libertà della scelta, tenuto conto delle possibili gravi conseguenze nei confronti di terzi.

Originariamente, a norma dell’art. 4-bis ord. penit., non è consentita l’applicazione dei benefici penitenziari, tra cui la liberazione anticipata, per gli “irriducibili” di mafia e terrorismo, per il solo fatto della mancata “collaborazione”. Inoltre, l’art. 41-bis ord. penit., per “gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica”, dà la facoltà di sospendere il trattamento rieducativo, ben oltre quanto richiesto da legittime esigenze di isolamento dall’esterno: il che altro non significa che l’adozione del carcere duro. Le due norme tracciano orientamenti rigoristico-deterrenti che poco hanno a che vedere con le disposizioni costituzionali in materia.

In generale, la via per ottenere i benefici per gli ergastolani è prevista valutando il percorso rieducativo e di reinserimento (formazione professionale, attività lavorativa e così via) a cui il recluso partecipa durante la permanenza in carcere. A questo punto non ha alcun fondamento razionale la presunzione assoluta secondo cui la mancata “collaborazione” sia in ogni caso ascrivibile all’assenza di progressi nella direzione della rieducazione. D’altro canto, come fa notare la Cedu, punire la mancata “collaborazione” non ha altro significato che effettuare violenza alla libertà morale del recluso, in palese violazione dell’art. 3 Cedu, che vincola anche l’Italia: norma posta a presidio della dignità umana, di cui è componente essenziale la libertà morale. A ciò si aggiunga che l’art. 27 c. 3, oltre al basilare principio di rieducazione, nella prima parte sancisce solennemente il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità.

Si replica diffusamente, anche da parte di chi dovrebbe avere contezza di Costituzione e Convenzioni, che il superamento della micidiale combinazione normativa, che dà vita all’ergastolo “ostativo duro”, sarebbe visto come un segnale di debolezza e pregiudicherebbe la lotta alle mafie, laddove la coazione a collaborare – in spregio alla normativa costituzionale e convenzionale vigente – rappresenterebbe uno strumento vincente.

Ma, a questo punto, visto che per esigenze di sicurezza o di ordine si possono impunemente violare norme fondamentali, viene da chiedersi perché non utilizzare mezzi più efficaci, più sbrigativi al fine di “ottimizzare” le “collaborazioni”.

Chi stabilisce qual è il limite della violazione della dignità umana? La verità è che lo stato di diritto non conosce eccezione alle regole che pone, pena la sua stessa credibilità. Insomma, si abbia il coraggio di abrogare l’art.27 c. 3 e si rinunci alla Cedu, se si vogliono perseguire in materia penale prospettive diverse dallo stato di diritto.

Il sistema penale a fondamento costituzionale ha la finalità di assicurare il singolo e la pacifica coesistenza fra i consociati, ma non di adottare qualsiasi mezzo ritenuto idoneo al suo perseguimento, altrimenti verrebbe in discussione uno dei due compiti fondamentali: la tutela del singolo. In altri termini è consentito l’intervento penale, ma sempre nel rispetto assoluto di predeterminate garanzie, dettate dalla Costituzione e dalle Convenzioni.

Ciò di cui si discute non è la convenienza dello scopo, ma la conformità dei mezzi adoperati rispetto all’assetto fondamentale dell’ordinamento giuridico.

In questa prospettiva l’intervento penale si giustifica se riesce ad armonizzare la sua necessità per il bene della società con il diritto, anch’esso da garantire, del soggetto al rispetto dell’autonomia, dunque della libertà e della dignità della sua persona.

Sergio MocciaEmerito di Diritto Penale Università degli Studi di Napoli Federico II

Il Manifesto, 18 ottobre 2019

Zagrebelsky (ex Giudice Cedu): disinformazione grave sulla sentenza di Strasburgo contro l’ergastolo ostativo


Ogni discussione tra tesi contrapposte richiede il rispetto per i fatti. E ciò che è mancato nel caso della recente sentenza della Corte europea dei diritti umani, da parte di diversi commentatori, anche specialisti della materia, che sembra non abbiano letto la sentenza.

Il risultato è disinformazione grave, che getta allarme in materia di lotta alla mafia (“La mafia ringrazia”) e delegittima il sistema di protezione europea dei diritti umani (“Quei giudici non sanno cosa sia la mafia”).

Va dunque innanzitutto precisato che la sentenza non riguarda il regime dell’art. 41 bis della legge penitenziaria, che tra l’altro esclude i detenuti cui viene applicato da contatti con l’esterno, contatti con altri detenuti, ecc. allo scopo di interrompere le loro comunicazioni con gli ambienti criminosi da cui provengono. Anzi, la Corte europea, proprio perché avvertita della natura della mafia, ha più volte dichiarato che quel regime restrittivo non è inumano ed è giustificato dallo scopo di prevenzione del crimine.

Il ricorso di un ergastolano in carcere da vent’anni perché condannato per gravi reati di mafia ha dato occasione alla Corte europea di esaminare la legge penitenziaria del 1975 e i suoi articoli 4bis e 58-ter introdotti nel 1992. Tali norme riguardano tutti i condannati a pena detentiva, anche diversa dall’ergastolo, per una serie eterogenea di reati (da quelli associativi di stampo mafioso o terroristico o relativi agli stupefacenti, a molti altri come per esempio quelli contro la pubblica amministrazione, o di violenza sessuale, ecc.).

Quei condannati nel corso della detenzione sono esclusi dalla possibilità di accesso a benefici penitenziari, come i permessi di uscire, il lavoro all’esterno del carcere, la liberazione condizionale (per gli ergastolani dopo 26 anni di detenzione) e le misure alternative alla detenzione, salvo che collaborino con le autorità per la ricostruzione dei fatti e l’identificazione di altri responsabili. Si tratta di una condizione rigida, che non consente al Tribunale di Sorveglianza di valutare complessivamente l’esito del percorso rieducativo che il detenuto ha compiuto in carcere e quindi concedere o negare benefici.

La Corte ha ritenuto che il rifiuto di collaborazione è certo significativo, tuttavia in concreto può non essere sintomo inequivoco di perdurante affiliazione all’associazione criminosa, ma essere invece effetto della paura di ritorsioni che potrebbero subire anche i famigliari e che viceversa una collaborazione potrebbe essere puramente opportunistica e non escludere la pericolosità del condannato. La mancanza della possibilità di accertamento da parte del giudice è la ragione della valutazione negativa della Corte europea.

L’adeguamento della legge italiana alla sentenza europea potrà semplicemente porre fine all’automatismo e rimettere il giudizio al Tribunale di Sorveglianza. Fine dell’automatismo, come ha precisato la Corte, non significa affatto ammissione del detenuto ai benefici. Nello stesso senso d’altra parte si era già espressa anni orsono una commissione di studio del Ministero della giustizia. Nulla di drammatico dunque. Semplicemente un adeguamento alle legislazioni presenti negli altri Paesi europei.

Da anni ormai la Corte europea, sulla base dell’orientamento prevalente in Europa di dare spazio alla finalità della pena e promuovere la risocializzazione del detenuto, ha sanzionato quei sistemi che, con esclusioni automatiche come quella italiana, negavano ogni rilevanza ai progressi compiuti dal condannato nel corso degli anni di carcere.

E quei sistemi si sono adeguati senza drammi. Il caso più evidente è la pena dell’ergastolo, ma il principio riguarda tutte le pene detentive. Non è solo la Convenzione europea dei diritti umani, ma prima ancora la Costituzione che stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione del reo. Di tutti i rei. La concessione o la negazione dei benefici sono strumenti efficaci di accompagnamento del processo di rieducazione.

Negare rilevanza al complessivo atteggiamento del detenuto nel corso dell’esecuzione della pena, o vincolarla a condizioni rigide e automatiche, impedisce l’opera di rieducazione. Se non serve a niente, a che pro impegnarsi? Lo hanno affermato sia la Corte europea, sia in passato anche la Corte costituzionale, che a sua volta prossimamente dovrà valutare la costituzionalità delle norme che la Corte europea ha ritenuto in contrasto con la Convenzione europea dei diritti umani.

Vladimiro Zagrebelsky (Magistrato, già Giudice della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo)

La Stampa, 10 ottobre 2019

Flick, Presidente Emerito della Consulta: “Ci hanno ordinato di non violare la dignità”


Il Presidente emerito della Consulta: “L’articolo 117 della Costituzione vincola lo Stato italiano a rispettare la Convenzione europea dei Diritti umani e le sentenze della Corte di Strasburgo”. A ricordarlo è il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick.

C’è un po’ di Giovanni Maria Flick, del Pesidente emerito della Consulta che è stato anche guardasigilli, in una sentenza storica come quella sull’ergastolo ostativo. “Insieme con altri studiosi, avevo trasmesso alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo una valutazione in veste di amicus curiae, come avviene spesso per i casi sottoposti ai giudici di Strasburgo.

Ebbene, ci eravamo permessi di sollevare un aspetto forse non sempre considerato, ossia la lesione che l’ergastolo ostativo produce anche rispetto alla competenza del giudice nella valutazione sull’effettivo recupero del condannato.

E proprio la restituzione di tale piena potestà valutativa al giudice di sorveglianza è non solo un ritorno ai principi costituzionali, ma anche l’esclusione di qualsiasi rischio di mettere fuori i boss, come sento dire”. Flick, naturalmente, non si sente affatto corresponsabile di una tremenda minaccia per la Repubblica: in una giornata storica per la civiltà del diritto, sa di aver cooperato a riaffermare il principio inviolabile della dignità.

Ma l’Italia potrebbe sottrarsi al rispetto di questa sentenza?

Secondo l’articolo 117 della Costituzione siamo sottoposti agli obblighi derivanti dalla sottoscrizione di trattati internazionali. La Convenzione europea dei Diritti umani è un architrave di tale ordinamento sovranazionale: ne siamo vincolati e siamo dunque vincolati ad applicare le sentenze della Corte di Strasburgo. Nel caso specifico, considerato che il collegio ha dichiarato inammissibile il ricorso italiano, si afferma non un diritto di singole persone, ma un’indicazione vincolante a cui lo Stato deve uniformarsi. L’accesso ai benefici, per chi è condannato all’ergastolo, non potrà essere subordinato alla collaborazione.

E se comunque lo Stato italiano non si uniformasse?

Ci sarebbe la possibilità di ricorrere al giudice affinché sollevi la questione di costituzionalità delle norme sull’ergastolo ostativo. Peraltro la stessa Corte costituzionale è già investita della valutazione sull’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario, che preclude l’accesso ai benefici per alcuni reati, e già in quella sede, tra pochi giorni, potrà esprimere una valutazione adeguata. Ma posso muovere un’obiezione alla sua stessa domanda?

In che senso?

Nel senso che trovo difficile una contestazione formale dello Stato italiano rispetto a un giudizio con cui la Corte di Strasburgo evoca il problema della dignità.

Al centro della pronuncia sull’ergastolo ostativo c’è la dignità?

La Corte dice che va contro la dignità della persona offrire un’unica alternativa al carcere a vita individuata nella collaborazione con la magistratura.

Tale previsione, secondo la commissione Diritti umani presieduta da Manconi, configurerebbe persino una tortura di Stato…

Non so fine a che punto sia una considerazione compatibile con quanto previsto dalla Convenzione di New York contro la tortura. E comunque non credo sia necessario spingersi fino a tal punto. Anche perché la Corte ha richiamato l’Italia al rispetto di un ulteriore cardine del diritto penale, qual è la competenza esclusiva del giudice sulla valutazione del percorso rieducativo del condannato e sul suo possibile reinserimento.

Con l’ergastolo ostativo tale competenza era stata disconosciuta?

Evidentemente sì: subordinare l’effettivo reinserimento sociale del condannato alla sua eventuale collaborazione significa avocare la valutazione che dovrebbe competere al giudice naturale precostituito, se possiamo così definirlo, che nel caso del detenuto è il giudice di sorveglianza. Si tratta di un’affermazione che risponde anche alla presunta grande incognita che questa sentenza, per alcuni, dischiuderebbe.

A cosa si riferisce?

Al fatto che riconoscere la competenza del giudice di sorveglianza fa giustizia dei timori di veder liberate fiumane di mafiosi: sarà il magistrato, in ciascun singolo caso, a valutare se è effettivamente compiuto un processo di recupero.

Si restituisce dignità all’uomo. Persino se è stato mafioso…

Anche in relazione a una conseguenza, sottovalutata direi, dell’ergastolo ostativo. Vede, nel nostro ordinamento, nella nostra tradizione, il processo di cognizione ha come oggetto il fatto. La gravità della lesione al bene giuridico offeso. A essere giudicato non è il mafioso o il corrotto, ma il fatto. L’uomo viene in considerazione solo con l’esecuzione della pena. Con l’ergastolo ostativo si opera un capovolgimento, perché nella fase di esecuzione si continua a giudicare non l’uomo e il suo percorso, ma ancora il fatto. Solo che così un Paese trasfigura i connotati stessi del diritto penale.

Una perdita di civiltà?

Tanto più perché simmetricamente connessa al cosiddetto diritto penale del nemico. Al mantra del buttare la chiave, in cui il carcere non è estrema ratio, ma soluzione abituale e, inevitabilmente, discarica sociale. In tal modo il processo di cognizione, a sua volta, non giudica più il fatto ma l’uomo, mafioso o corrotto che sia, in quanto nemico a prescindere.

Un sistema da Stato d’eccezione: la Cedu ci sollecita a superarlo?

In un momento di eccezionalità qual è stato il 1993 forse l’ostatività poteva avere una spiegazione: ora non la si può comprendere. Così come mi sono sempre sentito in compagnia del Santo Padre, di Moro, di Napolitano, nel ritenere che l’ergastolo fosse una pena illegittima nella formulazione ma legittima nell’esecuzione finché è possibile avere una prospettiva di uscirne con la liberazione condizionale, quando si ritiene ragionevolmente che il condannato si sia rieducato. Con la scomparsa, provocata dal regime ostativo, di quel recupero di legittimità, io proprio non riuscivo ad accettare quell’illegittima dichiarazione che è il fine pena mai.

Errico Novi

Il Dubbio, 9 ottobre 2019

Ergastolo ostativo, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo condanna l’Italia


L’Italia deve rivedere la legge che regola il carcere a vita, perché viola il diritto del condannato a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Così la Corte europea dei diritti umani in una sentenza che in assenza di ricorsi sarà definitiva tra tre mesi. La decisione riguarda il caso di Marcello Viola, condannato per associazione mafiosa, omicidi e rapimenti, in prigione da inizio anni Novanta. La sentenza non implica la liberazione di Viola a cui l’Italia deve versare 6mila euro per i costi legali.

La decisione sull’Italia della Corte di Strasburgo si basa sul fatto che chi è condannato al carcere a vita (ergastolo ostativo) non può ottenere, come gli altri carcerati, alcun `beneficio´ – come per esempio i permessi d’uscita, o la riduzione della pena – a meno che non collabori con la giustizia. Nella sentenza i giudici di Strasburgo evidenziano che «la mancanza di collaborazione è equiparata ad una presunzione irrefutabile di pericolosità per la società» e questo principio fa si che i tribunali nazionali non prendano in considerazione o rifiutino le richieste dei condannati all’ergastolo ostativo. La Corte osserva che se «la collaborazione con la giustizia può offrire ai condannati all’ergastolo ostativo una strada per ottenere questi benefici», questa «strada» è però troppo stretta.

«Alla Corte di Strasburgo pendono già numerosi altri ricorsi» contro il carcere a vita (ergastolo ostativo) e dopo la condanna di oggi «potrebbero arrivarne molti altri», scrivono i giudici di Strasburgo nella sentenza . Il problema messo in luce oggi, per i magistrati, «è di natura strutturale» e richiede quindi, per essere risolto, un intervento, di preferenza legislativo, delle autorità. L’Italia dovrebbe quindi agire «con una riforma della reclusione a perpetuita’ in modo da garantire la possibilità agli ergastolani di ottenere un riesame della pena». Questo, scrivono, «permetterebbe alle autorità di determinare se durante la pena già scontata il detenuto ha fatto progressi tali sul cammino della riabilitazione da renderne ingiustificabile il mantenimento in prigione».

Per l’associazione “Nessuno tocchi Caino” si tratta di un «pronunciamento storico» «Secondo la Corte – spiega una nota -, l’ergastolo ostativo è una forma di punizione perpetua incomprimibile. Con questa sentenza la CEDU svuota l’art 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che prevede uno sbarramento automatico ai benefici penitenziari, alle misure alternative al carcere e alla liberazione condizionale in assenza di collaborazione con la giustizia. La CEDU fa cadere la collaborazione con la giustizia ex art 58 ter o.p, come unico criterio di valutazione del ravvedimento del detenuto. La Corte considera inoltre questo un problema strutturale dell’ordinamento italiano e chiede che si metta mano alla legislazione in materia». «Il successo alla Corte EDU è il preludio di quel che deve succedere alla Corte Costituzionale italiana che il 22 ottobre discuterà l’ergastolo ostativo a partire dal caso Cannizzaro, nel quale Nessuno tocchi Caino è stato ammesso come parte interveniente – spiega il segretario Sergio d’Elia -. Il pensiero non può non andare che a Marco Pannella, al suo Spes contra Spem che ci ha animati e nutriti in questi anni, e ai detenuti di Opera protagonisti del docu-film di Ambrogio Crespi `Spes contra Spem – Liberi dentro´ che contro ogni speranza sono stati speranza, con ciò liberando oltre che se stessi anche le menti dei giudici di Strasburgo».

Redazione Corriere della Sera http://www.corriere.it – 13 giugno 2019

Sabella (Giudice): Provenzano era un vegetale, il 41 bis andava revocato, non può essere strumento di tortura


“Il 41bis è uno strumento indispensabile, non perdiamolo solo perché lo applichiamo per vendetta o, peggio ancora, per gli umori del Paese”. Il magistrato Alfonso Sabella, ex sostituto procuratore del pool Antimafia di Palermo di Gian Carlo Caselli e ora giudice del Riesame a Napoli, queste parole le pronunciava anche due anni fa, quando il boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano era ancora vivo. Ma Provenzano è rimasto al 41bis anche in coma: secondo i giudici era ancora pericoloso. Una decisione ora punita dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo, secondo cui il boss sarebbe stato sottoposto a trattamenti inumani e degradanti e che mette a rischio, secondo Sabella, lo stesso strumento.

Dottor Sabella, cosa ci dice questa sentenza?

Provenzano era in stato vegetativo, quindi che abbiamo utilizzato il 41bis come strumento di tortura. Le perizie, non solo quella di parte, ma anche quella del giudice e della Procura, attestavano che non era in condizione di dare nessun tipo di ordine dal carcere o di elaborare un pensiero diverso da “ho fame” e “ho sonno”.

Lei ha sostenuto sin da subito che andasse revocato…

Sì, proprio per salvare lo strumento. Non sono per l’idea che vada abolito, anzi: ritengo sia indispensabile per la lotta alla criminalità organizzata. Ma in quel caso, visto che ci si trovava davanti ad un vegetale, era indispensabile revocarlo. Era scontato l’esito di Strasburgo e basta un altro errore di questo tipo perché la Cedu ci dica che l’Italia usa il 41bis come strumento di tortura e non come strumento di salvaguardia di altri beni costituzionali.

È stata violata la sua dignità?

Provenzano è morto con dignità all’interno di una struttura sanitaria, la cosa però obiettivamente sgradevole è il fatto che si stato impedito ai suoi familiari di avere un contatto fisico con lui nelle ultime settimane della sua vita e di incontrarlo un po’ più frequentemente di una volta al mese e senza vetro divisorio. Non stiamo parlando del problema della detenzione, perché in carcere ci doveva stare, anche per la funzione retributiva della pena nel nostro ordinamento. Il problema è come ci doveva stare e credo che su questo la Corte abbia messo l’accento, soprattutto dopo che è stata accertata la sua condizione. La questione andava affrontata con molta laicità, perché era più che evidente che Provenzano non era capace di dare ordini alla sua cosca.

Perché non è stato revocato?

Si temevano le reazioni, perché era Provenzano. Invece revocare il 41bis a un vegetale è la cosa più normale del mondo. Se fosse stato in grado di dare ordini sarebbe stata un’aberrazione, ma è altrettanto aberrante averlo mantenuto ad un signore incapace di intendere e di volere.

È stato un problema di opinione pubblica più che di ordine pubblico, quindi?

Sì. Ma una cosa è la giustizia privata, una cosa è lo Stato. Uno Stato deve marcare la differenza con le organizzazioni criminali, non fa vendette, applica la legge, i principi fondamentali della nostra Costituzione e della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo. Altrimenti torniamo alla legge del taglione e chiudiamola qua.

Cosa cambierà dopo questa sentenza?

Io mi auguro che si tragga un insegnamento, cioè che il 41bis va limitato ai casi in cui c’è il pericolo che possano essere dati ordini all’esterno e quindi continuare a dirigere l’organizzazione criminale. A differenza di Provenzano, Salvatore Riina, ad esempio, è stato lucido fino all’ultimo istante, quindi è stato giusto mantenere il 41bis, per- ché in quel caso c’erano altri beni costituzionali a rischio.

Perché lo Stato non riesce ad applicare le sue stesse leggi?

Perché questo è un Paese che ragiona di pancia, senza pensare che la revoca del 41bis a Provenzano sarebbe stato un modo per tutelare lo stesso strumento, cioè applicandolo ai casi per cui è stato pensato. Ora, invece, c’è il rischio che la prossima volta in cui non avremo il coraggio di prendere delle decisioni impopolari ma giuste la Cedu dica che l’Italia si maschera dietro la scusa dell’ordine e della sicurezza pubblica per applicare uno strumento di tortura. E allora non potrà più stare nel nostro ordinamento. Se il ministro Orlando, all’epoca, avesse preso questa decisione, ci sarebbero state tante e tali di quelle polemiche da far cadere il governo.

I penalisti si dicono preoccupati in merito all’atteggiamento del nuovo governo sul tema. Qual è la sua opinione?

Non so come si sta muovendo, spero soltanto che non si agisca sempre sulla base delle pulsioni del momento, che forse possono portare qualche voto in più, ma che probabilmente fanno danni al Paese.

Simona Musco

Il Dubbio, 27 ottobre 2018

Carceri/Giustizia, l’ennesimo richiamo dell’Unione Europea all’Italia ed all’Ungheria


Consiglio d'EuropaTroppi detenuti, meno carcere, più misure alternative. Oltre 40mila con problemi mentali. Nel corposo rapporto elaborato dall’European Committee on Crime Problems, presentato al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, c’è un paragrafo, il ventitreesimo, che mette sotto accusa l’Italia (e l’Ungheria). Riguarda le carceri e più in generale lo stato della giustizia. Vediamo. Si comincia con il ricordare che non da ora la Corte Europea ha denunciato la criticità di questo “problema strutturale”.

La soluzione più appropriata, si osserva, “consiste nell’applicazione più ampia di misure alternative alla detenzione”, provvedimento che, si auspica, “dovrebbe essere ridotta al minimo”. Si riconosce che l’Italia ha avviato riforme che vanno nella giusta direzione, ma al tempo stesso si osserva che malgrado i numerosi interventi sul piano internazionale, nel 2014 la durata della detenzione è aumentata dell’1%, con punte, in alcuni Paesi, del 5%. Il libro bianco, inoltre, ricorda l’importanza di adottare misure in grado di assicurare il pieno rispetto dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo: il divieto di trattamenti inumani e degradanti come interpretati dalla stessa Corte di Strasburgo.

Per questa ragione si raccomanda la “rottamazione” dei vecchi e usurati edifici carcerari, con nuove prigioni moderne in grado di offrire condizioni umane di detenzione: secondo la relazione, “i nuovi istituti penitenziari possono costare meno ed essere più adeguati alle esigenze dei detenuti per la risocializzazione e reinserimento nella società”.
Sempre in tema di carcere: oltre 42mila detenuti italiani – il 77 per cento degli oltre 54 mila totali – convivono con un disagio mentale: si va dai disturbi della personalità alla depressione, fino alla psicosi. Una situazione che comporta conseguenze estreme come l’autolesionismo (circa 7mila episodi in un anno) o il suicidio (solo nel 2014, 43 casi, e oltre 900 tentativi). Il carcere, secondo gli esperti della Società Italiana di Medicina e Salute Penitenziaria, è “un amplificatore dei disturbi mentali: l’isolamento insieme allo shock della detenzione, possono facilitare la comparsa o l’aggravarsi di un problema psichico, a volte latente”.

L’Indro, 13 ottobre 2016

Legge Pinto, Cianfanelli (Radicali): “Lo Stato legifera per rendere quasi impossibili i risarcimenti”


Deborah Cianfanelli, Radicali ItalianiAncora una volta il nostro Stato non smentisce il suo oramai acquisito status di delinquente abituale a danno dei cittadini ed in costante spregio della Legge, preparandosi a nuove e certe condanne da parte della Corte europea dei Diritti dell’Uomo.

Sappiamo che l’Italia ha accumulato oltre 5.000 condanne per violazione dell’art. 6 in relazione alla durata dei processi. L’art. 6 così recita: “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta”.

La celere definizione dei giudizi è connaturata all’esplicazione dell’individuo nella società ed ogni ingiustificato ritardo incide pesantemente sulla qualità della vita dei cittadini in quanto determina una situazione di incertezza che la Corte di Strasburgo equipara ad un vero e proprio diniego di giustizia. La Legge Pinto nacque su sollecitazione della Corte europea quale rimedio meramente risarcitorio alla violazione dell’art. 6 da parte dello Stato italiano a danno dei cittadini.

A tale rimedio risarcitorio non sono mai conseguite, però, riforme strutturali tali da evitare la reiterazione della violazione che, ad oggi, continua a verificarsi.

Nel corso dei 14 anni di vigenza della Legge Pinto lo Stato italiano si è mostrato più preoccupato di legiferare in modo da non rendere effettivi i risarcimenti che di portare i nostri processi a tempi ragionevoli di definizione. In quest’ottica va anche l’ultima riforma proposta all’interno del disegno di Legge di Stabilità 2016 dove al titolo IX, art. 56, vengono introdotte tante e tali modifiche alla Legge Pinto da renderne molto difficile se non meramente eccezionale la possibilità di accesso e di conseguente riconoscimento del diritto ad un equo indennizzo per coloro che abbiano subito un procedimento la cui durata sia tale da essere in contrasto con l’Art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Il nostro legislatore ha finalmente preso atto dei costi causati all’intera economia nazionale da un sistema giustizia che non funziona. Solo che, ancora una volta, anziché cercare di porre in essere dei rimedi strutturali in grado di riportare il nostro sistema giustizia sui binari della legalità e del rispetto dei diritti umani fondamentali, cerca di aggirare l’ostacolo rendendo inaccessibile la strada che porta ad ottenere almeno il risarcimento del danno a fronte del diritto leso. Per i soggetti che subiscono lesioni da parte dello Stato italiano, quindi, oltre al danno anche la beffa!

Ma vediamo nei dettagli le riforme alla legge Pinto che vengono proposte dalla Legge di stabilità. Il diritto ad ottenere l’equa riparazione del danno causato dall’irragionevole durata del processo viene innanzitutto limitato ai soggetti che, nel corso del processo, abbiano esperito i “rimedi preventivi” che vengono introdotti all’art. 1 ter. Ossia: introdurre il giudizio nelle forme del procedimento sommario di cognizione (ex 702 bis cpc); formulare richiesta di passaggio da rito ordinario a rito sommario (ex art. 183 bis) entro l’udienza di trattazione; laddove non si applichi il rito sommario di cognizione, ivi incluso l’appello, proporre istanza di decisione a seguito di trattazione orale ex 281 sexies cpc prima che siano decorsi i termini della ragionevole durata; nel processo penale aver depositato, a mezzo di procuratore speciale, istanza di accelerazione almeno sei mesi prima del decorso del termine ragionevole; nel processo amministrativo e nel processo davanti alla Corte dei Conti presentare istanza di prelievo sei mesi prima che siano decorsi i termini di ragionevole durata; nei giudizi davanti alla Corte di Cassazione depositare istanza di accelerazione due mesi prima dello spirare del termine ragionevole di durata; al di fuori di queste ipotesi diviene inammissibile la domanda di equa riparazione.

Inoltre vengono introdotti i casi nei quali l’indennizzo non è comunque dovuto: a favore della parte che ha agito o resistito in giudizio “consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese” e ciò anche al di fuori dei casi previsti di lite temeraria (quindi totale discrezionalità); nel caso art. 91 co 1 cpc, ossia se viene accolta la domanda nella misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa e il giudice condanna la parte che ha rifiutato immotivatamente la proposta; nel caso di cui art. 13 d. lgs 28/10 ossia quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde al contenuto della proposta e viene esclusa la ripetizione delle spese della parte vincitrice che ha rifiutato la proposta; nei casi in cui il giudice abbia disposto d’ufficio il passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione ex art. 183 bis cpc; in ogni altro caso di abuso dei tempi processuali che abbia determinato un’ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento. Questa è una vera e propria clausola di esclusione lasciata alla mera discrezionalità del giudicante.

Le modifiche non finiscono qui. Vengono infatti enumerate delle ipotesi nelle quali si “presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo” salva prova contraria: per quanto riguarda l’imputato quando sia intervenuta la prescrizione del reato; nel caso di parte contumace; estinzione del processo per rinuncia o inattività delle parti; perenzione del ricorso nel processo amministrativo; nel giudizio amministrativo mancata presentazione della domanda di riunione nel giudizio presupposto e nel caso di introduzione di domande nuove connesse con altre già proposte; irrisorietà della pretesa o del valore della causa valutata in relazione alle condizioni personali della parte.

Quando la parte ha conseguito dalla irragionevole durata del processo vantaggi patrimoniali uguali o maggiori rispetto alla misura dell’indennizzo altrimenti dovuto. In particolare questi ultimi punti, oltre a riconfermare una totale discrezionalità nel determinare i casi di insussistenza del pregiudizio, evidenziano la totale mancanza nel nostro legislatore del concetto di giustizia e di lesione di diritti umani riconosciuti dalla convenzione europea, che appare sussistere solo ed esclusivamente quando sia economicamente apprezzabile! Come se tutto ciò non bastasse a perpetrare la violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo da parte del nostro Stato, questa proposta di riforma va altresì ad intaccare il quantum del risarcimento (per i casi meramente residuali che abbiano avuto la fortuna di riuscire a superare il percorso ad ostacoli sopra delineato).

Stabilisce infatti che: “il giudice liquida una somma di denaro non inferiore a 400,00€ e non superiore a 800,00€ per ogni anno di causa che eccede il termine ragionevole….può essere incrementata fino al 20% per gli anni successivi al terzo e fino al 40% per gli anni successivi al settimo” detta somma viene poi diminuita del 20% se le parti sono più di 10 e del 40% se sono più di 50.

Ulteriori diminuzioni sono previste in caso di integrale rigetto delle richieste di parte ricorrente. È appena il caso di ricordare che nelle liquidazioni effettuate dalla Corte di Strasburgo questa ha individuato il parametro per la quantificazione dell’indennizzo nell’importo compreso tra € 1.000,00 ed € 1.500,00 per anno. Il percorso ad ostacoli prosegue anche in riferimento alle modalità di pagamento: il creditore deve rilasciare all’amministrazione debitrice una dichiarazione (il cui modello verrà predisposto dall’amministrazione entro il 30.10.16, unitamente all’elenco della documentazione che dovrà essere prodotta dal creditore), attestante la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l’esercizio di azioni giudiziarie per il medesimo credito, l’ammontare degli importi che l’amministrazione è tenuta a corrispondere, la modalità di riscossione prescelta. Tale dichiarazione ha validità semestrale e va rinnovata. In mancanza, il pagamento non sarà emesso.

L’erogazione degli indennizzi avverrà entro sei mesi dalla data in cui sono assolti tutti gli obblighi da parte del creditore ed avverrà ove possibile per intero e comunque nei limiti delle risorse disponibili nei relativi capitoli di bilancio. Prima del decorso di questi sei mesi il creditore non potrà procedere esecutivamente né con giudizio di ottemperanza. Tutta questa manovra è paradossale e va nella direzione di una spudorata reiterazione nella violazione del diritto garantito dalla convenzione europea ad ottenere giustizia in tempi ragionevoli. Ciò che appare evidente è che la giustizia nel nostro Stato, oltre ad essere costantemente denegata, è oramai ridotta ad un concetto esistente solo in funzione del valore economico, o meglio della monetizzazione del diritto vantato, salvo oltretutto escogitare sempre nuovi elementi utili alla non corresponsione del dovuto ristoro.

Deborah Cianfanelli (Avvocato, Direzione Radicali Italiani)

http://www.radicali.it, 30 ottobre 2015

Lecce, “condizioni disumane in cella”. Lo Stato condannato a risarcire un detenuto


Carcere di LeccePer la prima volta un giudice del Tribunale civile ha condannato, accogliendo il ricorso di un detenuto assistito dall’avvocato Alessandro Stomeo, il ministero della Giustizia a risarcire un detenuto con oltre novemila euro per i danni patiti per effetto della detenzione subita in violazione dell’articolo 3 Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo), determinato dalla ristrettezza dello spazio vivibile all’interno della cella detentiva. Una sentenza, quella emessa dal giudice Federica Sterzi Barolo della prima sezione civile del Tribunale di Lecce, che traccia una nuova era e fa da punto di chiusura nell’ambito della vicenda che ha visto al centro di una battaglia legale la condizione di sovraffollamento degli istituti di pena italiani.

Una lunga e complessa vicenda giudiziaria iniziata nel 2011, quando un giudice del Tribunale di sorveglianza di Lecce (chiamato per la prima volta a esprimersi in materia) aveva condannato, con una sentenza definita epocale, l’amministrazione penitenziaria a risarcire un detenuto tunisino, recluso nel carcere di Borgo San Nicola, con una cifra pari a 220 euro (sulla base di una sentenza della Cedu), affermando che la violazione dell’articolo 3 comporta per lo Stato un obbligo risarcitorio. “Lesioni della dignità umana, intesa anche come adeguatezza del regime penitenziario, soprattutto in ragione dell’insufficiente spazio minimo fruibile nella cella di detenzione”. Queste le motivazioni con cui Il giudice aveva accolto il ricorso del legale del detenuto, l’avvocato Alessandro Stomeo, che aveva evidenziato le condizioni disumane e degradanti in cui i carcerati erano costretti a vivere, dividendo in tre una cella di circa 11,50 metri quadri, dotata di una sola finestra ed un bagno cieco sprovvisto di acqua calda, con il riscaldamento in funzione d’inverno per una sola ora al giorno, e le cui grate sono chiuse per ben 18 ore. Il terzo dei letti a castello presenti nella cella si trovava inoltre a soli 50 centimetri dal soffitto, privando di ogni possibilità di movimento il detenuto. La novità assoluta era rappresentata dal fatto che il magistrato di Sorveglianza riteneva di poter quantificare e liquidare il danno a titolo di indennizzo.

Successivamente la Cassazione penale, su istanza dall’avvocatura dello Stato, ha stabilito che il magistrato di Sorveglianza, pur potendo accertare la violazione, non può quantificare o liquidare il danno derivato, indicando il tribunale Civile come competente al risarcimento per violazione dell’articolo 3 Cedu. Sul fronte normativo la Corte europea ha imposto all’Italia di eliminare la condizione di sovraffollamento e di prevedere una norma che consenta, a chi ha subito il trattamento disumano, di ottenere un risarcimento. La legge 117/2014 ha introdotto l’articolo 35 ter della legge 354/1975, recependo l’imposizione di Strasburgo. La norma prevede che il magistrato di Sorveglianza, accertata l’eventuale violazione dell’articolo 3 Cedu, risarcisca con un giorno di sconto pena (ogni 10 espiati) i detenuti, ovvero con 8 euro al giorno per i soggetti liberi che non hanno pena da espiare.

Nel secondo caso, quando il detenuto è libero, l’istanza deve essere proposta al Tribunale civile che deve accertare la violazione dell’articolo 3 e quindi risarcire nella misura indicata. Da qui la decisione dell’avvocato Stomeo di avviare in sede civile alcuni procedimenti. La sentenza pronunciata nei giorni scorsi è la prima in materia. Prima d’ora mai un Tribunale civile si era pronunciato sulla vicenda, quindi mai vi era stato l’accertamento della condizione di violazione dell’art. 3 e il conseguente risarcimento. Il giudice ha condannato lo Stato a risarcire un detenuto italiano con 9.328 euro per il periodo tra il dicembre 2006 e il giugno 2013 (1166 giorni per 8 euro). Una sentenza cui presto potrebbero seguirne molte altre.

Andrea Morrone

lecceprima.it, 11 settembre 2015

Magistrati che sbagliano e celle-loculi… in un anno quasi nulla è cambiato


Innocenti dietro le sbarre, rinchiusi per un errore dei giudici. I primi spesso orfani di risarcimento dopo l’ingiustizia subita. I secondi impuniti nella maggior parte dei casi, malgrado la vittoria di un referendum che chiedeva fossero considerati direttamente responsabili dei loro sbagli. E comunque tutti, vittime del sistema giudiziario e “sicuri” colpevoli, costretti a subire la stessa barbara sorte in carceri sovraffollate, in celle che assomigliano a loculi.

Era il quadro che abbiamo dipinto oltre un anno fa sulle colonne de “Il Tempo”. Sono trascorsi tredici mesi. Poco o nulla è cambiato. Il ddl sulla Giustizia che contiene una nuova normativa sulla responsabilità civile dei magistrati è fermo in Senato e può contare sulla strenua opposizione di Anm (l’associazione delle toghe) e Csm (il loro organo di autogoverno). E le patrie galere? Sono sempre strapiene, anche se un po’ meno.

Responsabilità civile

In realtà il ddl non prevede che sia diretta, ma solo che la rivalsa dello Stato sui magistrati che hanno sbagliato passi da un terzo alla metà. Inoltre stabilisce che venga eliminato il “filtro” in base al quale lo Stato deve affidare ai giudici l’ammissibilità della richiesta di rimborso per errore giudiziario o per ingiusta detenzione. Nel 2013 scrivemmo che, negli ultimi 22 anni, oltre 22 mila persone avevano avuto un rimborso per questo. Ma, considerando che le domande rigettate si aggiravano su due terzi del totale, si arrivava per difetto a circa 50 mila, 50 mila innocenti in galera, appunto. Il tutto per una spesa pubblica di circa 600 milioni di euro.

Facendo un paragone fra l’anno scorso e quello in corso, sembrerebbe che i giudici sbaglino meno. Se, infatti, nel 2013 i risarcimenti per le ingiuste detenzioni erano stati 1368 e per gli errori giudiziari 25, nei primi dieci mesi del 2014 siamo a 431 ingiuste detenzioni e a 9 errori (fonte il sito “Errorigiudiziari.com). La spesa è stata rispettivamente di 37 e di 16 milioni di euro. Ma la statistica inganna, come insegna Trilussa. E anche in questo caso la parola magica è “ammissibilità”: dal ministero dell’Economia spiegano che la spending review ha colpito anche in questo settore e che la Cassazione è oggi di manica molto più stretta nel valutare l’ammissibilità della domanda di risarcimento. Non ci sono meno errori, ci sono meno soldi per le vittime degli errori e più richieste gettate nel cestino.

Sovraffollamento

Il 28 maggio è scaduto l'”ultimatum” della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ci ha condannato per le condizioni disumane delle prigioni. Noi siamo corsi ai ripari con provvedimenti come il decreto “svuota carceri”, il perfezionamento di accordi e procedure per l’espulsione degli stranieri in cella, il ripristino della vecchia legge sulla droga, le misure alternative. E siamo stati promossi. Per ora. Ma non del tutto a ragione. Al 31 luglio 2013 dietro le sbarre c’erano 64.873 persone su una capienza regolamentare di circa 47.459. Il 30 settembre i detenuti erano 54.195 su 49.347 posti. Ma i radicali, da sempre impegnati sul fronte carceri, spiegano che dalla capienza regolamentare bisogna sottrarre 6.000 unità a causa di sezioni chiuse, inagibili o inutilizzate. Quindi arriviamo a 43mila posti.

Insomma, se dodici mesi orsono, prima della verifica Ue, eravamo fuorilegge per 17.414 detenuti in più, adesso lo siamo “solo” per 4.848. Una bella consolazione. Ma non basta. Grazie alla possibilità che i carcerati hanno di uscire dalla cella oltre che per la classica ora d’aria e a causa dello scarso numero dei sorveglianti, sono aumentate le aggressioni agli agenti della penitenziaria: per il sindacato Sappe, del 70 per cento da quando c’è questa “vigilanza dinamica”. E sono aumentati i suicidi degli agenti, che sono già 10 contro gli 8 di tutto il 2013. Quelli dei detenuti sono scesi ma soprattutto per il calo della popolazione carceraria. E anche lo sfruttamento dei 2000 “braccialetti elettronici”, prima non impiegati, non ha risolto il problema, poiché per il Sappe ne occorrerebbero almeno il triplo.

L’interrogazione

Il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti il 14 ottobre ha rivolto al Governo un’interrogazione con cui segnalava che “alcuni magistrati di sorveglianza” stanno “rigettando” le richieste di risarcimento dei detenuti ristretti in condizioni che violavano l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, quello utilizzata dalla Corte Ue per bacchettarci.

Anche in questo caso, il motivo è “una ritenuta inammissibilità dei reclami” per le detenzioni pregresse” o quelle che “si protraggono in diversi istituti”. Insomma, il detenuto deve sperare che la richiesta arrivi al magistrato prima del suo trasferimento in un’altra prigione e, nel secondo caso, dovrebbe adire al giudice civile”.

Cosa, quest’ultima, praticamente impossibile nelle sue condizioni. Giachetti, poi, fa notare che la Corte non faceva solo riferimento allo spazio a disposizione dei carcerati, ma anche alla “possibilità di usare i servizi igienici in modo riservato, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce naturale e all’aria, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base”. Un altro punto, infine, è se la superficie “vitale” (3 metri quadri) debba o meno comprendere gli arredi. E il Governo che ha risposto? Non ha risposto.

Maurizio Gallo

Il Tempo, 27 ottobre 2014