Dopo la sentenza Torreggiani, la Corte di Strasburgo ci ha chiesto di fare passi avanti. ecco cosa manca. Riportiamo il documento inviato dai Radicali italiani al Comitato dei Ministri dei Consiglio d’Europa riguardo all’incompiuta attuazione da parte dello Stato italiano delle prescrizione imposte dalla Corte europea in seguito alla sentenza Torreggiani sul sovraffollamento delle carceri. Tali informazioni sono messe a disposizione in virtù dell’articolo 9 comma 2 del Regolamento del Comitato dei Ministri per la sorveglianza dell’esecuzione delle sentenze e dei termini di conciliazione amichevoli.
Come noto con la sentenza resa dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo nel caso Torreggiani, i giudici di Strasburgo, con la procedura della sentenza pilota, hanno accertato il carattere strutturale della violazione dell’articolo 3 della Convenzione da parte dello Stato Italiano a causa dello strutturale sovraffollamento carcerario e perciò hanno impartito una serie di raccomandazioni ed ordini che si possono sintetizzare così. Primo: adottare misure legislative volte a ridurre il sovraffollamento strutturale e perciò a rispettare il precetto di cui all’articolo 3 della Convenzione europea.
Secondo: istituire un ricorso o un insieme di ricorsi interni effettivi idonei a prevenire i trattamenti inumani e degradanti e ad offrire una riparazione adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcerario, e ciò conformemente ai principi della Convenzione come stabiliti nella giurisprudenza della Corte. Codesto Comitato, chiamato a sorvegliare l’esecuzione delle sentenza della Corte Edu da parte degli Stati aderenti alla Cedu, nel corso del mese di maggio del 2014, decorso l’anno di tempo (dal momento in cui la sentenza è divenuta definitiva) concesso dalla Corte al fine di apprestare i rimedi voluti dai giudici di Strasburgo, ha preso atto degli interventi legislativi adottati dallo Stato Italiano per far fronte alle censure della Corte e ha rinviato di un ulteriore anno la propria valutazione definitiva, al fine di verificare l’effettività dei rimedi e più in generale l’impatto che la nuova normativa ha avuto per la risoluzione dei problemi accertati. Per il tramite delle presenti note, il Movimento Politico Radicali Italiani intende evidenziare quanto segue.
Sovraffollamento e rispetto della Convenzione europea
Lo Stato Italiano lo scorso anno ha presentato a Codesto Comitato una serie di provvedimenti legislativi, adottati o in via di adozione, finalizzati a ridurre il numero delle persone detenute. Sul punto v’è da evidenziare che se per un verso è vero che il numero complessivo della popolazione detenuta è diminuito nel corso dell’ultimo anno, per altro verso è altresì vero che il sovraffollamento carcerario persiste a tutt’oggi, attesa la capienza complessiva degli Istituti presenti sul territorio nazionale, come attestato dai dati forniti dal Ministero della Giustizia. In particolare si evidenzia come per ben 58 Istituti penitenziari si registri ad oggi ancora un sovraffollamento strutturale tra il 130% e il 200% rispetto alla capienza regolamentare degli Istituti. Il dato che precede, tra l’altro, evidenzia come sia a tutt’oggi l’intero sistema carcerario ad essere strutturalmente inadeguato a sostenere il numero della popolazione penitenziaria, residuando sacche di sovraffollamento complessivamente coinvolgenti migliaia di detenuti.
I meriti? Sono della Consulta più che del governo
Ad onore del vero occorre evidenziare come il più incisivo effetto, in termini di calo della popolazione penitenziaria, sia dovuto non all’azione di Governo e legislativa dello Stato Italiano, bensì alla dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 73 della legge 309 del 1990 (la cosiddetta legge Fini-Giovanardi) in materia di sostanze stupefacenti, da parte della Corte Costituzionale italiana.
Difatti il sistema precedente, dichiarato incostituzionale, equiparava – quanto alle pene edittali relative al traffico e/o alla cessione – le droghe pesanti (per esempio eroina e cocaina) a quelle leggere (hashish e marijuana) assegnando per la cessione di tutte le sostanze stupefacenti le stesse pene edittali minime e massime che andavano dai 6 ai 20 anni di reclusione. A seguito della sentenza della Corte Costituzionale numero 32 del 25.02.2014, le pene riguardanti i reati legati alle sostanze stupefacenti leggere sono passate a minimi e massimi edittali racchiusi fra i 2 e i 6 anni. Per effetto, poi, di altre decisioni della Suprema Corte di Cassazione che hanno imposto la rideterminazione della pena per le condanne relative alla cessione di sostanze stupefacenti leggere si è avuto, secondo i dati forniti dal Dap per il 2014, il più ingente calo della popolazione detenuta dall’emanazione dell’indulto del 2006: 8.913 detenuti in meno.
V’è infine da evidenziare come al calo degli indici di sovraffollamento non corrisponda affatto il rispetto del precetto di cui all’articolo 3 della Cedu. La Corte Edu, quanto all’osservanza del precetto di cui all’articolo 3 Cedu, ha più volte evidenziato il necessario rispetto di un requisito minimo consistente nella disponibilità in cella, per la persona privata della libertà, di almeno 3 mq al netto dello spazio occupato dal mobilio (letti, tavolini, ecc.).
La Corte ha chiarito che al di sotto di questo spazio minimo vitale v’è sempre la violazione dell’art. 3 Cedu, senza che vi sia la necessità di andare ad indagare altri parametri. La Corte ha però specificato che qualora lo spazio vitale garantito in detenzione sia superiore ai 3 mq – soprattutto per i casi in cui questo spazio sia comunque inferiore ai 7 mq individuati dal Comitato Europeo per la prevenzione della Tortura e dei Trattamenti Inumani e degradanti come superficie minima da garantire ad ogni persona ristretta – è necessario andare ad indagare altri fattori quali l’aria a disposizione, la luce, le condizioni igieniche della cella, le condizioni di igiene garantite al detenuto, ecc.
Ebbene, nonostante le carceri italiane non garantiscano affatto condizioni igieniche sanitarie decenti e più in generale condizioni di vivibilità appena degne per un essere umano, lo Stato Italiano sul punto è stato totalmente inerte. La circostanza appare assai grave in considerazione del fatto che lo Stato Italiano pur con la popolazione attuale complessivamente detenuta, non può garantire e non garantisce affatto almeno 7 mq per detenuto, cosicché assumono un particolare rilievo gli altri parametri individuati dalla Corte Edu che vengono però semplicemente ignorati dallo Stato Italiano, con l’effetto di determinare la persistente strutturale violazione dell’articolo 3 Cedu attraverso l’esecuzione di pene e misure cautelari tecnicamente “illegali”.
Un riscontro di quanto sopra evidenziato lo si desume dai dati sui suicidi in carcere che, in percentuale alla popolazione detenuta sono addirittura aumentati, se è vero, com’è vero, che nel 2013 sono stati 49, 44 nel 2014 e 15 nei primi 4 mesi del 2015. Riportando questi dati in termini percentuali rispetto al numero complessivo della popolazione penitenziaria si ricava un aumento dei suicidi (in carcere il numero dei suicidi è, in proporzione, venti volte superiore ai suicidi di soggetti liberi): nel 2013, 49 suicidi su una presenza media di 65.070 detenuti equivalgono ad 1 suicidio ogni 1.328 detenuti; nel 2014, 44 suicidi su una presenza media di 57.029 detenuti equivalgono ad 1 suicidio ogni 1.296 detenuti; nel 2015, 15 suicidi nei primi 4 mesi (45 nell’anno se si mantiene il macabro trend) su una presenza media di 53.998 detenuti equivalgono ad 1 suicidio ogni 1.199 detenuti. Probabilmente se il Legislatore Italiano avesse seriamente dato seguito alla sentenza Torreggiani, oltreché al messaggio formale alle Camere indirizzato l’8 ottobre 2013, ai sensi dell’articolo 87 della Costituzione, dall’allora Presidente della Repubblica on. Giorgio Napolitano, ad oggi la situazione sarebbe molto diversa.
In ordine ai rimedi preventivi
Lo Stato Italiano per far fronte alle censure sul punto della Corte Edu ha introdotto l’articolo 35 bis dell’ordinamento penitenziario, titolato “Reclamo giurisdizionale”. La censura della Corte nasceva proprio dalla constatazione dell’assenza nell’ordinamento italiano di uno strumento che permettesse al detenuto di denunciare le condizioni inumane e degradanti vissute nell’attualità nel corso della detenzione.
Occorre ricordare che lo Stato Italiano nell’ambito dell’istruttoria del caso Torreggiani, con memorie ad hoc, aveva garantito alla Corte l’esistenza nel sistema di un rimedio interno che, a giudizio dello Stato Italiano, permetteva già al detenuto di denunciare le condizioni inumane e degradanti vissute nell’attualità nel corso della detenzione. Tale rimedio era, secondo lo Stato Italiano, da individuarsi nell’articolo 35 dell’ordinamento penitenziario, titolato diritto al reclamo.
La Corte, con la sentenza Torreggiani, non accettò la prospettazione del Governo sulla base della constatata ineffettività del rimedio, incapace di porre termine ad una detenzione in atto inumana e degradante, attesa la mancata esecuzione da parte del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria degli ordini impartiti dall’Autorità Giudiziaria competente (magistrato di sorveglianza) ad esaminare il reclamo. Sennonché, occorre evidenziare la circostanza per la quale l’ineffettività del precedente rimedio dipendeva non già dalla volontà del Dap di non eseguire gli ordini impartiti dal magistrato di sorveglianza volti a far cessare la detenzione inumana e degradante, bensì dalla impossibilità, in fatto, atteso il sovraffollamento strutturale, di garantire una detenzione rispettosa del precetto di cui all’articolo 3 Cedu. In altri termini appare evidente come l’effettività del rimedio giurisdizionale dipende dalla possibilità materiale che il sistema penitenziario, amministrato dal Dap, ha di dare risposte positive rispetto all’ordine impartito dal magistrato”.
Per tutto quanto già evidenziato nel paragrafo che precede e relativo al persistente dato di sovraffollamento strutturale e alla strutturale incapacità del sistema penitenziario italiano di garantire l’esecuzione di pene e misure cautelari in carcere in linea con il dettato di cui all’articolo 3 Cedu, anche il rimedio introdotto con l’articolo 35 bis dell’ordinamento penitenziario, indipendentemente dal fatto che sia stato qualificato come rimedio giurisdizionale, si caratterizza a tutt’oggi per essere un rimedio incapace di garantire e prevenire trattamenti inumani e degradanti e perciò per essere un rimedio non effettivo.
In ordine ai rimedi risarcitori
Lo Stato Italiano per far fronte alle censure sul punto della Corte Edu ha introdotto l’articolo 35 ter dell’ordinamento penitenziario, titolato “Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3 della Cedu”. La censura della Corte nasceva proprio dalla constatazione dell’assenza nell’ordinamento italiano di uno strumento che permettesse al detenuto di essere risarcito per essere stato e/o essere sottoposto ad una detenzione in violazione dell’articolo 3 Cedu. Anche per tale strumento con la presente si denuncia la incontrovertibile ineffettività del rimedio, in particolar modo per i soggetti detenuti.
Secondo il dettato dell’articolo 35 ter dell’Ordinamento Penitenziario, in estrema sintesi: a) la persona sottoposta nell’attualità alla detenzione dovrebbe attivare il rimedio davanti al magistrato di sorveglianza; b) la persona non più in stato di detenzione dovrebbe rivolgersi al Tribunale Civile. Indipendentemente dal merito del provvedimento legislativo – a forte sospetto di incostituzionalità nel momento in cui va a pre-determinare l’entità del risarcimento nella misura di 8 euro al giorno, per tutti ed indipendentemente da una valutazione da compiersi per ciascun caso – ciò che in questa sede va sottolineato è la totale disapplicazione dell’istituto da parte della quasi totalità dei magistrati di sorveglianza.
Ad oggi, difatti, i dati forniti dall’Unione delle Camere Penali Italiane (l’organismo rappresentativo a livello nazionale degli avvocati penalisti italiani), elaborati sulla base dei dati localmente forniti dai Presidenti e dai Referenti delle Camere Penali territoriali dislocate su tutto il territorio nazionale, evidenziano il radicale fallimento del nuovo strumento. L’indagine elaborata dall’Ucpi sulle istanze depositate al 27 novembre 2014, è lapidaria: istanze iscritte 18.104, definite 7.351, pendenti 10.753. Delle definite ne sono state dichiarate inammissibili 6.395 (87%) ed accolte solo 87 (1,2%). Ciò in totale spregio delle chiare prescrizioni fornite dalla Corte Edu con la sentenza pilota Torreggiani, che aveva intimato allo Stato Italiano di apprestare rimedi risarcitori effettivi, rapidi ed efficaci.
Perché il decreto sugli “8 euro” non viene applicato
Quanto sopra, in particolar modo il clamoroso dato sulla inammissibilità dell’87% dei ricorsi, è maturato sulla base di un orientamento interpretativo sin da subito sposato dalla grande maggioranza dei magistrati di sorveglianza, che trova la sua origine in un pessimo drafting normativo. Vero è, in ogni caso, che tra più possibili interpretazioni della norma di cui al nuovo articolo 35 ter, la magistratura di sorveglianza, in modo compatto, ha scelto l’interpretazione meno garantista dei diritti dei detenuti e perciò meno in linea con quanto richiesto dalla Corte Edu. Sul punto sono state depositate due interrogazioni parlamentari, una dal Vice Presidente della Camera on. Roberto Giachetti, della maggioranza di Governo, ed un’altra dall’on. Saverio Romano, dell’opposizione.
In entrambe le interrogazioni i parlamentari interroganti hanno chiesto al Governo di intervenire con una interpretazione autentica della norma, ma il Governo, rispondendo all’atto parlamentare dell’on. Romano, per mezzo del Vice Ministro della Giustizia Enrico Costa, si è riservato di farlo in seguito.
In realtà dalla risposta del Governo si evince quale sia il maggior problema del nuovo istituto, problema espresso formalmente anche dal Conams (Coordinamento Nazionale Magistrati di Sorveglianza) con una nota inviata al Ministro della Giustizia già nel Novembre 2014.
Nella nota, i magistrati evidenziano di non essere affatto attrezzati per poter far fronte alle nuove competenze denunciando che “a causa delle incertezze e lacune del testo normativo, dei gravi contrasti giurisprudenziali, della complessità delle istruttorie e della assoluta inadeguatezza delle risorse e dei mezzi di cui dispongono gli Uffici di sorveglianza preposti, è facile prevedere che sarà molto esiguo il numero dei casi decisi e risolti secondo gli standard prescritti dalla Giustizia europea in termini di effettività, rapidità ed efficacia dei rimedi accordati”. Sono parole pesantissime poiché provengono dagli stessi soggetti chiamati nell’ordinamento Italiano ad assicurare gli standard pretesi dalla Corte Edu con la sentenza pilota Torreggiani.
Conclusioni
Alla luce di tutto quanto sopra, pertanto, appare evidente come lo sforzo compiuto dallo Stato Italiano per far fronte ai richiami della Corte Edu, e compendiatosi nei provvedimenti legislativi presentati dal Governo lo scorso anno anche a Codesto Comitato – deputato a sorvegliare sulla corretta esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo da parte degli Stati contraenti – sia risultato ad un anno di distanza del tutto inadeguato, incapace di garantire preventivamente il rispetto dell’articolo 3 Cedu, oltreché di garantire un adeguato, effettivo e rapido ristoro dei danni patiti dalle decine di migliaia di detenuti che ingiustamente sono stati sottoposti a pene, misure e trattamenti inumani e degradanti. Tanto si mette a disposizione di Codesto Comitato per le determinazioni che lo stesso vorrà assumere in relazione alle proprie competenze istituzionali.
*Documento preparato in collaborazione con Giuseppe Rossodivita, Segretario del Comitato radicale per la Giustizia “Piero Calamandrei”
Rita Bernardini, Segretaria di Radicali Italiani
Il Garantista, 8 maggio 2015
Intervista all’Avv. Giuseppe Rossodivita, Segretario del Comitato Radicale “Piero Calamandrei”