La scarcerazione non può essere condizionata alla disponibilità del braccialetto elettronico


Corte di cassazione1Non si può subordinare la scarcerazione di un imputato, considerato “adatto” ai domiciliari, alla disponibilità del braccialetto elettronico. Con un netto cambio di rotta la Corte di cassazione (sentenza 35571, depositata ieri), dispone l’immediata scarcerazione di un detenuto, al quale il Tribunale della libertà aveva revocato il carcere sostituendolo con la misura meno afflittiva, condizionandola però all’applicazione della “cavigliera”. Un paletto non di poco conto visto che l’imputato doveva restare in carcere “fino all’avvenuta positiva verifica delle condizione per l’installazione”.

Il ricorrente si era venuto a trovare, dunque, nella situazione vissuta da migliaia di detenuti in “lista d’attesa” per ottenere il dispositivo elettronico che apre le porte del carcere. Inutilmente, visto che i braccialetti, messi a disposizione dal ministero dell’Interno, non bastano. L’Osservatorio carceri dell’Unione camere penali aveva sollevato il problema denunciando l’illegale detenzione di chi, pur avendo ottenuto i domiciliari deve restare in cella per la carenza del mezzi di controllo. Secondo i penalisti condizionare i domiciliari alla disponibilità del dispositivo elettronico è incostituzionale, perché comporta una disparità di trattamento tra persone che si trovano nella stessa situazione: solo chi è arrivato prima dell’esaurimento scorte ha potuto lasciare il carcere. Molti i ricorsi, fondati sullo stesso argomento, finiti in Cassazione. Ma la Suprema corte, fino a ieri, li aveva sempre respinti. L’ultima sentenza con la quale i giudici di piazza Cavour avevano negato i domiciliari è del 9 gennaio scorso. Nel ricorso, oltre a eccepire il contrasto con la Carta, si faceva presente che la fruizione di una maggiore libertà non poteva dipendere dalle esigenze di spesa della Pubblica amministrazione.

La Suprema corte aveva però sottolineato che, secondo la costante giurisprudenza, con il braccialetto elettronico non è stata introdotta una nuova misura coercitiva ma solo “una mera modalità di esecuzione di una misura cautelare personale”. Il braccialetto – chiarivano i giudici – rappresenta una cautela che il giudice può adottare per valutare la capacità dell’indagato di autolimitare la sua libertà di movimento e non certo per rafforzare il divieto di non allontanarsi dalla propria abitazione. Nel vecchio corso la Cassazione aveva affermato che il rigetto della richiesta di concessione dei domiciliari, motivato dalla mancanza del dispositivo, non viola la Costituzione perché “l’impossibilità della concessione degli arresti domiciliari senza braccialetto dipende pur sempre dall’intensità delle esigenze cautelari, comunque ascrivibile alla persona dell’indagato”. Inoltre, non si può pretendere che lo Stato predisponga un numero indeterminato di braccialetti pari a quello dei detenuti per i quali può essere utilizzato.

Ieri, però, la Suprema corte ha invertito la rotta, precisando che del braccialetto si può anche fare a meno. Una conclusione raggiunta partendo proprio dal ragionamento con il quale in passato era stata affermata la necessità del dispositivo e del quale ora si sottolinea un’anomalia: se il giudice decide di adottare il mezzo elettronico, consapevole che non è una misura coercitiva ulteriore e non serve a evitare la “fuga” ma solo a “testare” la capacità dell’imputato di autolimitarsi, assumendo l’impegno di installare il braccialetto, allora vuol dire che a suo giudizio le esigenze cautelari possono essere soddisfatte anche con misure diverse dal carcere. È dunque già superata la presunzione per la quale, basandosi sul reato, il carcere era stato considerato una cautela ragionevole. Per questo la Cassazione ordina l’immediata scarcerazione del ricorrente, con una sentenza probabilmente destinata a fare da apripista per migliaia di richieste di scarcerazione.

Da un’indagine sul territorio dell’Osservatorio carceri delle Camere penali, coordinato dall’avvocato Riccardo Polidoro, risulta, infatti, che le soluzioni indicate dall’Autorità giudiziaria sono diverse: la via più percorsa era, almeno fino a ieri, il mantenimento in carcere.

Patrizia Maciocchi

Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2015

Corte di Cassazione, Sezione IV, Sent. n. 35571 del 25/08/2015

Quintieri : La mia odissea, in cella per false accuse. Il Garantista


Emilio Quintieri - Luigi MazzottaPiù volte mi è stato chiesto di raccontare la mia “esperienza carceraria” ma, fino ad ora, ho sempre evitato perché ripercorrere con la mente certi momenti non è affatto facile e, peggio ancora, quando li si deve rendere pubblici. Credo, però, che certi fatti non debbano passare inosservati per cui, ho accettato di raccontare la mia storia a “Il Garantista”. Da anni svolgo attività politica con la Federazione dei Verdi ed ultimamente con i Radicali, mi sono occupato – e mi occupo -problemi legati al carcere, anche accompagnando parlamentari negli istituti penitenziari durante le ispezioni, per fargli rendere conto delle condizioni degradanti di detenzione sanzionate dalla Corte Europea dei Diritti Umani. Alla luce di questo mio impegno, ho anche accettato alle ultime elezioni la candidatura nella Circoscrizione della Calabria, con la Lista Radicale “Amnistia, Giustizia e Libertà”. La mia vicenda ha inizio proprio pochi giorni prima delle elezioni, il 13 febbraio del 2013, quando alle 5 del mattino, in esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare disposta dal gip del tribunale di Paola nell’ambito dell’Operazione Antidroga “Scacco Matto”, vengo arrestato dai carabinieri e condotto presso la casa circondariale di Paola insieme ad altre persone. Mi veniva contestato di aver detenuto illecitamente ed occultato, negli anni precedenti, quantità imprecisate di cocaina e marijuana e di averla ceduta a terzi. Unici elementi di prova nei miei confronti, raccolti in sede di indagine, le dichiarazioni rese ai carabinieri da alcuni soggetti tossicodipendenti che mi accusavano di avergli ceduto, in più occasioni e dietro pagamento, piccole quantità di droga. Contrariamente agli altri indagati, in sede di interrogatorio di garanzia, ho scelto di non fare “scena muta”, ho risposto alle domande del giudice, rifiutandomi di rispondere a quelle che ritenevo potessero fornire elementi suscettibili di provare la responsabilità di terzi. Le mie spiegazioni non vennero ritenute credibili e, per il rifiuto da me opposto, il giudice respinse l’istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare. Mi sono dunque rivolto al Tribunale del Riesame di Catanzaro che però ha rigettato la richiesta, sostenendo che dovessi restare in carcere perché esistevano diverse intercettazioni telefoniche ed ambientali svolte dagli inquirenti il cui contenuto appariva esplicito ed univoco, nonché attività di riscontro, di osservazione e pedinamento. Non riuscivo a crederci. Dopo qualche mese, il pm otteneva il giudizio immediato per tutti i reati contestati. Io scelsi di seguire il rito ordinario ritenendo di poter essere prosciolto da ogni accusa. La prima udienza, fissata per il 10 luglio, veniva rinviata al 2 ottobre per lo sciopero – giusto – degli avvocati. Così sono tornato in cella. Ma la situazione per me si faceva ogni giorno più insopportabile, anche per i continui contrasti con la direzione dell’istituto. Così analizzati tutti gli atti processuali, ho chiesto di essere scarcerato contestando anche quanto inspiegabilmente riportato nell’ordinanza dai giudici del Riesame rispetto all’esistenza di intercettazioni o riscontri da parte degli investigatori che confermassero l’attività delittuosa ipotizzata. Niente da fare! Nel frattempo, dopo ripetuti procedimenti disciplinari, sono stato trasferito nel carcere di Cosenza e dopo un breve periodo, trascorso anche in regime di isolamento, mi sono stati concessi gli arresti domiciliari in un paesino di montagna, lontano dalla mia città. Alla prima udienza utile, ho presentato personalmente una questione di legittimità costituzionale sulla famigerata Legge Fini-Giovanardi. Successivamente, alla ripresa del processo, ho depositato la sentenza della Corte Costituzionale che accoglieva le stesse questioni di costituzionalità che altre autorità giudiziarie avevano sollevato. Nelle scorse udienze sono stati sentiti gli Ufficiali dell’Arma dei Carabinieri che hanno svolto le indagini. Hanno affermato di non aver mai documentato alcuna attività di detenzione o cessione di stupefacenti da parte mia, che non sono mai state effettuate sul mio conto intercettazioni telefoniche ed ambientali e che l’arresto era scaturito solo per via delle dichiarazioni rilasciate dai tossicodipendenti. Precisavano, infine, che nell’ambito dell’inchiesta, erano emersi solo dei miei contatti con alcuni degli altri indagati di natura esclusivamente amichevole. Nulla a che fare con lo spaccio di droga! Inoltre qualcuno tra i miei accusatori ha ammesso di essersi inventato tutto, “pressato” dai carabinieri. Il processo intanto è ancora in corso. Se ne riparlerà ad ottobre. Mi domando: è mai possibile che in uno Stato di diritto una persona venga arrestata e portata in carcere solo sulla base di qualche dichiarazione, priva di qualsivoglia riscontro, perché sospettata di aver detenuto e poi ceduto qualche dose di droga? È mai possibile che si possa restare in “carcerazione preventiva” ed in attesa di giudizio tanto tempo?

Emilio Quintieri

Il Garantista, 27 Giugno 2014

Appalti per le carceri, indagato il commissario straordinario Sinesio


Appalti per le carceri, indagato il commissario straordinario SinesioCorruzione legata ad appalti per lavori di ristrutturazione in alcuni carceri. E’ questa l’accusa formulata dalla Procura di Roma nei confronti di nove persone e che ha portato a perquisizioni da parte del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Tra le persone coinvolte c’è il commissario straordinario al piano carceri Angelo Sinesio, accusato di falso e abuso d’ufficio: i pm ritengono che nell’assegnazione delle gare d’appalto Sinesio abbia compiuto irregolarità anticipando le gare stesse e impedendo che a queste potessero partecipare altre ditte oltre a quelle prescelte. Un’altra contestazione è quella d’aver fatto in modo che il valore delle gare non superasse i 5 mln di euro. In tal modo attraverso questo limite fu possibile superare la normativa europea che consente così di affidare i lavori a più di un’impresa. A carico di Sinesio è ipotizzato anche il reato di falso perché avrebbe ‘truccato’ le carte rispetto a un decreto per rifunzionalizzazione del carcere di Arghillà a Reggio Calabria.

Le indagini, coordinate dai pm Paolo Ielo e Mario Palazzi, si concentrano, in particolare, ad accertare eventuali illeciti nel lavori effettuati presso le carceri di Voghera, Lodi e Frosinone.

Le indagini sono partite da un dossier firmato da Alfonso Sabella, già pm antimafia a Palermo e funzionario al ministero della Giustizia, che contestò il piano carceri, presentato da Sinesio alla Camera il 21 novembre 2013, parlando di anomalie, costi gonfiati e dati alterati. La parte dell’inchiesta legata all’ipotesi di corruzione è invece legata a un esposto-denuncia del ministro della Giustizia Andrea Orlando.

In merito al dossier di Alfonso Sabella, il commissario straordinario Angelo Sinesio, sarebbe accusato anche di diffamazione in relazione a quanto dichiarato nell’audizione dell’ottobre 2013 davanti alla commissione Giustizia della Camera durante la quale presentò il piano. In quell’occasione, questa la contestazione, Sinesio avrebbe accusato “ingiustamente di incapacità ed inefficienza Alfonso Sabella”, all’epoca direttore generale delle risorse materiali al Dap. Sinesio avrebbe anche fornito “dati non veritieri, così da offendere” la reputazione dell’ex magistrato.

La Repubblica, 20 Giugno 2014

Cagliari: detenuto al Buoncammino tenta il suicidio, salvato dagli agenti ma è gravissimo


carcere5Un detenuto con problemi psichici ha tentato il suicidio ieri sera nel Carcere cagliaritano di Buoncammino ed è stato salvato dagli agenti della Polizia Penitenziaria.

L’episodio è avvenuto in serata. Ne dà notizia il coordinatore della Uil penitenziaria di Cagliari, Marco Sanna. L’intervento degli agenti è stato immediato, ma la situazione era gravissima: è arrivato il personale medico del 118 che ha portato il detenuto italiano in ambulanza in uno degli ospedali cagliaritani. L’uomo è ricoverato in gravissime condizioni in rianimazione.

“La tempestività e la grande capacità operativa degli agenti in servizio, ha scongiurato un epilogo tragico per il detenuto che soffre di problemi psichiatrici, così come altri, troppi, detenuti di Buoncammino”, spiega Marco Sanna. “La Uil ha sollecitato i vertici ministeriali e del dipartimento affinché trovino istituti idonei per i detenuti che soffrono di gravi patologie mentali”.

L’Unione Sarda, 5 giugno 2014

Livorno: Marcello Lonzi morì in carcere a 29 anni, chiesta l’archiviazione per tre Medici


lonzi 2L’indagine tris sul decesso di Marcello Lonzi è partita da un esposto della madre: è stato picchiato, altro che malore. Il giudice si è riservato.

Marcellino Lonzi aveva 29 anni quando venne trovato morto nella sua cella del carcere di Livorno, era l’11 luglio 2003. A distanza di quasi 11 anni, dopo due inchieste già archiviate, mercoledì mattina è andato in scena l’ennesimo capitolo della battaglia della madre del ragazzo, Maria Ciuffi, di convincere la giustizia a prendere in considerazione un’ipotesi diversa da quella del malore per spiegare il decesso del figlio.

Davanti al giudice Beatrice Dani è andata in scena l’udienza nella quale il legale della donna, l’avvocato Erminia Donnarumma, ha presentato opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero Antonio Di Pugno in seguito all’esposto firmato dalla madre della vittima nell’ottobre 2013.

Al centro della denuncia compaiono i due medici del carcere che tentarono invano di rianimare Lonzi, Enrico Martellini e Gaspare Orlando, e il medico legale Alessandro Bassi Luciani che ha effettuato l’autopsia sul corpo del detenuto.

L’accusa nei confronti dei tre, per i quali è stato ipotizzato il concorso in omicidio colposo, è quello di non avere “svolto bene il loro dovere”.

Alla querela contro l’anatomopatologo e i medici in servizio all’epoca dei fatti presso l’infermeria del carcere, erano stata allegati ampi stralci della relazione medico legale eseguita dal consulente nominato dalla procura, quando fu riesumata la salma del giovane per effettuare una nuova autopsia, nella quale si evidenziavano “condotte non idonee”. Si rileva inoltre, nella denuncia, la presenza nella parte addominale del cadavere di numerose fratture non evidenziate prima, “l’infossamento corticale dell’osso di 2 millimetri in corrispondenza di una ferita lacero contusa all’arcata sopracciliare non compatibile con morte naturale”.

Un quadro che non ha però convinto il pubblico ministero Antonio Di Bugno a chiedere il rinvio a giudizio nei confronti dei tre indagati.

“L’ipotesi del concorso in omicidio colposo – spiega fuori dall’aula l’avvocato Alberto Uccelli, che difende Bassi Luciani – non è assolutamente plausibile”.

Dopo aver ascoltato tutte le parti, il giudice al termine dell’udienza si è riservato e la decisione è attesa nei prossimi giorni. Se anche questa inchiesta dovesse essere archiviata sarebbe molto probabilmente la fine del caso Lonzi. “Basta vedere queste foto – spiega la madre del ragazzo sfogliando il raccoglitore che porta con sé – per capire che mio figlio non è stato ucciso da un infarto ma è stato picchiato e lasciato morire”.

di Federico Lazzotti

Il Tirreno, 5 giugno 2014

Carceri, Ancona : detenuto si uccide impiccandosi, un altro ingerisce varechina e viene salvato


Carcere di AnconaUn suicidio portato a termine e uno tentato. È il drammatico bilancio di una giornata nera per il carcere di Montacuto. Un detenuto è morto impiccato nella sua cella intorno alle 14 e 30. Si tratta di Giovanni Aireti, 64 anni, originario di Frosinone ma da tempo residente a Civitanova Marche. Era detenuto dal 13 gennaio scorso con l’accusa di tentato omicidio, per aver accoltellato al culmine di una lite domestica a Civitanova Alta la moglie Daniela Martini, ferita a una scapola, a un ginocchio e a una mano. Per soccorrere il detenuto è accorsa un’ambulanza della Croce Rossa, ma non c’era nulla da fare.

In mattinata un altro recluso della casa circondariale aveva tentato il suicidio. Attorno alle 10,30 un tunisino di 21 anni ha tentato il suicidio.Da una prima ricostruzione il giovane avrebbe ingerito della varechina assieme alle lamette da barba. Prontamente soccorso dal personale della Polizia Penitenziaria il detenuto è stato trasferito in infermeria. Nel frattempo la direzione del carcere aveva provveduto ad allertare la centrale operativa del 118. In carcere sono arrivati l’automedica e un mezzo della Croce Gialla di Ancona.

Le condizioni di salute del detenuto sono apparse subito gravi. Immediato il trasferimento al Pronto soccorso dell’ospedale regionale di Torrette. Sottoposto ad una serie di accertamenti il giovane è stato ricoverato in ospedale. A preoccupare i medici non tanto le lamette ingerite, ma la quantità di varechina che il ragazzo ha ingerito in quei drammatici momenti quando ha tentato il suicidio. Ipoclorito di sodio che potrebbe aver causato delle lesioni irreversibili alle mucose della bocca e dell’esofago. Solo nelle prossime ore i medici saranno in grado di valutare le reali condizioni del detenuto.

Corriere Adriatico, 27 maggio 2014

Livorno: morte del detenuto Lonzi, si discute il rinvio a giudizio dei Sanitari del Carcere


Marcello LonziL’uomo morì in una pozza di sangue nel penitenziario di Livorno. Il caso fu archiviato due volte, ma la madre non ha mai smesso di chiedere giustizia, denunciando per falso i medici

Potrebbero riaprirsi le indagini sulle ultime ore di Marcello Lonzi, il ragazzo di 29 anni morto in una pozza di sangue, il corpo martoriato, nel carcere Le Sughere di Livorno, l’11 luglio del 2003. Secondo la giustizia italiana, che ha archiviato il caso per ben due volte, il decesso fu dovuto a “un forte infarto”, come ha affermato il Gip della Procura di Livorno Rinaldo Merani. Che ha aggiunto: “Non ci sono responsabilità di pestaggio del detenuto Marcello Lonzi, né da parte della polizia penitenziaria, né di terzi”.

Non ci ha mai voluto credere la madre Maria Ciuffi. Che un anno fa ha sporto denuncia per falso nei confronti del medico legale che effettuò la prima autopsia e dei due medici del carcere. Al telefono con l’Espresso, la donna afferma: “Il medico legale scrisse che Marcello aveva 2 costole rotte, mentre con la riesumazione ne furono trovate 8. Non scrisse che il polso sinistro era rotto, né della vernice refertata in uno dei due buchi che ha in testa Marcello”.

Marcello Lonzi 1Secondo Ciuffi, anche i due medici legali avrebbero detto il falso. “Scrissero – spiega la donna – che era morto entro le 20:14, mentre il mio perito, il professor Alberto Bellocco, disse che era morto tra le ore 15 e le 17:10 al massimo. Adesso, con elementi nuovi, il caso potrebbe essere riaperto”. Così, sul suo profilo Facebook, Maria Ciuffi ieri ha annunciato che il suo legale, l’avv. Erminia Donnarumma, ha ricevuto una notifica del gip di Livorno. “Il 4 giugno – si legge su Facebook – si discuterà per il rinvio a giudizio dei due medici del carcere e il medico legale Luciani Bassi”. E ha commentato così: “Una buona notizia, che sono scoppiata a piangere dalla gioia”.

di Ilaria Lonigro

L’Espresso, 16 maggio 2014