Spes contra spem, Capozzoli : La cultura vince su tutti i fronti, anche contro la Mafia


giancarlo-capozzoliSpes contra spem è il docufilm presentato all’ ultima mostra del cinema di Venezia, prodotto in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, Indexway e Radio Radicale e girato dal regista Ambrogio Crespi.

E’ un documentario sulle storie di criminali, mafiosi e camorristi, privati della libertà personale presso il carcere di Opera, ma è sopratutto un documentario sulla speranza di queste persone di immaginare ancora il proprio futuro, fuori dalle mura del carcere.

Sulla speranza di loro, intervistati, che sono condannati all’ ergastolo ostativo.

L’ ergastolo è ostativo quando sono negati i benefici e le misure alternative previste dagli articoli 17 e 22 del codice penale.

Possibilità prevista dall’ Art. 4 dell’ Ordinamento Penitenziario, “Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti”.

Un ergastolano, lo scrittore Musumeci, ha lanciato una campagna per raccogliere firme a favore di una proposta di iniziativa popolare per l’ abolizione di questo ergastolo, in virtù di quanto prescritto dall’ art. 27 della Costituzione Italiana che prevede la rieducazione del condannato come fine ultimo della pena e vieta trattamenti contrari al senso di umanità, proposta rilanciata dalla Associazione A buon diritto.

Questo docufilm prende il titolo dal VI Congresso di Nessuno tocchi Caino, tenuto nel carcere di Opera, a Milano, e il titolo è tratto dalle parole della Lettera di San Paolo ai Romani su Abramo che “ebbe fede sperando contro ogni speranza”.

Protagonisti sono i detenuti che hanno aderito a questo progetto, nove in tutto. Di età diversa. Entrati in carcere giovanissimi, sbarbati. E in carcere poi diventati anche nonni. Sono giovani nonni…

Il regista sembra che non abbia voluto sapere nulla dei reati commessi, per non essere condizionato. “Sapevo che erano persone che avevano commesso reati molto gravi, ma poco altro”.

Io preferisco chiedere invece direttamente alle persone con cui lavoro all’ interno della Casa Circondariale di Rebibbia dei loro reati proprio per abbattere questi muri….

Questa proiezione è comunque stata una esperienza straordinaria anche grazie all’ intervento del Ministro della Giustizia Orlando il quale è seriamente sensibile al tema delle carceri. Se da un lato, infatti, il docufilm, vuole fare emergere le problematiche legate alla questione dell’ ergastolo ostativo, da un altro lato vuole “semplicemente” affrontare e affronta in maniera diretta il problema delle carceri in Italia.

C’è da dire che il carcere di Opera sta diventando davvero un modello, nonostante sia un carcere di Alta Sicurezza. Ma grazie soprattutto all’ opera del Direttore Siciliano sta cambiando sostanzialmente a partire dal rapporto assistenti-detenuti.

Quello che voglio dire è che è in atto una vera trasformazione culturale, messa in atto dal Direttore. Se generalmente il rapporto “guardie”- detenuti è un rapporto basato sulla reciproca diffidenza, oggi, ad Opera, si tenta quantomeno un approccio culturale diverso, che sta portando e in parte ha già portato ad un cambiamento radicale nel rapporto tra queste due figure apparentemente incompatibili. Alla diffidenza sostanziale e solita, si è sostituito lo scambio, la confidenza.

Questo approccio diverso ha condotto ad una cultura diversa nei confronti del detenuto, grazie soprattutto al dialogo.

Il Direttore si è speso e continua ad impegnarsi affinchè questo cambiamento in atto sia soltanto l’ inizio di un cambiamento reale.

Cambiamento che è accaduto già nel detenuto stesso.

Il detenuto è cambiato, ha abbandonato per così dire, la sua parte “nera”, per usare le parole del regista, in vista un effettivo ritorno alla vita. Gli assistenti/ guardie devono, nell’ ottica del Direttore, contribuire a questo cambiamento sostanziale e reale. Ma non è semplice.

Una persona privata della sua libertà è inevitabilmente “duro”, rigido. E lo è anche per quella che è stata la sua condotta precedente, la sua vita precedente.

Questo è l’aspetto davvero fondamentale in vista della rieducazione prevista e sancita dalla Costituzione.

Nel Carcere di Opera il detenuto è davvero cambiato a partire da questa relazione altra con gli assistenti.

Oggi c’è confidenza, e i detenuti sono orgogliosi di confidarsi con loro. Confidarsi nel senso proprio di confidenza, consigli che chiedono agli assistenti stessi.

Questo emerge dalla visione stessa del docufilm.

E’ un aspetto decisivo, come si diceva, ed è la svolta che ci si aspetta da un mondo chiuso come quello dello carcere.

E’ l’ unico modo anche, ed è questa l’ idea di Crespi, per riportare effettivamente nella legalità, chi ha vissuto ai margini della società.

Il pericolo, altrimenti, è rendere ancora più pericoloso chi lo era già prima di entrare in carcere.

Pertanto la Cultura vince su tutti i fronti, intanto come unico argine contro la Mafia.

Concretamente.

Ed inoltre questo nostro docufilm  lascia emergere un altro aspetto che mi sembra molto importante anche: sono i detenuti stessi che letteralmente smontano, distruggono con le loro parole, con il loro vissuto raccontando, esponendo, anche con la loro speranza di altro, di una vita diversa, il mito del criminale stesso.

È un aspetto determinante. Chi come noi racconta queste storie ne coglie appieno l’ importanza.

Il rischio è che i giovani delle periferie degradate e dimenticate, con poca o nessuna cultura, che non hanno accesso al sapere e allo studio, prendano i criminali come”modello”.

Esattamente.

Mi sembra essenziale che, grazie all’ arte, al cinema e alla cultura in generale, si possono fare dei passaggi sostanziali in vista di un reale ripensamento del sè e di reale conoscenza di se stessi, che apre nuove strade e porta ad un allontanamento vero dal rischio di emulazione della criminalità.

Le persone protagoniste del docufilm sono “pentiti dell’ anima”. Non si pongono come modelli per i ragazzi “fuori”, tutt’altro.

Non pongono più dei modelli criminali.

L’ arte, la Cultura, il cinema e anche questo docu sono “un grande lenzuolo bianco contro la Mafia” parole che Melillo, capo gabinetto del Ministro Orlando ha usato proprio per dire di questo film.

Raccontare queste storie dicevo.

Storie negative.

I detenuti che raccontano nel film, raccontano degli sbagli fatti, di non sapere cosa sia la felicità.

E’ facilmente comprensibile come queste parole pronunciate da un detenuto abbiano una forza dirompente. Ma mostrano anche l’ aspirazione e la speranza verso un cambiamento reale e profondo nella società stessa.

E’ un film in questo senso educativo che potrebbe essere proiettato anche nelle scuole.

Anche se credo non sia semplice.

Non si vuole sentire parlare di carcere e di detenuti. Ma quest’ opera ha cercato di dimostrare invece che una svolta, un cambiamento reale e radicale è possibile e concreto.

Cambiamento che è il primo obiettivo dell’ Arte e della Cultura.

La cultura o porta a un radicale mutamento o non è cultura.

Riuscire a intervenire a livello culturale al fine di riuscire a cambiare i giovani, e proporre modelli culturali differenti  è un bel cambiandoti culturale anche da parte di chi progetta cultura.

É quello che tento di fare anche io con i miei laboratori integrati con i giovani studenti della facoltà di lettere e filosofia di Tor Vergata, a Roma, e i “ragazzi” reclusi presso la Casa Circondariale…

Il cinema, il teatro servono a cambiare. Assolutamente.

Noi siamo In questo senso responsabili, abbiamo il diritto e il dovere di mostrare ai giovani che esistono possibilità altre.

É l’ unico modo in cui la criminalità può essere efficacemente combattuta e marginalizzata.

É una bella scommessa.

Ma sono convinto, anche dopo aver visto questo progetto, che chi è cambiato deve poter aiutare gli altri. E non marcire in galera ad aspettare che il tempo passi.

Spes contra spem è un progetto che si radica nella storia e nella esperienza di Nessuno tocchi e dei Radicali in generale.

Ecco, Pannella è presente nel film.

E’ nel film la lettera ultima che il leader radicale ha scritto a Papa Francesco sul tema delle carceri.

L’ impegno dei Radicali in favore dei diritti dei detenuti è ben importante. All’ inizio di settembre si è tenuto il congresso straordinario all’ interno della Casa Circondariale di Rebibbia.

La scena nel docufilm è essenziale, sacra quasi.

Una cella illuminata da quattro luci, Quasi a ricreare una sacralità che in un luogo del genere, è ben davvero difficile da trovare.

I detenuti, nell’aprirsi, nel raccontarsi, si sono commossi, mi confida il regista.

Erano, sono sinceri davvero.

Distruggere la figura del criminale, è andare anche contro loro stessi, contro il loro essere stati criminali, contro l’ aver creduto in certi valori o dis-valori piuttosto che in altri.

Raccontano del loro vissuto recluso, delle loro sensazioni, emozioni.

Si sono lasciati andare.

Quando iniziano a parlare sembra che non smetteranno più.

Sono perlopiù ragazzi/uomini ai limiti dell’ analfabetismo.

Se la Cultura è davvero uno degli aspetti più importanti rispetto all’ animo, allo spirito di una persona, lo è anche e soprattutto dove è del tutto assente.

In carcere molti, quasi tutti, hanno una cultura davvero basilare. Minima.

La cultura serve a combattere sia all’ interno del mondo penitenziario, sia e soprattutto fuori, per contrastare combattere e sconfiggere i fenomeni mafiosi, la criminalità.

Dopo Cesare deve morire dei fratelli Taviani, questo tuo docufilm sul carcere. Che è un modo dal mio punto di vista di sensibilizzare la società civile rispetto ad un mondo altrimenti chiuso e dimenticato.

Questo tipo di opere serva a porre una luce diversa su un mondo che viene raccontato sempre e solo in “negativo”. Si parla di carcere solo quando un detenuto è evaso, o solo quando un detenuto è picchiato.

Questo film ne racconta in maniera positiva.

Un detenuto non è un criminale.

Se il film dei Taviani rappresenta esattamente la risposta culturale contro la criminalità stessa, questo docufilm dà voce alle loro parole.

Parole che hanno un effetto micidiale in questo racconto.

Tirare fuori un criminale in meno, è questa l’ intenzione di chi realizza progetti importanti come questo.

Giancarlo Capozzoli *

*Giornalista, regista e scrittore teatrale

Caso Tortora, Il Pm Di Persia da al collega Marmo del “pentito”. Un’occasione persa per tacere !


Enzo TortoraAnche lui da molti anni non parlava della condanna inflitta a Enzo Tortora. E che Felice Di Persia abbia voluto rompere il lungo riserbo sulla vicenda, è un dato che andrebbe accolto con favore. Non fosse che l’intervista rilasciata alVelino è un’occasione perduta. Allora titolare, insieme con Lucio Di Pietro, dell’inchiesta che portò Tortora alla sbarra, Di Persia avrebbe potuto fare ammenda per un’inchiesta che portò al più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana. Ferma la buona fede, la toga avrebbe potuto chiarire anche lui perché senza prove di bonifici, controlli bancari, pedinamenti e intercettazioni montò un castello di carte che fece finire in gattabuia il presentatore di Portobello sulla base delle dichiarazioni di pentiti farlocchi che sono costate la vita, a detta di Francesca Scopelliti, ma senza lo stupore di nessuno, a quel galantuomo di Enzo Tortora. Ma l’unico pentito verso il quale l’ex magistrato sembra puntare il dito è invece Diego Marmo.

«Ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che si è pentito con trent’anni di ritardo», chiosa Di Persia.  Ma nell’intervista che l’ex procuratore di Torre Annunziata ha dato al Garantista, è palese che sono solo ed esclusivamente le scuse ad essere arrivate in ritardo di trent’anni. “Il rammarico – ha spiegato l’ex pm al nostro giornale – c’era da tempo”.  Felice Di Persia, però, concede a Marmo il lusso di una seconda ipotesi accusatoria. «Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna – continua Di Persia – doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve autocancellarsi dalla vita sociale”. ”Autocancellarsi dalla vita sociale”, dice Di Persia. Che forse sarebbe a dire chiudersi in qualche eremo a recitare il penitentiagite per dimostrare l’autenticità del rammarico.

È proprio in questa sottile e violentissima fatwa, che la magistratura appare incapace di sincero cordoglio e capacità di autoriformarsi. «A quanto pare – commenta Di Persia – Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana. In questo caso, come fanno i pentiti, dia riscontri chiari alle sue tesi. Perché ha chiesto la condanna di Tortora? Spero lo faccia, ma non rifugiandosi però nel nome di qualcuno che non può smentirlo perché morto». Marmo è trattato insomma alla stregua di un pentito che il clan pretende di allontanare dal cerchio magico per vendetta. Marmo è il reprobo dal quale si pretende di estorcere, a dimostrazione di un sincero disagio interiore, la colpa assoluta e annichilente dell’autoesclusione sociale. Non se ne comprende invece il rammarico che chi scrive, insieme a pochi come Ambrogio Crespi, reputa sincero. Di quelle scuse alla famiglia, di quelle poche note che con molta discrezione Marmo ha affidato a Il Garantista a proposito del processo, si sottolinea nient’altro che la perversa intenzione di tirarsi fuori dalla melma. Ma la vera angoscia che forse generano le scuse di Marmo, inammissibili, spiazzanti e meravigliose, è la paura di restare ammollo al sangue innocente di Tortora. Un aspetto che Diego Marmo, ancora avvezzo a decriptare messaggi in codice, non trascura di cogliere nelle dichiarazioni che affida al nostro giornale. «Nella mia intervista a Il Garantista che peraltro Di Persia dice di non aver letto con precisione – ci scrive l’ex procuratore di Torre Annunziata – non ho accusato nessuno. Mi sono limitato soltanto a dire quali erano stati i ruoli dei singoli partecipanti».

Le dichiarazioni che Felice Di Persia ha rilasciato a Il Velino, sono la prova inconfutabile che le scuse di Diego Marmo alla famiglia Tortora hanno scavato un solco profondo nella coscienza dei protagonisti di quella storia giudiziaria, e nell’autopercezione che ha di se stessa la magistratura italiana. Intoccabile, unita come un sol uomo, sacerdotale, la casta dei giudici sembra di colpo cominciare a ruzzare dentro la piccola stia dei risentimenti. Le scuse del Grande Inquistore italiano,  dell’ “assassino morale” di Tortora che solo su di sé aveva attratto i fulmini della storia lasciando all’asciutto tutti gli altri carnefici, devono avere mosso qualche disagio negli altri complici della “congiura”. «Le mie scuse sono vere. Se arrivano con ritardo bisogna anche considerare che il tempo fa maturare, in molti casi. Per porgerle, d’altra parte, ci doveva anche essere l’occasione», ci scrive Diego Marmo. Come bene ha detto Ambrogio Crespi su queste colonne, il tempo della rivoluzione è arrivato. E reca in effigie il volto di Torquemada.

Francesco Lo Dico

Il Garantista – 06 Luglio 2014

Giustizia: Pannella; sulle carceri e l’amnistia con la Chiesa… finalmente dalla stessa parte


Marco Pannella Carcere PenitenziariaPer Marco Pannella lo scorrere del tempo non esiste. Quando ci parli, alla vigilia del suo 84° compleanno (l’interessato, però, dice che entra nell’ottantacinquesimo) ti rendi conto che per lui esiste solo un eterno presente, che ingloba un passato fatto da oltre 55 anni di lotte non violente.

Divorzio, aborto, smilitarizzazione della polizia e della guardia di finanza, lotta alla fame nel mondo, moratoria contro la pena di morte e tribunale internazionale per i crimini contro l’umanità, nuovo codice del diritto di famiglia, legalizzazione delle droghe, antiproibizionismo su tutto, a cominciare dalla ricerca scientifica.

E, soprattutto, la battaglia per la giustizia giusta, che negli anni 80 condivise con Enzo Tortora, l’icona della malagiustizia all’italiana a cui recentemente ho dedicato il mio docufilm “Enzo Tortora, una ferita italiana”. Senza dimenticare la lotta per le carceri e i detenuti, per il rientro dell’Italia nella legalità europea e dell’Europa in quella internazionale.

Il passato di Pannella, da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli al recentemente scomparso Sergio Stanzani, già presidente di “Non c’è pace senza giustizia”, da Pier Paolo Pasolini ad Aldo Capitini, ideatore della marcia della pace, è come se fosse ancora tutto lì con lui. Un pantheon ideale che lui evoca e che riesce, parlando, a far materializzare davanti a ogni interlocutore. Poi, di colpo, irrompe il presente. Come quando racconta della parola magica – amnistia – sussurrata discretamente a Papa Francesco (perché poi quest’ultimo la ripeta “urbi et orbi”), durante la telefonata ricevuta in ospedale dopo l’operazione di qualche giorno fa.

Tutto questo, “compresente” nei suoi discorsi oltre che nella sua memoria, è Marco Pannella. Un uomo di una cultura immensa che per comunicare il male oscuro della partitocrazia italiana cita Camus e “La peste” (che l’Italia sta diffondendo in Europa) o che, per ricordare quel che accade nella giustizia penale del nostro Paese, ricorda le parole della “colonna infame” di manzoniana memoria, proprio come a suo tempo faceva anche Enzo Tortora.

Eppure questo grande uomo italiano – che loda il presidente Napolitano per il coraggio dimostrato nel messaggio alle Camere su giustizia, carceri e amnistia (“parola che nessuno nel Pd vuole pronunciare”, sottolinea lui) – accetta ogni giorno di rimettere in discussione la sua leadership e lo stesso partito radicale, oggi “galassia”, da lui fondato.

Perché proprio in questi giorni un altro Senato, quello della galassia in questione, deve prendere gravi decisioni a proposito del proseguimento della lotta politica. “Non mi voglio candidare alle Europee – dice Pannella – e non farò di certo un’eccezione come qualcuno mi ha suggerito dopo la telefonata con Bergoglio, che per una volta ci ha regalato l’attenzione dei media. È inutile, per inseguire un improbabile 4 per cento, legittimare un regime criminale e pluripregiudicato nel non rispetto dei diritti umani”.

Il problema è che “la peste” si è già diffusa nel Vecchio Continente. “E ancora una volta è stato il nostro Paese, come già negli anni Trenta, a diffonderla”. Come? Anche con gli eccessi di burocrazia “che hanno reso l’Europa non più un sogno ma un incubo”. “Questa è la situazione di Cesare”, come Pannella ama definire il potere dell’autorità statale e continentale.

“Per fortuna che invece c’è Pietro”, cioè il Papa. Il paradosso di uno stato con un sovrano assoluto ma illuminato, come Papa Francesco, che con un atto d’imperio abolisce l’ergastolo dopo che in passato un suo predecessore, Papa Woytila, altro grande amico di Pannella (“mi cercava da quando era vescovo in Polonia”, ricorda), allo stesso modo aveva abolito la pena di morte. Mentre in Italia l’ergastolo c’è ancora e la pena di morte è stata sostituita dalla morte per pena.

Questo rinnovato – e ricambiato – amore del mondo cattolico verso il “diavolo Pannella” non è una novità: “Mai avrei vinto le battaglie su divorzio e aborto senza le nonne cattoliche che mi dicevano “legalizzaci Marco!”.

E proprio oggi che Pannella è in sciopero della fame, non più della sete, perché arrivi un segnale dalla politica (e da Renzi) sui provvedimenti chiesti da Napolitano sei mesi fa nel suo messaggio alle Camere, Pannella lancia un’altra delle proprie profezie. “Quando sostenevo che prima o poi si sarebbe dovuto legalizzare la marijuana – dice – mi rispondevano che volevo corrompere la gioventù, ma io adesso ti dico che il proibizionismo ha i giorni contati.

Quattro o cinque anni… e tutte le droghe saranno legalizzate, perché i paesi del Sud e del Nord America vogliono provare una strada nuova. E fra due anni, a Vienna, magari faranno cambiare le convenzioni che risalgono al 1961. Quello sarà un gran giorno e non potrà opporsi neanche la Russia, che è l’ultimo ridotto del proibizionismo e di tutte le mafie, perché sarà la Cina a muoversi e a metterne in crisi la prepotenza che oggi né l’Europa né l’America riescono a contenere”. Quante volte, da destra e da sinistra, sono stati costretti a dirgli “Marco, avevi ragione…”? Visti i precedenti, anche stavolta sarebbe il caso di non prenderlo troppo alla leggera. Auguri Marco.

intervista a cura di Ambrogio Crespi

Il Tempo, 3 maggio 2014