Detenuto muore in Carcere a Paola. Notizia tenuta nascosta, Radicali protestano col Dap


 

Casa Circondariale di PaolaUn giovane detenuto, di nazionalità straniera, con problemi di tossicodipendenza ed al quale restava da espiare circa un mese di reclusione, nei giorni scorsi, è stato trovato morto all’interno della sua cella nella Casa Circondariale di Paola. Al momento non è dato capire se si tratti di un suicidio oppure di un incidente visto che l’evento critico sarebbe stato causato dalla inalazione del gas della bomboletta, del tipo consentito di cui i detenuti sono in legittimo possesso per riscaldare cibi e bevande. Pare, inoltre, che la Procura della Repubblica di Paola abbia disposto l’esame autoptico per accertare le cause del decesso. Lo dichiara Emilio Enzo Quintieri, esponente dei Radicali Italiani ed attivista per i diritti dei detenuti. Non ci sono notizie ufficiali e nessuno ha diffuso la notizia del tragico evento ma nonostante tutto, tramite i nostri informatori, siamo riusciti a venirne a conoscenza. E non è la prima volta che accade che si cerchi di nascondere decessi o altri “eventi critici” nella Casa Circondariale di Paola. Infatti ci sono stati altri gravi atti autolesivi anche con tentativi di suicidio nonché casi di aggressione al personale dell’Amministrazione Penitenziaria che non sono state rivelate all’esterno, contrariamente a quanto avviene in altri Penitenziari.

Viene ripetutamente violato – prosegue l’esponente radicale – un provvedimento del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 18/10/2011, trasmesso con Circolare n. 397498 del 21/10/2011, col quale si stabilisce che “Per garantire una trasparente e corretta informazione dei fenomeni inseriti nell’applicativo degli “eventi critici” le principali notizie d’interesse saranno, inoltre trasmesse al Direttore dell’Ufficio Stampa e Relazioni Esterne per le attività di informazione e comunicazione agli organi di stampa e la eventuale diffusione mediante i canali di comunicazione di cui dispone il Dap (rivista istituzionale, newsletter, siti istituzionali).” Non è più tollerabile che venga nascosto quanto avviene all’interno degli Istituti Penitenziari. Ho sentito l’Ufficio Stampa e Relazioni Esterne del Dap e non sapevano nulla. Ho sentito anche la Sala Situazioni dell’Ufficio per l’Attività Ispettiva e per il Controllo ma mi hanno detto che, telefonicamente, non davano queste notizie, pretendendo una formale richiesta scritta alla quale, per il momento, non è stata data risposta. Nemmeno all’Osservatorio Permanente per le Morti in Carcere sapevano nulla. L’ultimo decesso inserito nell’elenco riguarda il suicidio del detenuto El Magharpil Said, 47 anni, avvenuto il 22 ottobre scorso nella Casa di Reclusione di Padova. Senza il decesso verificatosi a Paola, continua Quintieri, nelle Carceri italiane in questi mesi del 2016 sono morte 81 persone detenute, 29 delle quali per suicidio, mentre dal 2000 ad oggi sono 2.575 i detenuti “morti di carcere”, 917 dei quali si sono tolti la vita. Una strage che non fa notizia e che non interessa a nessuno !

A protestare e chiedere spiegazioni in ordine al decesso del detenuto straniero anche Shyama Bokkory, Presidente dell’Associazione Alone Cosenza Onlus che si occupa della tutela dei diritti degli stranieri, già Mediatrice interculturale e linguistica presso la Casa Circondariale di Paola, attività di volontariato stranamente fatta cessare dal Direttore Caterina Arrotta perché non vi erano più stranieri quando invece il Carcere di Paola è uno dei pochi in cui la presenza dei detenuti extracomunitari è particolarmente rilevante (83 su 210). La Bokkory ha scritto al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed al Provveditorato Regionale della Calabria nonché all’Ufficio di Sorveglianza presso il Tribunale di Cosenza.

Nelle ultime visite dei Radicali al Carcere di Paola, tenutesi il 16 luglio ed il 24 settembre, era stata riscontrata e denunciata alle Autorità competenti, tra le altre cose, l’assenza del Mediatore culturale per gli stranieri, la mancata attivazione nell’Istituto della “sorveglianza dinamica”, la carenza degli Educatori ed il mancato accesso e visita del Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria.

Nei giorni scorsi, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo con nota Prot. n. 346188 del 20/10/2016, in risposta alla relazione inviatagli dai Radicali all’esito della visita presso la Casa Circondariale di Paola, ha trasmesso la direttiva impartita alle articolazioni competenti con la quale ha chiesto di relazionare in merito alle criticità rilevate durante la visita e agli interventi all’uopo adottati.

La direttiva del Capo Dipartimento Prot. n. 346169 del 20/10/2016 è stata inviata alla Direzione Generale del Personale e delle Risorse del Dap, al Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Calabria di Catanzaro ed al Direttore della Casa Circondariale di Paola.

Consolo ha chiesto che gli vengano riferite notizie riguardo al “perdurare dell’assenza del “mediatore culturale”, nonostante all’esito della precedente visita del 16/7/2016 la Direzione dell’Istituto de quo avesse dato rassicurazione circa l’adozione di apposite iniziative, anche mediante le associazioni e gli enti presenti sul territorio tirreno, al fine di individuare una idonea figura professionale; avvio delle opportune verifiche volte a favorire l’eventuale applicazione del modello operativo della c.d. “sorveglianza dinamica”, anche tramite il ricorso, con progetti specifici, ai finanziamenti della Cassa delle Ammende; carenza di personale appartenente alla qualifica professionale di Funzionario giuridico pedagogico, atteso che si asserisce che risultino in servizio solo n. 2 educatori, a fronte di una previsione organica di n. 6 unità totali (con conseguente opportunità di mobilità intra-distrettuale o inter-distrettuale finalizzata ad una progressiva soluzione della problematica) e sugli asseriti mancati accessi e ispezioni da parte del Provveditore, sia nell’Istituto di Paola che in altri Penitenziari calabresi”.

Paola, Quintieri (Radicali) : una morte da accertare quella del detenuto reggino


Carcere di Paola 1Una morte da accertare. Si tratta di un detenuto calabrese, di Reggio Calabria, Maurilio Pio Morabito, 46 anni. Una condanna definitiva per reati comuni con fine pena 30 giugno, soli due mesi. A sollevare il “caso” è il radicale Emilio Quintieri che da tempo si occupa della condizione dei detenuti nelle carceri calabresi. Maurilio Pio Morabito era stato trasferito lo scorso 6 aprile dalla casa circondariale “Arghillà” di Reggio Calabria. Secondo quanto riferisce il radicale sarebbe stato vittima “di una non meglio definita aggressione”.

Ma c’è un seguito ed è quanto riferisce Quintieri diffondendo anche la lettera autografa di Morabito. Appena giunto nella casa circondariale di Paola, aveva scritto una lettera. Scriveva: “di aver ricevuto minacce di morte, conseguenti ai fatti accaduti nel carcere di Arghillà”. Il detenuto scriveva testualmente, in un italiano poco corretto, ma comprensibile: “Se dovrebbe accadere un mio eventuale decesso, facendo il tentativo di farlo passare per un suicidio, non è così in quanto amo troppo la vita e il mio fine pena è imminente, 30 giugno. Ovvio che l’agente che fa la notte sa”. Il 12 aprile, nella sua cella, posta nella I sezione del carcere di Paola, per quanto è stato riferito, si sarebbe verificato un incendio e Morabito è stato salvato dal personale di Polizia Penitenziaria.

Dopo questo fatto un’altra lettera che riportiamo integralmente: “a tutela della mia incolumità, chiedo di essere trasferito in una struttura sita in qualsiasi punto della Penisola, purchè sia dotata di un’area protetti. Inoltre chiedo che per il tempo di attesa affinchè avvenga il mio trasferimento, sia mantenuto il cancello ed il blindo 24 h chiuso e aperto soltanto per i vari colloqui, il divieto di incontro con qualunque detenuto anche lavorante.” Giovedì, nel tardo pomeriggio, i familiari avevano comunicato al radicale Quintieri che il loro congiunto non aveva voluto fare nemmeno il colloquio, rifiutando di incontrarli e che ciò era strano ed erano seriamente preoccupati per la sua vita. Ieri, invece, i familiari di Morabito hanno riferito di essere stati contattati dal carcere a seguito del decesso, avvenuto in nottata, per suicidio. “Ho consigliato loro – scrive Quintieri – di fare denuncia recandosi presso la Stazione Carabinieri di Reggio Calabria per chiedere l’intervento immediato dell’Autorità Giudiziaria al fine di chiarire la dinamica e le cause del decesso”.

Sabato 30 Aprile 2016

http://www.miocomune.it 

Asti, “Torturato in cella”, ma nessuno paga perché in Italia il reato non esiste


ACasa Circondariale di Astindrea Cirino, 38 anni, è il primo detenuto italiano ad aver subito atti di tortura in un carcere del nostro Paese. Così ha dichiarato la Corte Europea dei diritti dell’uomo – che lo scorso dicembre ha ammesso il suo ricorso a Strasburgo – e così ancora prima avevano scritto nero su bianco i giudici del Tribunale di Asti, riconoscendo colpevole del reato di tortura una squadra della polizia penitenziaria. Eppure per i responsabili accertati non c’è stata nessuna condanna: il reato di tortura in Italia non esiste.

Cirino è stato beffato dalla legge e dallo Stato: il ministero della Giustizia gli ha offerto un risarcimento danni “minimo” che la Corte di Strasburgo (incaricata di valutare l’idoneità di una eventuale mediazione economica rispetto al danno subito) ha respinto al mittente. Obbligando di fatto lo Stato italiano a prendere coscienza del proprio vuoto legislativo – al quale il nostro governo non è ancora riuscito a porre rimedio – e di rispondere di quei reati gravissimi davanti ai giudici.
L’ex detenuto e il suo legale Angelo Ginesi insieme all’associazione Antigone, infatti, non si arrendono. E chiedono a gran voce – proprio alla luce delle parole della Corte Europea e degli Stati Generali sul carcere che si sono appena svolti a Roma – che lo Stato italiano si assuma le proprie responsabilità. Perché vicende come queste non accadano mai più. E perché l’amministrazione penitenziaria “dia un segnale forte e chiaro verso i poliziotti violenti”.

“È inconcepibile – si sfoga oggi con l’Espresso l’ex detenuto – che quei poliziotti continuino a svolgere normalmente il loro lavoro come niente fosse, dopo aver rovinato per sempre la mia vita e quella di altri detenuti e dopo che la magistratura ha dimostrato le loro condotte bestiali”. Visionando le carte, l’Espresso ha infatti potuto verificare che uno degli agenti ha avuto una sospensione di 4 mesi per poi tornare in servizio, un altro ha subito una semplice deplorazione (richiamo scritto) mentre uno dei due responsabili accertati dei fatti più gravi – radiato dall’amministrazione penitenziaria – potrebbe riuscire a tornare in servizio facendo ricorso in Cassazione. Nessun provvedimento interno, inoltre, fu preso nei confronti di altri 10 poliziotti identificati da Cirino e da altri testimoni come esecutori dei pestaggi ma mai rinviati a giudizio. Che oggi risultano in servizio in altre carceri italiane.

La vicenda giudiziaria risale al 2009. Alcuni agenti in servizio nel carcere di Asti hanno i telefoni sotto controllo per via di un sospetto spaccio di sostanze stupefacenti all’interno dell’istituto. Un assistente della Penitenziaria e sua moglie finiscono in manette. Nelle loro conversazioni fanno riferimento ad alcuni pestaggi “per punire i prigionieri più problematici”. Davanti ai magistrati astigiani il poliziotto arrestato vuota il sacco, riferendo un sottobosco di violenze inaudite da parte dei poliziotti – che avrebbero agito spesso sotto effetto di sostanze stupefacenti – nei confronti dei detenuti. Che subivano senza denunciare. Avevano sopportato in silenzio anche Andrea Cirino e Claudio Renne, entrambi piemontesi, in attesa di giudizio per reati contro il patrimonio. Nel 2004 erano diventati le vittime predilette di una squadretta composta da 15 poliziotti che, protetti da un muro di omertà, li aveva sottoposti a feroci pestaggi e vessazioni.

“Tutto era partito da un litigio – racconta oggi Cirino – mi hanno portato nella cella di isolamento, la cosiddetta “cella liscia”, e lì è iniziata la tortura”. “Ci lasciavano nudi e al freddo in una stanza senza finestre – racconta oggi Cirino – entravano dopo le dieci di sera e ci prendevano a botte continuamente per non farci addormentare. Quando sentivo il rumore degli anfibi mi rannicchiavo e aspettavo la raffica. Mi chiudevo come un riccio, sperando che smettessero. Ma loro continuavano, puntuali, ogni notte”. “Ogni tanto mi allungavano un tozzo di pane e un goccio d’acqua giusto per non farmi morire di sete – prosegue Cirino nel suo racconto – A volte mi facevano vedere un bel piatto di pasta, al di là delle sbarre, ma dopo avermi fatto sentire l’odore lo portavano via. Per loro era un divertimento. Ma le cose più terribili avvenivano la sera…”.
Un giorno Cirino si ritrova in ospedale privo di sensi, con il collo viola. Gli dicono che ha tentato il suicidio nella cella di isolamento. Ma lui ancora oggi non crede a questa versione: “Mi ricordo solo di aver mangiato e di essermi addormentato di colpo. Stranamente, quella sera, mi avevano fatto avere un bel piatto di pasta che io, affamato, avevo divorato voracemente. Mi sono risvegliato in ospedale. Ora voglio capire: come avrei potuto impiccarmi se mi tenevano nudo in una cella completamente vuota?”.

Sospetti tremendi, che gettano una luce ancora più inquietante sulla “squadretta” di Asti. “Erano in tutto 15 persone – spiega oggi l’avvocato Angelo Ginesi – Cirino ha identificato ognuno di loro, perché agivano a volto scoperto, eppure siamo riusciti a portare a processo solo cinque di loro. Per gli altri, essendo passati ormai troppi anni dai fatti, non c’erano prove a sufficienza”. Di questi cinque, solo quattro (Marco Sacchi, Cristiano Bucci, Alessandro D’Onofrio e Davide Bitonto) sono stati riconosciuti responsabili in Appello ma salvati, appunto, dalla prescrizione. “Nelle carte del Tribunale i giudici hanno scritto molto chiaramente che se noi detenuti avessimo deciso di denunciare prima – racconta ancora Cirino – forse i poliziotti “picchiatori” sarebbero stati condannati almeno per i reati di lesioni personali. Ma come potevamo farlo? Ci avevano detto che ci avrebbero ammazzati”. “Una vicenda amara che dura da tanti anni e che non è ancora finita”, ricorda l’avvocato Simona Filippi dell’associazione Antigone, la prima ad aver raccolto la testimonianza dei due ex detenuti e ad averli sostenuti durante la complessa vicenda giudiziaria. Chiediamo all’Egitto verità per Giulio. Ed è sacrosanto farlo. Ma siamo l’unico Paese d’Europa a non avere una legge contro le brutalità di Stato.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, infatti, ha dichiarato ammissibile il loro ricorso parlando chiaramente di “atti di tortura”, ma finora non è stato possibile arrivare ad alcun tentativo di mediazione economica.
“Inizialmente il ministero della Giustizia aveva proposto un risarcimento danni di 45mila euro per ciascun detenuto affinché rinunciassero a presentare il ricorso a Strasburgo – spiega ancora l’avvocato Filippi – ma la Cedu ha valutato questa composizione amichevole come non rispettosa dei diritti tutelati dalla convezione europea”. “Una decisione probabilmente presa – ipotizza il legale di Antigone – perché l’Italia non si è impegnata, nel frattempo, a introdurre il reato di tortura”. Ora la palla passa dunque ai giudici francesi. Saranno loro a valutare le responsabilità dello Stato italiano in questa vicenda. E saranno sempre loro a valutare se siano stati presi – oppure no – i dovuti provvedimenti verso gli agenti “picchiatori”.

Interpellato da l’Espresso, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del ministero della Giustizia conferma di aver fatto, all’epoca, tutto il possibile: “A conclusione della vicenda penale – spiegano nei dettagli – furono adottati due provvedimenti di destituzione dal servizio e due provvedimenti di sospensione”.
“A tutela dell’immagine del corpo di Polizia Penitenziaria – proseguono dal Dap – ribadiamo con fermezza che singoli condannabili episodi, come quelli avvenuti nel carcere di Asti, non devono e non possono minimamente ledere l’onore e il prestigio dei singoli appartenenti e del corpo della polizia penitenziaria nel suo insieme, cui va tributato il riconoscimento per il difficile compito al quale sono chiamati quotidianamente per la tutela dei diritti e delle garanzie dei principi costituzionali”. Secondo l’amministrazione penitenziaria, insomma, poliziotti che infrangono le regole che loro stessi sono chiamati a far rispettare dietro le sbarre sono pochi e devono essere allontanati.

Ma è notizia di questi giorni che uno dei “picchiatori” di Asti (Cristiano Bucci) ha presentato ricorso in Cassazione per ridiscutere la sentenza di Appello e probabilmente per ottenere il reintegro. Un suo diritto, certo. Che però l’avvocato di Cirino definisce “uno schiaffo in pieno viso nei confronti delle vittime”. “Si tratta dell’agente che ha avuto il ruolo più grave all’interno di tutta la vicenda, “l’anima nera” di tutta la squadretta – ricorda Ginesi – colui che, intercettato al telefono, incitava il collega a picchiare i detenuti dicendo: “devi fare uscire la carogna che c’è in te”. Sapere che questa persona tornerà a negare l’evidenza davanti ai giudici è qualcosa di vergognoso. Ma noi non ci arrendiamo e andiamo avanti”.

Arianna Giunti

L’Espresso, 23 aprile 2016

Calabria, In cella centinaia di malati psichiatrici, aspettando le Rems


Carcere di RossanoMolti sono ospitati illegalmente negli Opg. Ha tentato di aggredire un agente dopo aver sfondato, con la sua branda, l’ingresso della cella. Il detenuto, rinchiuso nel carcere calabrese di Rossano, è stato immobilizzato da altri agenti intervenuti in soccorso del collega. Durante la colluttazione il detenuto, però, è riuscito a ferire in modo non grave due assistenti, uno a uno zigomo e l’altro ad una gamba. Sottoposto a visita psichiatrica dallo specialista convenzionato con l’istituto, il detenuto è risultato affetto da uno scompenso psichiatrico tale da richiedere il trattamento sanitario obbligatorio.
C’è un grave problema ancora non risolto nelle carceri italiane. Oltre ai detenuti rinchiusi illegalmente negli ex ospedali psichiatrici giudiziari, perché ancora non sono state ultimate le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), ci sono centinaia di detenuti con problemi psichiatrici sparsi nelle galere italiane.

Solamente nella regione Calabria risultano ristrette 600 persone con problemi psichiatrici, senza un trattamento adeguato alle loro condizioni fisiche e psichiche. E a farne le spese – oltre ai detenuti stessi che non vengono seguiti dai medici e operatori sanitari – sono i poliziotti penitenziari che fanno servizio nei reparti detentivi.
A denunciare questi fatti, lo scorso mese – su sollecitazione degli esponenti radicali calabresi Emilio Quintieri e Valentina Moretti – è stato il senatore Francesco Molinari (Gruppo Misto) e altri quattro parlamentari con una dettagliata interrogazione ai ministri della Giustizia, della Salute e per gli Affari regionali e le autonomie. Ma finora nessuna risposta nel merito. Eppure l’interrogazione parlamentare è andata molto nel dettaglio. Si denuncia la mancata apertura del centro diagnostico terapeutico presso la casa circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro.

Nella struttura si prevedeva la creazione, al quarto piano, di una sezione destinata alla tutela intramuraria della salute mentale per detenuti per otto posti e una sezione di osservazione psichiatrica per l’accertamento delle infermità psichiche per cinque posti dedicata a detenuti appartenenti al circuito dell’alta sicurezza. Ma il problema maggiore ? evidenziato sempre dall’interrogazione ? è che attraverso le recenti ispezioni di Molinari e da altre visite dei Radicali, è emerso che negli istituti penitenziari della Calabria sono ristretti almeno 513 detenuti con patologie psichiatriche.
L’emergenza psichiatrica nelle carceri potrebbe esplodere da un momento all’altro se non si intraprendono provvedimenti. Nelle carceri “normali” permangono molti detenuti con problemi psichici e non avranno mai nessuna struttura alternativa. Ma non solo.
La legge per la chiusura degli Opg contiene una norma che prevede che alcuni finiscano la pena detentiva in carcere. Quindi ne sono stati aggiunti altri a partire dell’entrata in vigore della legge approvata l’anno scorso. Tramite uno studio recente condotto dall’ agenzia regionale di Sanità della Toscana, si è scoperto un dato che desta preoccupazione: sui circa 16 mila reclusi delle carceri di Toscana Veneto, Lazio, Liguria, Umbria, ben oltre il 40% è risultato affetto da almeno una patologia psichiatrica. Questi detenuti costituiscono una miscela esplosiva in un contesto di detenzione degradante. Esiste un forte disagio perché si realizza una tortura ambientale; il carcere continua ad essere la frontiera ultima della disperazione e dei drammi umani.

Attualmente le carceri sono dei serbatoi dove la società senza eccessive remore continua a rinchiudere una marea di tossicodipendenti, di extracomunitari e di disturbati mentali. Prevalgono le persone appartenenti agli strati sociali più poveri, allevati sui marciapiedi e nei sobborghi delle città. In definitiva la carcerazione costituisce un’esperienza vitale altamente traumatizzante e può dar luogo a molteplici forme di patologia mentale prima ancora in fase di compenso. Favorisce, in sostanza, la messa in atto del meccanismo della psicosi a causa dello scompenso di un io, già prima fragile, che non riesce a mantenere più il suo precario equilibrio a causa dell’isolamento, a causa delle preoccupazioni legate all’inchiesta giudiziaria, a causa della paura. Ciò che la medicina penitenziarista riscontra con maggiore incidenza è Il disturbo post-traumatico da stress, l’attacco di panico, la sindrome da separazione con riferimento particolare ai detenuti extracomunitari, le reazioni depressive, le crisi ansiose, il disturbo bipolare, il disturbo ossessivo-compulsivo, le crisi isteriche, i disturbi di personalità (borderline e antisociale), il discontrollo degli impulsi e le reazioni auto ed eteroaggressive.

Con la chiusura dei manicomi, non sempre sono state create delle strutture alternative in grado di ospitare gli ammalati, sicché molti soggetti con disturbi psichiatrici sono rimasti senza alcun controllo o rete di protezione, con la conseguenza di finire con estrema facilità nelle maglie strette della giustizia. Talora, invece, è il carcere stesso con i suoi ritmi ossessivi e con le sue abitudini a creare vere e proprie turbe psicopatologiche che in cella acquisiscono una strutturazione solida e difficilmente curabile. Il suicidio in carcere è il gesto finale.
Il malato di mente in galera è detenuto due volte: dal carcere e dalla malattia. Nella struttura carceraria soffre le pene dell’inferno, mentre il detenuto normale dopo un certo periodo riesce in qualche modo ad adattarsi alla vita carceraria, quello malato di mente non ha questa capacità, perché la malattia di fatto rappresenta un grave ostacolo all’adattamento. Le guardie penitenziarie non hanno i titoli per poter vigilare e aiutare un detenuto psichiatrico. Ma soprattutto è difficile anche la convivenza con gli altri detenuti non affetti da quei disturbi. Gli Opg, forse, stanno chiudendo, ma ci sono tantissimi detenuti con disabilità mentale che permangono nelle carceri. Chi si occuperà di loro?

Damiano Aliprandi

Il Dubbio, 22 aprile 2016

Ispezione del Sen. Molinari e dei Radicali alla cittadella giudiziaria minorile di Catanzaro


Delegazione visitante Giustizia Minorile CatanzaroNei giorni scorsi, l’Avvocato Francesco Molinari, Senatore della Repubblica, accompagnato dagli esponenti radicali calabresi Emilio Quintieri e Valentina Moretti e da Shyama Bokkory, Presidente dell’Associazione Alone Cosenza Onlus e Mediatrice Culturale Volontaria presso la Casa Circondariale di Paola, ha svolto una visita ispettiva presso la cittadella giudiziaria minorile di Catanzaro.

La delegazione visitante, in particolare, si è recata presso l’Istituto Penale per i Minorenni di Catanzaro (Ipm), ove è stata accolta dal Direttore Francesco Pellegrino e dal Vice Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria Ispettore Italo De Luca. L’Istituto, dedicato a “Silvio Paternostro”, un Capitano degli Alpini fucilato dagli Ufficiali Etiopi durante la Prima Guerra Mondiale, risale agli anni 30 e di recente è stato completamente ristrutturato dopo innumerevoli migliorie apportate negli anni passati per renderlo conforme alle prescrizioni dell’Ordinamento Penitenziario. Sono stati visitati oltre alla palazzina che ospita gli Uffici Amministrativi, la Cappella, il Teatro, il campo da calcio, la Palestra, i cortili esterni, la Caserma della Polizia Penitenziaria e tutta la struttura detentiva che, allo stato, si compone di due Reparti (piano terra e primo piano) nonché i locali che, prossimamente, saranno sede del Centro di Prima Accoglienza (Cpa) che ospiterà i minorenni dai 14 ai 18 anni in stato di fermo, di arresto o accompagnamento fino all’udienza di convalida che deve aver luogo davanti all’Autorità Giudiziaria Minorile entro il termine massimo di 96 ore. Attualmente il Cpa si trova presso l’adiacente Tribunale dei Minori ed al momento della visita era vuoto.

Istituto Penale per Minori di CatanzaroL’Ipm, invece, è un vero e proprio “Carcere” poiché vi sono ospitati minori o ultradiciottenni (fino a 25 anni, qualora il reato sia stato compiuto durante la minore età) sia in custodia cautelare che in espiazione di pena. All’atto dell’ispezione parlamentare nell’Istituto, che ha una capienza regolamentare di 31 posti, vi erano ristretti 18 detenuti (10 italiani e 8 stranieri) 3 dei quali minori degli anni 18, con le seguenti posizioni giuridiche : 11 condannati e 7 giudicabili. La quasi totalità dei detenuti italiani presenti sono calabresi (9 su 10) poiché è l’unica struttura penitenziaria minorile esistente in tutta Calabria. A 6 ragazzi detenuti con posizione giuridica definitiva, il Magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale dei Minori di Catanzaro Emanuela Folino, concede periodicamente dei permessi premio da trascorrere fuori dall’Istituto in riconoscimento del corretto comportamento personale e dell’adesione alle attività lavorative o culturali organizzate. All’interno del “Paternostro” operano 39 Agenti di Polizia Penitenziaria, molti dei quali specializzati nel trattamento dei minori e che non indossano la divisa, 8 Educatori, 1 Dirigente Sanitario e 3 Infermieri dipendenti dell’Asp di Catanzaro. Altri specialisti (Psicologo, Cardiologo, Odontoiatra, Neuropsichiatra infantile, Dermatologo, Infettivologo, Ortopedico, Oculista e Psichiatra) si recano in Istituto per un determinato “monte orario” (dalle 2 alle 20 ore a settimana).

Buone sono apparse le condizioni generali di vivibilità, sia in termini di igiene, che di illuminazione e aereazione, tanto per le camere detentive, quanto per i vani con i servizi igienici, compresi di doccia e forniti di acqua corrente, calda e fredda. Ciascuna camera è dotata di riscaldamento, di televisione ed oltre ai letti anche di scrivania, tavolo, sgabelli e armadietti per sistemare gli effetti personali. I ragazzi lavoranti all’interno dell’Istituto sono 8 (4 impiegati all’esterno degli spazi detentivi ed altri 4 all’interno degli stessi). Numerosi sono i Volontari presenti nell’Istituto, anche in forma singola ed individuale.

Comunità Ministeriale per Minori di CatanzaroSuccessivamente, il Senatore Molinari ed i suoi accompagnatori, si sono recati a far visita alla limitrofa Comunità Ministeriale per Minori (CoMin) gestita dall’Istituto Don Calabria di Verona, una Congregazione Religiosa, che accoglie i minorenni dai 14 ai 18 anni in attesa di giudizio e/o i giovani adulti dai 18 ai 25 anni per reati commessi prima dei 18 anni, in esecuzione dei provvedimenti della competente Autorità Giudiziaria ed al Centro Diurno Polifunzionale (CdP), una struttura presente all’interno della Comunità che offre attività dirette ai minori e giovani adulti del circuito penale, con possibilità di accoglienza di minori in situazione di devianza, disagio sociale e a rischio, non sottoposti a procedimenti penali. La delegazione è stata accolta presso la Comunità Ministeriale da Francesca Cappuccio, Responsabile del Servizio Tecnico del Centro per la Giustizia Minorile della Calabria e Basilicata (Cgm), Sostituto del Direttore, da Rosangela Catizzone, Responsabile del Servizio Educativo, di Assistenza e Vigilanza dell’Istituto Don Calabria e da Massimo Martelli, Funzionario per gli Affari Generali del Centro per la Giustizia Minorile della Calabria e Basilicata. Nella Comunità, al momento dell’ispezione, vi erano ospitati 8 ragazzi, età media 17 anni, tutti uomini, la maggior parte dei quali (7 su 8) sottoposti alla sospensione del processo penale con messa alla prova. La collocazione in Comunità dei ragazzi da parte della Magistratura Minorile avviene, più che altro, quando non ci sono le condizioni sociali, ambientali e familiari nel luogo di residenza o dimora abituale.

Tribunale per i Minorenni di CatanzaroLa Comunità di Catanzaro, ben gestita, ha una capienza regolamentare di 10 posti con altri 2 posti “tollerabili” in caso di emergenze. Vi operano 13 Educatori, 1 Psicologo dipendente dell’Asp di Catanzaro per 2 volte a settimana ed ogni ragazzo ospitato ha una propria Assistente Sociale che lo segue. Gli Assistenti Sociali (10 unità) dipendono dall’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni (Ussm) di Catanzaro e forniscono assistenza ai minorenni e/o giovani adulti autori di reato in ogni stato e grado del procedimento penale. Questo Ufficio raccoglie e fornisce elementi conoscitivi relativi ai minori e/o giovani adulti soggetti a procedimento penale elaborando anche concrete ipotesi progettuali concorrendo alle decisioni dell’Autorità Giudiziaria Minorile; svolge, infine, attività di sostegno e controllo nella fase di attuazione del provvedimento dell’Autorità Giudiziaria a favore dei minori sottoposti a misure cautelari non detentive in accordo con gli altri Servizi Minorili della Giustizia e degli Enti Locali, questi ultimi particolarmente carenti in tutto il territorio regionale.

Al termine dell’ispezione parlamentare alle strutture giudiziarie minorili, la delegazione composta dal Sen. Molinari e dai collaboratori Quintieri, Moretti e Bokkory, è stata accompagnata presso il Tribunale dei Minorenni di Catanzaro ove è stata ricevuta dal Presidente Luciano Trovato, in quel momento esercitante anche la funzione di Magistrato di Sorveglianza, e dal Giudice Onorario Maria Rizzo con i quali ci si è intrattenuti a discutere delle problematiche inerenti la Giustizia Minorile del Distretto di Catanzaro.

Agente Penitenziario : “Le botte ? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati ottimi”


Polizia_Penitenziaria_2Le parole degli agenti penitenziari: “Tanto da qui tu e gli altri uscirete più delinquenti di prima”. “Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?”. “Fermarlo? Chi, a lui? No, io vengo e te ne do altre, ma siccome te le sta dando lui, non c’è bisogno che ti picchio anch’io”.

Botte. E ancora botte. Sevizie. Perché con i detenuti, parole di agente penitenziario, “ci vogliono il bastone e la carota”. Un giorno di pugni e l’altro no, “così si ottengono risultati ottimi”. E la paura tiene buoni. Lividi, percosse, le ossa rotte, inutile nascondersi sotto la branda. Tanto “il detenuto esce dal carcere più delinquente di prima”, e, dice ancora il brigadiere, “non perché piglia gli schiaffi, ma perché è proprio il carcere che non funziona”.

La registrazione è così nitida da far sentire il freddo sulla pelle. Chi parla è Rachid Assarag, detenuto marocchino quarantenne, che sta scontando una pena di 9 anni e 4 mesi nelle carceri italiane. E chi risponde sono gli agenti, ora di un penitenziario ora di un altro. La conversazione è una testimonianza agghiacciante di quanto succede nei nostri istituti penitenziari. Dove il detenuto Rachid (condannato per violenze sessuali) viene ripetutamente picchiato e umiliato dagli agenti addetti alla sua custodia.

La prima volta nel carcere di Parma, racconta Rachid, dove in quattro (guardie) lo seviziano con la stampella a cui si appoggiava per camminare. Lui denuncia, ma chi crede alle parole di un detenuto? Così Rachid, assistito dall’avvocato Fabio Anselmo, mentre viene trasferito in undici carceri diverse dal 2009 (Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella), inizia a registrare tutto.

Conversazioni con la polizia penitenziaria, medici, operatori e magistrati. Voci dall’inferno. Come quando le guardie entrano nella sua cella per “scassarlo” di botte, o il sovrintendente ammette: “questo carcere è fuorilegge, dovrebbe essere chiuso da 20 anni, se fosse applicata la Costituzione”.

Agente con accento napoletano: “Mi hai fatto esaurire, ti sei anche nascosto sotto il letto”. Rachid: “Perché mi volevate picchiare”. “Se ti volevamo picchiare era più facile che ti prendevamo e ti portavamo giù”. Giù. Dove forse nessuno sente e nessuno vede. Sono le botte la rieducazione, come dice chiaramente qualcuno che Rachid chiama “brigadiere”. Probabilmente un sovrintendente della polizia penitenziaria.

Rachid registra e registra. Incalza anche: “Voi qui non applicate la Costituzione”. La risposta del brigadiere (lo stesso che teorizzava una seconda razione di botte per Rachid che chiedeva “fermati” all’agente che lo stava picchiando) è incredibile: “Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni. In questo carcere la Costituzione non c’entra niente”.

Le registrazioni di Rachid escono dal carcere, e l’associazione “A buon diritto” di cui è presidente Luigi Manconi, decide di renderle pubbliche. Conversazioni acquisite dai magistrati, e che testimoniano quanto gli abusi sui detenuti siano una (atroce) prassi abituale nei nostri penitenziari. Dai quali, come ammettono gli stessi agenti “si esce più delinquenti di prima, ma non per gli schiaffi che prendono, o quantomeno non solo, ma perché è l’istituzione carcere che non funziona”. Commenta Luigi Manconi, presidente, anche, della Commissione per i diritti umani: “Il carcere per sua natura e per sua struttura produce aggressività e violenza, e come dice il poliziotto penitenziario si trova in uno stato di permanente illegalità. Riformarlo è ormai un’impresa disperata. Si devono trovare soluzioni alternative”.

Rachid: “Devo uscire dal carcere più cattivo di prima? Dopo tutta questa violenza ricevuta, chi esce da qui poi torna”. E il “superiore” invece di smentirlo difende l’uso della violenza come metodo rieducativo. “Le botte? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati ottimi”. Tanto da dietro le sbarre nessuno parla, come dimostra il caso di Stefano Cucchi.

Da anni Rachid Assarag registra e fa esposti. Ma quasi nulla accade. Anzi mentre le denunce degli agenti nei suoi confronti avanzano, quelle di Rachid si arenano. Assarag da un mese è in sciopero della fame, ha perso 18 chili. Di recente è stato di nuovo denunciato per aver bloccato le ruote della carrozzina in cui ormai viene trasportato, per aver insultato le guardie e rovesciato la branda in cella, “disturbando il riposo e le normali occupazioni degli altri detenuti”.

Rachid, qualunque sia il reato di cui un detenuto si è macchiato, testimonia con le sue registrazioni che nei penitenziari italiani la violenza è prassi. Scrive l’associazione “A buon diritto”: “Se Assarag dovesse morire in carcere, nessuno potrebbe dire che non si è trattato di una morte annunciata”.

Maria Novella De Luca

La Repubblica, 4 dicembre 2015

Genova: detenuto albanese di 54 anni, in attesa di giudizio, si è impiccato ieri nel Carcere di Marassi


Casa Circondariale Marassi GenovaUn anno fa aveva ammazzato a Sutri (Viterbo) la sua compagna per gelosia con sette coltellate alla gola e tentò il suicidio, quattrordici anni prima la moglie a Roma a colpi di piccone. Aslan Agoi, 54 anni, albanese, si è tolto la vita nella Casa Circondariale di Marassi a Genova, impiccandosi con la cordicella della tuta legata alla finestra. Per impiccarsi  ha atteso che i suoi compagni uscissero per recarsi all’aria. Inutili sono stati i soccorsi prestati dal personale di Polizia Penitenziaria e dai Sanitari del 118.

Era un detenuto in attesa di giudizio. L’11 novembre scorso a Sutri, aveva ucciso  la sua compagna mentre i figli di lei erano a scuola e aveva tentato di suicidarsi bevendo candeggina.  L’uomo, quattordici anni fa, aveva ucciso la moglie. Era accaduto a Cave, in provincia di Roma: la donna fu ammazzata a picconate, colpita più volte alla testa. Per quell’omicidio, particolarmente cruento, fu condannato a 14 anni. Ma grazie agli sconti di pena, Agoi era tornato libero dopo 9 anni.  Trasferitosi poi a Sutri, aveva conosciuto questa connazionale, molto più giovane di lui. Era sempre chiuso in casa, molti dei vicini non sapevano che faccia avesse.

«Non siamo riusciti a evitare questa morte – interviene Fabio Pagani, segretario regionale del sindacato Uilpa Penitenziari –, ma questo fatto rilancia l’emergenza che il carcere di Marassi sta affrontando. Questo carcere un girone infernale, la struttura è sovraffollata, ci sono 730 detenuti contro i 435 che può contenere». Nelle celle in Italia quest’anno ci sono stati 36 suicidi, 545 tentati, 198 detenuti salvati in extremis dal personale di polizia. Gli atti di autolesionismo sono stati 3768 e gli episodi di aggressioni al personale hanno toccato quota 760. «Siamo sotto organico e i colleghi che sono finiti all’ospedale sono stati 216».

Napoli: la maledizione del Carcere di Poggioreale “qui dentro si picchia ancora”


Carcere Poggioreale NapoliCerto non lo si può consigliare nelle guide turistiche. Eppure un giro nei pressi del carcere di Poggioreale può aiutare a conoscere Napoli almeno quanto una passeggiata in via Caracciolo. Bisogna fermarsi lì, davanti al bar “L’angolo della libertà”, un nome che dice tutto. Ci sono i familiari dei reclusi, una comunità solidale come poche. Non noterai i segni del dolore, la rabbia della privazione, ma una consuetudine che è fatalismo e spirito di adattamento.

Possibile che ci si rassegni anche ai pestaggi? Forse sì. Poggioreale è stata al centro di vicende gravissime negli anni scorsi, che nel 2014 hanno portato alla sostituzione di tutti i vertici: via la direttrice, il comandante della polizia penitenziaria, il direttore sanitario e il responsabile del Pedagogico. Ci si aspetterebbe anche un rinnovamento nella gestione dei reclusi. Ma le testimonianze raccolte lì, davanti all’ingresso di via Nuova Poggioreale riservato ai familiari, fanno temere che qualche scoria sia difficile da espellere.

Nella rassegnazione devi metterci anche la sentenza frettolosa di un signore sulla cinquantina, padre di un detenuto e a sua volta con un passato da recluso a Poggioreale. “Se hanno ricominciato a malmenarli? E perché ricominciato? Sono vent’anni che va avanti così”. S’infila nel cancello, non dice altro, rende l’idea di una terribile normalità. Informazioni più chiare le fornisce un uomo appena uscito dal penitenziario: “Sì, le guardie picchiano. Dipende anche dai padiglioni, ma certo ce ne sono alcuni dove le mani addosso alla gente le ho viste mettere”. Cosa succede esattamente? “Sono i sistemi che si usano soprattutto con i nuovi arrivati. Che vi devo dire, se si fa una fila e uno non sta perfettamente allineato, come sotto le armi, come minimo ti arriva uno scazzettone”. Uno schiaffo sulla nuca. “A chi è appena entrato in carcere danno una specie di benvenuto. Tu non sai che dentro devi rispettare regole di ferro come al militare: diciamo che te le fanno capire loro”.

Naturalmente non ci viene chiesto di sollevare un caso: fa tutto parte di una prassi ormai radicata. Continua l’ex recluso: “I padiglioni dove questo accade più spesso sono il Napoli e il Milano. Altri sono più tranquilli”. Altri come il Firenze, sostiene un signore sulla cinquantina che ha un fratello dentro e ha appena accompagnato la cognata: “Finora non ci ha raccontato niente di strano”. In effetti i padiglioni Firenze e Italia rappresentano un’eccezione positiva: sono gli unici in cui le celle restano aperte 8 ore al giorno.

Sul resto i numeri parlano chiaro. In giro ci sarà pure una tendenza alla decompressione, qui a Napoli est non sanno che significa: secondo i dati del Dap al 31 agosto si contavano 1.931 detenuti, 287 in più rispetto ai 1.644 posti della capienza “teorica”. Ma in pratica le cose vanno ancora peggio: c’è un’intera ala in ristrutturazione, il padiglione Genova. Fanno 111 posti in meno, come ricorda l’ultimo rapporto di Antigone. Vuol dire che i reclusi in sovrannumero raggiungono l’astronomica quota 400. E che Poggioreale è un carcere sovraffollato per oltre il 25 per cento.

In queste condizioni lavorare è difficilissimo anche per le guardie carcerarie. Una di loro descrive così la situazione: “I nuovi simil-camorristi sono ragazzetti di 18-20 anni. Gli ultimi morti a Napoli lo dimostrano. Il più delle volte hanno il cervello bruciato dalle droghe sintetiche, li guardi e ti chiedi com’è possibile definirli boss. Io non ho mai alzato le mani, non mi risulta alcun episodio, ma se a qualche collega fosse scappato uno schiaffo deve essere stato perché quando parli non ti capiscono nemmeno”.

Davanti all’ingresso dei familiari molti negano. Niente botte, dicono, mai arrivato un lamento, almeno su questo. Un padre si affanna verso l’entrata: “Mio figlio sta dall’altro ieri, ancora non ci ho parlato, non posso rispondere. Ma ‘e guagliune tenene ‘e cape ‘e merd”. Napoli è anche rassegnazione a una devianza giovanile più disperata che criminale. Eppure il dubbio resta: i tempi della “cella zero” – la gabbia liscia dove, come raccontò il pentito Fiore D’Avino, “ti picchiavano con le mazze coperte dagli asciugamani per non lasciarti i segni” – sono definitivamente andati o è rimasta una traccia? Su Poggioreale pesa una lontana maledizione: l’assassinio di Giuseppe Salvia, il vicedirettore che Raffaele Cutolo fece trucidare in Tangenziale nell’81. Due anni fa il penitenziario è stato intitolato proprio a Salvia. Con quell’atto ci si illuse di aver fermato la scia di repressione e rivolte seguita proprio alla bestiale vendetta di ‘o prufessore. Fu un’illusione appunto. E i fatti che nel 2014 hanno portato al trasferimento dell’ex direttrice Teresa Abate lo dimostrano. Ora qualcosa sembra cambiato davvero. Ma a Poggioreale c’è un virus sottile che nemmeno la gestione più rigorosa potrà mai allontanare del tutto.

Errico Novi

Il Garantista, 25 ottobre 2015

Parma: la denuncia di un ex detenuto “pugni, calci e costretto in cella in ginocchio”


CC Parma DAPIl racconto shock di un ex detenuto nel super carcere di Parma è finito in un esposto del garante dei detenuti e consegnato alla magistratura. Non sarebbe l’unico caso. Nell’ultimo anno presentate altre tre denunce. “Hanno indossato un paio di guanti neri e hanno iniziato a picchiarmi violentemente sferrandomi pugni alla testa, al volto e calci alla schiena. Io ero terrorizzato… Cadevo a terra ma uno dei due mi rialzava mentre l’altro continuava a colpirmi con pugni in testa e nella schiena… e ancora calci”. È il racconto shock di un ex detenuto che “l’Espresso” rivela in esclusiva.

Picchiato, costretto a stare nella cella in ginocchio e senza cena. Un incubo durato tre giorni. Una punizione extra per il recluso “infame” del carcere di Parma. Fatti che sono contenuti in un esposto ufficiale consegnato dal garante dei detenuti della città ducale, Roberto Cavalieri, ai magistrati della procura.

L’uomo che ha subito il pestaggio è un ingegnere di nazionalità italiana. Era stato arrestato per una presunta violenza sessuale, poi scarcerato e, attualmente, è in attesa di giudizio. Accusato di un crimine che in carcere ritengono infame, e per questo, secondo le regole non scritte del codice della galera, da sanzionare ulteriormente con il castigo corporale. Abusi che demoliscono il principio costituzionale della pena come rieducazione del condannato.

Il racconto dei soprusi, firmato e inviato agli inquirenti, è denso di particolari: “Durante il pestaggio entrambi continuavano a chiamarmi “bastardo, pezzo di merda”. Finito il pestaggio barcollante mi ordinavano di tornare in cella e dopo avermi aperto la porta dell’anticamera, riuscivo zoppicando ad arrivare fino alla mia cella, sedendomi sul letto. Chiusa la cella si avvicinava allo sportello della porta l’agente più alto che mi ordinava di mettermi subito in ginocchio sul pavimento e a testa bassa, dicendomi che sarei dovuto restare in quella posizione fino alle 18.00, ora in cui lo stesso avrebbe terminato il proprio turno”.

Non c’è pace, dunque, per il super carcere emiliano dove, tra l’altro, sono reclusi alcuni dei più importanti mafiosi italiani. Per un’altra storia di pestaggi e violenze sono già indagati 8 agenti incastrati dalle registrazioni pubblicate l’anno scorso da “l’Espresso” e poi acquisite dalla procura. È di questi giorni, poi, la notizia di un’altra indagine che riguarda un poliziotto che avrebbe passato un cellulare a un detenuto comune. Ma a quanto pare non è finita.

Perché altri esposti gettano ombre pesanti sull’operato di un gruppo uomini in divisa. L’esposto dettagliato del Garante dei detenuti si aggiunge, infatti, ad altri tre casi di presunte violenze a danno di altrettanti reclusi, due italiani e uno straniero, tutti segnalati, nell’ultimo anno, alla magistratura da Cavalieri.

Queste denunce però non hanno ancora portato a niente. Tutto fermo. Incluso il rapporto su quest’ultimo caso. Il documento è stato depositato in procura il 2 luglio 2015. In allegato c’è anche il racconto sintetico di quanto avvenuto tra il 4 e 6 aprile di quest’anno: “Sono stato vittima di un pestaggio ad opera di due agenti penitenziari e allo stesso tempo di una tortura durate tre giorni” scrive la vittima.

Una versione arricchita di particolari da una volontaria del carcere, che secondo fonti de “l’Espresso” sarebbe già stata sentita dai pm: “Il detenuto mi ha raccontato di essere stato violentemente picchiato da due agenti sabato 4 verso le 13, poi costretto a restare in ginocchio in cella senza cena per molte ore. Mi ha mostrato i grandi lividi nella schiena e sull’occhio sinistro. Io l’ho incontrato verso le 11 e sapeva che alle 13 sarebbe stato trasferito a Piacenza non essendoci a Parma la sezione protetti. La denuncia intendeva presentarla una volta giunto a Piacenza per evitare controdenunce. Il mio stato d’animo era appena “rientrato” per l’altra questione”.

La denuncia ricostruisce nei minimi particolari quei giorni: “Improvvisamente alla porta della cella si presentavano due agenti di Polizia penitenziaria, i quali iniziavano subito ad offendermi con frasi del tipo “brutto grassone di merda, vestiti, fai schifo”. I due agenti di Polizia Penitenziaria erano uno di statura alta, circa l,85 cm, con pochi capelli (o rasato o calvo), l’altro di statura medio bassa, circa 1,65 cm., con capelli scuri e barba, e con fede al dito. Senza fare questioni mi preparavo ed uscivo dalla cella.

Entrambi gli agenti sin dall’inizio della vicenda hanno tenuto nei miei confronti un atteggiamento minaccioso e mi hanno reiteratamente ingiuriato, proferendo al mio indirizzo, e ad alta voce, frasi quali “sei un pezzo di merda, bastardo, cosa hai fatto, brutto pezzo di merda, scendi giù”… “non guardare su, testa bassa e cammina rasente il muro, pezzo di merda”.

Ecco poi la descrizione del pestaggio: “I due agenti continuavano ad insultarmi pesantemente, in particolare quello più alto con frasi del tipo “pezzo di merda, cosa hai fatto allora eh? Bastardo, io ho una figlia se lo facevi a lei tu qui non ci saresti nemmeno arrivato, ti avrei ammazzato di botte”, mentre quello basso diceva “bastardo, ora vedi”.

Si infilavano poi un paio di guanti neri ciascuno, e dopo avermi spinto nell’angolo dell’anticamera, a destra rispetto alla porta di accesso al corridoio delle celle, avvicinandosi alla mia persona cominciavano a picchiarmi violentemente entrambi, sferrandomi pugni alla testa, al volto ed alla schiena, e calci alla schiena. Io ero terrorizzato e schiacciato nell’angolo dell’anticamera porgevo loro il lato sinistro del corpo. Cadevo anche a terra ma uno dei due mi rialzava mentre l’altro continuava a sferrarmi pugni in testa e nella schiena ed ancora calci, mentre io cercavo invano di coprirmi dai colpi. Durante il pestaggio entrambi continuavano a chiamarmi “bastardo, pezzo di merda”.

Ma l’umiliazione, stando al racconto, prevedeva un ultimo terribile passaggio: “Finito il pestaggio barcollante mi ordinavano di tornare in cella e dopo avermi aperto la porta dell’anticamera, riuscivo zoppicando ad arrivare fino alla mia cella, sedendomi sul letto. Chiusa la cella si avvicinava allo sportello della porta l’agente più alto che mi ordinava di mettermi subito in ginocchio sul pavimento e a testa bassa, dicendomi che sarei dovuto restare in quella posizione fino alle 18.00, ora in cui lo stesso avrebbe terminato il proprio turno”.

Anche nei due giorni successivi l’ex detenuto è stato costretto a mettersi in ginocchio. Con il corpo pieno di lividi e terrorizzato, il 7 aprile lascia il carcere di Parma. Per lui è previsto il trasferimento a Piacenza. E qui che medici e agenti penitenziari durante la registrazione di ingresso si rendono conto delle sue condizioni. Partono così una serie di accertamenti fatti dallo stesso corpo di polizia del penitenziario piacentino. Verifiche avviate anche dal direttore del carcere di Parma sollecitato con una lettera dal garante dei detenuti.

“Visti gli elementi emersi nella Sua missiva si è provveduto a notiziare le autorità competenti e svolgere opportuni accertamenti”, si legge nella risposta del dirigente del penitenziario. Sono trascorsi sette mesi dalla risposta del direttore e quattro dalla denuncia del garante. Ma la nebbia su questi presunti pestaggi nel carcere più sicuro d’Italia non si è ancora diradata.

Giovanni Tizian

L’Espresso, 21 ottobre 2015

Giustizia: caldo, ferie e meno volontari; ecco perché tanti suicidi di detenuti in estate


detenuti sbarre cellaL’Amministrazione penitenziaria “ha richiamato l’attenzione delle direzioni degli istituti penitenziari a mettere in atto tutti i necessari interventi per agevolare condizioni detentive meno afflittive a causa delle elevate temperature di questa stagione estiva”.

Dal 4 gennaio al 31 agosto 2015 si sono verificati 29 casi di suicidi di persone detenute, 12 casi si sono verificati tra giugno e agosto. Lo rende noto il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, rilevando che “il periodo estivo presenta indubbiamente maggiori criticità rispetto agli altri periodi dell’anno, dovute non solo all’aumento della temperatura, particolarmente elevata questa estate, bensì anche agli aspetti organizzativi, sui quali incide il periodo feriale del personale penitenziario, con la conseguente riduzione delle attività trattamentali. Parimenti, il volontariato, che negli altri periodi dell’anno assicura sempre la sua massima preziosa attenzione, registra una minore presenza”.

La serie storica dei suicidi di detenuti (a partire dal 1990) dimostra che non può essere attribuito a un unico fattore (sovraffollamento, condizioni climatiche, stato giuridico, fine pena, rapporti con la famiglia, aspettative per il futuro, malattia, nazionalità, ecc.).

la causa scatenante del gesto suicidano, quanto piuttosto a un insieme di cause. In riferimento agli articoli di stampa che hanno evidenziato l’intensificarsi dei suicidi nel periodo estivo, il Dap precisa che “ha richiamato l’attenzione delle direzioni degli istituti penitenziari a mettere in atto tutti i necessari interventi per agevolare condizioni detentive meno afflittive a causa delle elevate temperature di questa stagione estiva. In particolare, è stato raccomandato di consentire un più frequente utilizzo delle docce e l’apertura dei blindati anche nelle ore notturne per consentire un maggiore flusso di aria; intensificare il consumo di frutta e verdura; disponibilità di borse termiche e di ghiaccio per raffreddare le bevande e per la conservazione dei cibi; garantire la possibilità di usufruire, come per il resto dell’anno, di colloqui pomeridiani e festivi”. Per fronteggiare l’emergenza idrica, in atto da mesi presso la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, dovuta al mancato collegamento dell’impianto idrico dell’istituto all’acquedotto comunale, è stata notevolmente diminuita la presenza dei detenuti, disponendo, tra l’altro, il trasferimento di circa 130 detenuti, di cui 30 del circuito Alta Sicurezza, presso altri istituti campani. Ciò ha reso possibile liberare i piani alti dell’istituto.

Il Provveditorato regionale della Campania ha inoltre emanato provvedimenti atti ad attenuare il disagio derivante da tale criticità, mediante la distribuzione di due litri di acqua potabile al giorno a ogni detenuto, in aggiunta al vitto ordinario; la fornitura di taniche di venti litri per ogni stanza da utilizzare quale riserva in caso di improvvisa mancanza di acqua; la fornitura di frigoriferi nei reparti per il deposito di bottiglie d’acqua o di altri generi alimentati; la fornitura e l’installazione di sei cisterne di acqua potabile ubicate nelle cucine detenuti e mensa agenti.

Il Garantista, 2 settembre 2015