Il regime detentivo speciale ex Art. 41 bis O.P. torna davanti alla Corte Costituzionale. Ancora una volta per gli assurdi ed irragionevoli divieti imposti ai detenuti che nulla hanno a che vedere con le esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza interna ed esterna sottese al regime speciale. Circa un anno fa la Consulta con Sentenza n. 186/2018 (Presidente Giorgio Lattanzi, Relatore Nicolò Zanon) pronunciandosi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Magistrato di Sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’Art. 41 bis c. 2 quater lett. f) O.P., nella parte in cui prevedeva il divieto, per i detenuti sottoposti al regime differenziato, di cuocere cibi, per contrasto con gli Artt. 3 e 27 della Costituzione. La quaestio legitimitatis è stata ritenuta fondata dalla Corte, poiché il divieto di cuocere cibi è un divieto «privo di ragionevole giustificazione», «incongruo e inutile alla luce degli obbiettivi cui tendono le misure restrittive autorizzate dalla disposizione in questione». Per il Giudice delle Leggi non si trattava di «affermare, né per i detenuti comuni, nè per quelli assegnati al regime differenziato, l’esistenza di un “diritto fondamentale a cuocere i cibi nella propria cella”: si tratta, piuttosto di riconoscere che anche chi si trova ristretto secondo le modalità dell’Art. 41 bis O.P. deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la libertà individuale».
Nei giorni scorsi, la Corte di Cassazione, Prima Sezione Penale, con le Ordinanze n. 43436/2019 e n. 43437/2019 (Presidente Adriano Iasillo, Relatore Carlo Renoldi) nell’ambito dei ricorsi proposti dal Ministero della Giustizia, per mezzo dell’Avvocatura dello Stato, nei Procedimenti relativi a Gennaro Gallucci e Carmelo Giambò, entrambi sottoposti al regime detentivo speciale, il primo nella Casa di Reclusione di Spoleto ed il secondo nella Casa Circondariale di Terni, contro le Ordinanze del Tribunale di Sorveglianza di Perugia n. 1115/2018 e n. 1105/2018, che aveva accolto i reclami ex Art. 35 bis O.P. proposti dai due detenuti a seguito del divieto imposto dall’Amministrazione Penitenziaria di potersi scambiare oggetti di qualunque genere, ivi compresi i generi alimentari provenienti dai consueti canali (pacco famiglia, acquisti effettuati attraverso il circuito interno dell’istituto penitenziario in base al cd. mod. 72) anche se appartenenti al medesimo “gruppo di socialità”. Infatti, secondo i detenuti reclamanti, dallo scambio di oggetti, non poteva configurarsi alcun rischio per le finalità previste dall’Art. 41 bis O.P., considerato che i detenuti interessati dallo scambio, appartenendo al medesimo gruppo, erano già stati ammessi a fruire in comune la cd. socialità.
Il Tribunale di Sorveglianza di Perugia, accolse i reclami e, per l’effetto, disapplicò le determinazioni assunte dall’Amministrazione Penitenziaria (Circolari e Ordini di Servizio) ordinandole di emettere un Ordine di Servizio volto a consentire il passaggio di oggetti e di generi alimentari tra i detenuti facenti parte del medesimo gruppo di socialità, soprattutto perché essendo lo scambio di oggetti comunque limitato, in base alla previsione generale dell’Art. 15 del Reg. Es. O.P., a quelli di “modico valore”, con conseguente impossibilità di configurare alcuna “posizione di supremazia” tra i detenuti, il divieto di scambio tra soggetti del medesimo gruppo di socialità non poteva essere giustificato da ragioni di sicurezza, non rilevandosi alcuna congruità tra lo stesso e il fine perseguito dal regime differenziato, costituito dalla necessità di recidere i collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza. Infatti, dal momento che i detenuti riferibili al medesimo gruppo di socialità possono incontrarsi liberamente, doveva escludersi che, attraverso il divieto di scambio di oggetti di modico valore (e finanche di generi alimentari), potesse essere neutralizzato il pericolo per l’ordine e la sicurezza costituito dal passaggio di comunicazioni non consentite, potendo le stesse essere trasmesse oralmente. Su tali premesse, il Collegio ritenne, dunque, che il divieto in discussione si palesasse come «meramente vessatorio», tale da determinare una irragionevole disparità di trattamento tra detenuti ordinari e detenuti sottoposti al regime dell’Art. 41 bis O.P., con conseguente violazione del principio affermato dall’Art. 3 della Costituzione, coerentemente agli arresti della giurisprudenza costituzionale.
Il Sostituto Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione Paolo Canevelli, con requisitoria scritta, condividendo l’Ordinanza impugnata per aver interpretato la norma restrittiva in maniera rispettosa dei fondamentali principi costituzionali, così come ricostruiti dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale la quale, in più occasioni, ha affermato la ingiustificata disparità di trattamento tra detenuti ordinari e detenuti sottoposti al regime penitenziario differenziato in tutti i casi in cui le limitazioni imposte a questi ultimi non siano funzionali all’obiettivo primario del regime ex Art. 41 bis O.P., costituito dall’escludere i contatti tra il detenuto e il gruppo criminale di riferimento, ha chiesto il rigetto dei ricorsi proposti dal Ministero della Giustizia.
La Corte di Cassazione, atteso che la funzione della sospensione del regime penitenziario ordinario ex Art. 41 bis O.P. deve essere individuata, secondo quanto più volte sottolineato dalla Corte Costituzionale, nella necessità di rescindere i collegamenti ancora attuali sia tra i detenuti che appartengano a determinate organizzazioni criminali, sia tra gli stessi e gli altri componenti del sodalizio che si trovano in libertà, ha ritenuto di dover sollevare d’ufficio, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli Artt. 3 e 27 della Costituzione, dell’Art. 41 bis c. 2 quater lett. f) O.P. Per la Cassazione, mentre la previsione secondo cui l’Amministrazione Penitenziaria deve assicurare il divieto assoluto di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità appare effettivamente funzionale a garantire gli obiettivi di prevenzione della misura, l’ulteriore disposizione, concernente il divieto di scambio di oggetti, indifferentemente, a tutti gli altri ristretti, ancorché appartenenti al medesimo gruppo di socialità, non può, invece, ritenersi funzionale a fronteggiare alcun pericolo per la sicurezza pubblica, assumendo «una portata meramente afflittiva». Mentre nel primo caso, infatti, lo scambio di oggetti potrebbe consentire di veicolare informazioni tra soggetti che, in quanto assegnati a differenti gruppi di socialità, l’Amministrazione ha ritenuto, sulla base di una valutazione in concreto, non debbano essere ammessi a comunicare proprio per interrompere ogni forma di relazione e per ovviare al pericolo della circolazione di determinate conoscenze, nella seconda ipotesi tale essenziale esigenza è, per definizione, inesistente, dal momento che proprio la comune appartenenza al medesimo gruppo consentirebbe, a monte, lo scambio di qualunque contributo informativo; e ciò senza dover ricorrere, appunto, allo scambio di oggetti. Nè potrebbe ritenersi che il divieto di scambio di oggetti possa giustificarsi in rapporto alla necessità di impedire che taluno dei soggetti del sinallagma possa, attraverso tale operazione, acquisire una posizione di supremazia nel contesto penitenziario.
Per tali ragioni, la Corte di Cassazione, ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’Art. 41 bis c. 2 quater lett. f) O.P., con riferimento agli Artt. 3 e 27 della Costituzione, «nella parte in cui prevede che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di scambiare oggetti per i detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità», disponendo la immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, sospendendo i giudizi in corso, nonché la notifica al ricorrente Ministero della Giustizia, ai detenuti reclamanti, al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, al Presidente del Consiglio dei Ministri e la comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Emilio Enzo Quintieri
Cass. Pen., Sez. I, Ord. n. 43436 del 2019 (clicca per scaricare)
Cass. Pen., Sez. I, Ord. n. 43437 del 2019 (clicca per scaricare)
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