Prof. Fiandaca : Gli studiosi del Diritto Penale e Costituzionale salutano con favore la sentenza Cedu contro l’ergastolo ostativo


L’attesa pronuncia della Corte Costituzionale potrebbe essere l’occasione per precisare ulteriormente cosa debba intendersi per rieducazione. La sentenza della Corte di Strasburgo, che ha ravvisato un contrasto tra l’ergastolo ostativo e l’art. 3 della Cedu (divieto di trattamenti inumani e degradanti), ha suscitato reazioni di segno opposto. Gli studiosi di diritto penale e costituzionale la hanno salutata con prevalente favore, mentre dal fronte dei magistrati antimafia si è levato un allarmato coro di critiche e preoccupazioni: come se la bocciatura di questa forma di ergastolo equivalga, addirittura, a un cedimento dello Stato alle mafie.

Pur senza contestare l’esigenza prioritaria di contrastare il fenomeno mafioso, ho l’impressione che la magistratura antimafia assolutizzi la dimensione dell’efficacia degli strumenti di lotta, finendo col perdere di vista un punto sul quale anch’essa dovrebbe in teoria concordare: la politica criminale non può non soggiacere, anche nel settore della criminalità organizzata, ai limiti e ai vincoli che il costituzionalismo nazionale ed europeo oppone a garanzia dei fondamentali diritti individuali degli stessi delinquenti. Se quello della massima efficacia fosse l’unico parametro di valutazione, perché allora non ricorrere alla tortura per fare pentire i mafiosi o non impiegare mezzi bellici per scardinare le organizzazioni criminali?

Preoccupata soprattutto del rischio di indebolimento dell’azione di contrasto, l’antimafia giudiziaria ha dunque mostrato minore sensibilità per le ragioni di principio e valoriali poste alla base della sentenza europea. Eppure, si tratta di ragioni che affondano le radici in un retroterra di principi di fondo largamente consonanti con quelli che la Costituzione italiana stabilisce in materia di delitti e pene, e che la nostra Corte Costituzionale va progressivamente affinando di sua iniziativa o – come da qualche tempo accade – in dialogo con le Corti europee. A cominciare dal principio di rieducazione e da quello di umanità delle pene, che rappresentano sempre più due principi-cardine anche per l’odierna giurisprudenza di Strasburgo.

Appunto partendo da tali principi, i giudici europei hanno in sintesi ragionato così: richiedere la collaborazione giudiziaria – come fa l’ordinamento italiano, eccetto che nei casi di collaborazione impossibile o irrilevante – quale condizione necessaria per concedere agli ergastolani mafiosi (o terroristi) la liberazione condizionale o i cosiddetti benefici penitenziari, equivale a trascurare che i progressi sulla via della rieducazione sono possibili e accertabili anche in mancanza di collaborazione giudiziaria, per cui il disconoscerlo finisce col rinnegare il diritto alla speranza e col ledere la dignità umana dell’ergastolano non collaborante.

Rimane, tuttavia, ancora incerto il modo di intendere la rieducazione specie quando il condannato sia un boss mafioso autore di una pluralità di gravi delitti. Che non tutto sia chiaro emerge, ad esempio, dai provvedimenti giudiziari relativi al recente diniego della detenzione domiciliare al boss pluriomicida “pentito” Giovanni Brusca (condannato non all’ergastolo, ma a una lunga pena detentiva grazie agli effetti della collaborazione) e dai commenti anche in forma di interviste apparsi sulla stampa.

Mentre nell’ottica in particolare dei magistrati d’accusa l’avere fornito una collaborazione giudiziaria duratura ed efficace costituisce un affidabile criterio diagnostico di ravvedimento, nella diversa prospettiva di almeno una parte dei giudici di sorveglianza (e delle vittime di mafia) la rieducazione di un efferato mafioso implicherebbe qualcosa di più: cioè un mutamento profondo e sensibile della personalità, una sorta di ‘pentimento civile inclusivo di momenti di riconciliazione-riparazione anche simboliche nei confronti dei discendenti delle vittime. Ma un concetto così impegnativo di rieducazione, denso di implicazioni eticheggianti ed emozionali, va ben al di là della nozione più laica finora adottata dalla Consulta: la quale identifica il ravvedimento con l’acquisita capacità, da parte del condannato che interrompe lo stato detentivo, di rispettare le regole della convivenza sociale.

È auspicabile che la Corte Costituzionale, in occasione della prossima pronuncia sul caso dell’ergastolano mafioso non collaborante Sebastiano Cannizzaro, precisi ulteriormente cosa debba intendersi per rieducazione, e non si limiti a prendere in esame il nodo dei rapporti tra rieducazione e collaborazione.

Giovanni Fiandaca – Professore Ordinario di Diritto Penale Università di Palermo

Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2019

Prof. Sergio Moccia: Lo Stato di diritto non conosce eccezione alle regole che pone. L’ergastolo ostativo è incostituzionale


La Grand Chambre della Corte europea per i diritti dell’uomo ha deciso di invitare l’Italia a modificare la legge che dispone l’ergastolo ostativo, quello, cioè, effettivamente senza fine, a meno che il recluso non decida di collaborare. In realtà la Grand Chambre ha ribadito quanto la Corte aveva già stabilito in una decisione del giugno scorso, contro cui il Governo italiano aveva presentato ricorso evidenziando, tra l’altro, la conformità della sanzione alla Costituzione italiana, stabilita nel 2003 da una decisione “tartufesca” della Corte costituzionale, che grida vendetta per la sua inconsistenza argomentativa.

In poche parole, secondo la Corte l’ammissione al beneficio è l’esito di una “libera scelta del condannato” di collaborare e quindi non viene in discussione l’art.27 c. 3 Cost.; ma la Corte non tiene conto che questa libera scelta può essere condizionata dai possibili riflessi sui familiari e del fatto che chi sia innocente, eppur condannato, non abbia alcun modo di “collaborare”, a meno di inventarsi qualcosa.

Tre, invece, gli argomenti – di ben altra consistenza, civile e giuridica – alla base della decisione della Corte europea dei Diritti umani (Cedu): in primo luogo, il contrasto con il principio di difesa della dignità umana di una norma che non consente a chi sia privato della libertà di poterla, a determinate condizioni, riacquistare; quindi, l’inconsistenza della presunzione di pericolosità a fronte della mancata collaborazione, senza considerare i progressi del singolo sulla via della legalità; ed infine il dubbio forte sulla libertà della scelta, tenuto conto delle possibili gravi conseguenze nei confronti di terzi.

Originariamente, a norma dell’art. 4-bis ord. penit., non è consentita l’applicazione dei benefici penitenziari, tra cui la liberazione anticipata, per gli “irriducibili” di mafia e terrorismo, per il solo fatto della mancata “collaborazione”. Inoltre, l’art. 41-bis ord. penit., per “gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica”, dà la facoltà di sospendere il trattamento rieducativo, ben oltre quanto richiesto da legittime esigenze di isolamento dall’esterno: il che altro non significa che l’adozione del carcere duro. Le due norme tracciano orientamenti rigoristico-deterrenti che poco hanno a che vedere con le disposizioni costituzionali in materia.

In generale, la via per ottenere i benefici per gli ergastolani è prevista valutando il percorso rieducativo e di reinserimento (formazione professionale, attività lavorativa e così via) a cui il recluso partecipa durante la permanenza in carcere. A questo punto non ha alcun fondamento razionale la presunzione assoluta secondo cui la mancata “collaborazione” sia in ogni caso ascrivibile all’assenza di progressi nella direzione della rieducazione. D’altro canto, come fa notare la Cedu, punire la mancata “collaborazione” non ha altro significato che effettuare violenza alla libertà morale del recluso, in palese violazione dell’art. 3 Cedu, che vincola anche l’Italia: norma posta a presidio della dignità umana, di cui è componente essenziale la libertà morale. A ciò si aggiunga che l’art. 27 c. 3, oltre al basilare principio di rieducazione, nella prima parte sancisce solennemente il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità.

Si replica diffusamente, anche da parte di chi dovrebbe avere contezza di Costituzione e Convenzioni, che il superamento della micidiale combinazione normativa, che dà vita all’ergastolo “ostativo duro”, sarebbe visto come un segnale di debolezza e pregiudicherebbe la lotta alle mafie, laddove la coazione a collaborare – in spregio alla normativa costituzionale e convenzionale vigente – rappresenterebbe uno strumento vincente.

Ma, a questo punto, visto che per esigenze di sicurezza o di ordine si possono impunemente violare norme fondamentali, viene da chiedersi perché non utilizzare mezzi più efficaci, più sbrigativi al fine di “ottimizzare” le “collaborazioni”.

Chi stabilisce qual è il limite della violazione della dignità umana? La verità è che lo stato di diritto non conosce eccezione alle regole che pone, pena la sua stessa credibilità. Insomma, si abbia il coraggio di abrogare l’art.27 c. 3 e si rinunci alla Cedu, se si vogliono perseguire in materia penale prospettive diverse dallo stato di diritto.

Il sistema penale a fondamento costituzionale ha la finalità di assicurare il singolo e la pacifica coesistenza fra i consociati, ma non di adottare qualsiasi mezzo ritenuto idoneo al suo perseguimento, altrimenti verrebbe in discussione uno dei due compiti fondamentali: la tutela del singolo. In altri termini è consentito l’intervento penale, ma sempre nel rispetto assoluto di predeterminate garanzie, dettate dalla Costituzione e dalle Convenzioni.

Ciò di cui si discute non è la convenienza dello scopo, ma la conformità dei mezzi adoperati rispetto all’assetto fondamentale dell’ordinamento giuridico.

In questa prospettiva l’intervento penale si giustifica se riesce ad armonizzare la sua necessità per il bene della società con il diritto, anch’esso da garantire, del soggetto al rispetto dell’autonomia, dunque della libertà e della dignità della sua persona.

Sergio MocciaEmerito di Diritto Penale Università degli Studi di Napoli Federico II

Il Manifesto, 18 ottobre 2019

Fiorentin (Magistrato di Sorveglianza): Anche agli ergastolani ostativi va assicurato il “diritto alla speranza”


Un passo di civiltà giuridica che non equivale a liberare i mafiosi. La dottrina si è schierata in favore della messa a regime costituzionale della pena perpetua ostativa, mentre voci di dissenso si sono levate dalla magistratura inquirente.

La decisione che Corte costituzionale assumerà all’udienza del 22 ottobre potrebbe segnare – anche sul versante del diritto interno – il fine corsa dell’ergastolo ostativo, già dichiarato “fuori legge” sul piano internazionale dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo con la sentenza del 13 giugno, Viola c. Italia, per il suo contrasto con l’esigenza del rispetto della dignità umana.

Con voce unanime, la dottrina si è apertamente schierata in favore della “messa a regime costituzionale” della pena perpetua ostativa, mentre voci di dissenso si sono levate dalla magistratura inquirente, per il timore che un indebolimento o – peggio – una sterilizzazione della pena massima possa infliggere un colpo mortale alla lotta contro quello che la stessa Corte di Strasburgo ha definito il “flagello” mafioso.

Benché non possa sottovalutarsi il carattere anche fortemente simbolico del “fine pena mai”, alcune considerazioni dovrebbero allontanare timori del genere sollevato dagli inquirenti. Anzitutto, occorre chiarire che la Consulta non è affatto chiamata a dire la parola fine alla pena dell’ergastolo “costituzionalizzato” (compatibile cioè, con i princìpi della Costituzione che vogliono tutte le pene conformi al senso di umanità e rivolte al recupero sociale del condannato). Anche nel caso la Corte Costituzionale si pronunciasse in termini conformi alla recente sentenza europea, infatti, non si avrebbe alcun automatico accesso degli ergastolani “ex-ostativi” ai benefici penitenziari né alcuna rimessione in libertà di pericolosi boss mafiosi.

Si tratta di una considerazione che potrebbe risultare perfino banale, ma tale evidentemente non è, se anche i giudici alsaziani hanno sentito il bisogno di precisarlo in un passaggio della sentenza Viola. L’ergastolo, si ribadisce quindi, rimane tale. L’elemento di novità – se Roma parlasse il medesimo linguaggio di Strasburgo – sarebbe, infatti, rappresentato dalla restituzione alla Magistratura di Sorveglianza del vaglio sulla meritevolezza dei condannati all’ergastolo in rapporto ai singoli benefici penitenziari di volta in volta richiesti, con l’osservanza – a tutela delle esigenze di difesa sociale – di due fondamentali condizioni, già patrimonio del diritto vivente e dunque non in discussione: la progressione trattamentale che vuole, al concretizzarsi dei presupposti previsti dalla legge, l’accesso dei detenuti a forme iniziali di contatto con l’esterno, quali i permessi o le licenze, per arrivare quindi alla semilibertà e, solo al termine del percorso esecutivo, alla liberazione condizionale (criterio che sarà tanto più rigido quanto più rilevante sia il quadro criminologico del condannato); e l’accertamento dell’assenza di attuali collegamenti del soggetto con il sodalizio mafioso di appartenenza.

Il punto di equilibrio tra le esigenze rieducative connesse ai princìpi costituzionali e quelle di contrasto alla criminalità organizzata di matrice mafiosa, assicurato, nei termini sopra delineati, da una “costituzionalizzazione” dell’ergastolo ostativo costituirebbe inoltre, paradossalmente, la miglior garanzia della sopravvivenza della pena perpetua nel nostro sistema penale, dal momento che ben difficilmente si potrebbero trovare nella giurisprudenza convenzionale e in quella costituzionale anche solo un accenno di contrarietà alle pene di lunga durata e finanche all’ergastolo.

Ciò che conta, per le Corti di garanzia, è che l’ordinamento assicuri, anche al condannato per il più efferato dei delitti, dunque anche all’ergastolano, quel “diritto alla speranza” a che, al verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge e qualora non vi siano ragioni connesse al rischio di recidiva e la persona che si sia dimostrata meritevole di essere reinserita nella società libera, si schiuda per costui una concreta prospettiva di rilascio in seguito ad un riesame da parte dell’autorità giudiziaria.

Nessun “liberi tutti”, dunque, ma più semplicemente la restituzione alla magistratura di sorveglianza di quel vaglio sulla persona fondato su dati giudiziari, sulle informazioni e i pareri espressi dai vertici investigativi (Dna e Dda), sugli elementi desunti dall’osservazione sulla personalità del condannato attraverso un periodo di tempo anche protratto, in esito al quale può (ma non necessariamente deve) avviarsi un graduale percorso ai benefici penitenziari, attraverso un percorso graduale e costantemente sottoposto al controllo del giudice, dei servizi sociali e delle forze dell’ordine tale che, in caso di comportamenti del soggetto non conformi alla legge o alle prescrizioni imposte, può ricondurre il condannato all’espiazione della pena nel contesto detentivo.

Un sistema così strutturato dovrebbe sopire i timori di coloro che oggi paventano rischi per la tutela delle esigenze di difesa sociale, anche perché si tratta di un sistema che ha dato prova di funzionare da efficace presidio al rischio di recidiva. Tre dati parlano da sé: la quota nient’affatto “allarmante” di condannati ammessi a misure esterne al carcere (inferiore al 50% dei ristretti); l’ancor più ridotto numero di detenuti che, ammessi alle misure extra-murarie, commettono nuovi delitti o, evadendo, si sottraggono all’esecuzione (qui si parla addirittura di percentuali prossime allo “0 virgola”); per contro, l’altissima percentuale di persone che, ammesse ad un percorso di reinserimento sociale nel corso della detenzione, non incorrono successivamente in fenomeni di recidiva nel reato (percentuale che, come è noto, sostanzialmente si azzera in presenza di un’attività di lavoro stabile e conservata anche dopo il “fine pena”).

Il requiem per l’ergastolo ostativo segnerebbe anche il destino di importanti strumenti di lotta alla criminalità organizzata? Anche in questo caso, la risposta è: nient’affatto. Nessun impatto, infatti, si può prospettare sulla disciplina del regime detentivo speciale di cui all’ art. 41bis dell’ordinamento penitenziario, la cui strutturazione non verrebbe scalfita dall’eventuale tramonto dell’ergastolo ostativo.

Non sarebbe neppure messa in discussione, nella sua valenza premiale, l’istituto della collaborazione con la giustizia (art. 58ter ord. penit.). Resterebbe, infatti, vigente l’art. 16-nonies del d.l. 8/1991 che incentiva la collaborazione con la giustizia e l’abbattimento dei limiti di pena per l’accesso ai benefici previsto per chi collabora attivamente con la giustizia dall’art. 58ter ord. penit., lasciando, quindi, intatta la “corsia preferenziale” per i condannati collaboratori di giustizia nell’applicazione di taluni importanti benefici premiali.

Verrebbe meno, invece, la preclusione assoluta alla concessione dei benefici in assenza di una collaborazione effettiva. L’attuale sistema, tuttavia, già possiede sperimentati strumenti per “assorbire” gli effetti della fine dell’ostatività assoluta della pena perpetua, che sarà sostituita dall’esame (ri)affidato alla competenza tecnica e alla responsabilità della magistratura di sorveglianza, posto che quest’ultima sarà comunque tenuta a una rigorosa disamina anche dei profili di pericolosità sociale del condannato sulla cui base articolare un eventuale e graduale accesso a benefici esterni al carcere.

Fabio FiorentinMagistrato di Sorveglianza di Firenze

Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2019

Biondi (UniMilano), La collaborazione con la Giustizia all’esame della Consulta: le difficoltà della decisione


La Corte è chiamata a valutare se la mancata collaborazione con la giustizia sia una preclusione all’accesso ai benefici penitenziari fondata sulla constatazione per cui gli appartenenti al sodalizio mafioso si distaccano dalla realtà criminale solo rinnegandola o se essa comprima il ruolo del giudice nel favorire il percorso rieducativo. Dopo anni di silenzio l’istituto della collaborazione con la giustizia è al centro del dibattito pubblico, sia per effetto della condanna inflittaci dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza Viola, sia per l’attesa della decisione della Corte costituzionale che, il prossimo 22 ottobre, è chiamata a pronunciarsi su una questione “affine”.

“Affine”, e non identica, perché la Corte europea si è occupata del c.d. “ergastolo ostativo”, ossia dell’impossibilità per gli ergastolani che non collaborano di accedere alla liberazione condizionale rendendo così la loro pena perpetua non solo de iure, ma anche de facto, mentre la Corte italiana dovrà valutare se contrasta con gli artt. 3 e 27 della Costituzione la norma che impedisce ai condannati per gravi reati non collaboranti di ottenere un permesso premio.

Non è una decisione facile quella che attende la Corte costituzionale.

Da un lato, certamente pesano gli argomenti spesi dalla Corte Cedu, per la quale la collaborazione non può essere condizione preclusiva alla liberazione condizionale, ossia all’unico istituto che rende l’ergastolo pena conforme al principio rieducativo. Secondo la Corte europea non si può subordinare alla collaborazione l’aspirazione dell’ergastolano ad uscire dal carcere: poiché la mancata collaborazione può essere dettata da varie ragioni (ad esempio, per non mettere a repentaglio la vita i propri cari), la valutazione sulla pericolosità sociale del detenuto dovrebbe essere sempre solo rimessa al giudice caso per caso.

Dall’altro, però, la Corte costituzionale è giudice “italiano” e bene conosce le ragioni che, dopo la strage di Capaci, indussero il Governo a presentare il decreto legge n. 306 del 1992 con cui fu appunto introdotto, solo per alcuni specifici reati (associazione mafiosa, traffico di stupefacenti e sequestro a scopo di estorsione), l’obbligo di collaborare con la giustizia quale condizione per l’accesso ai benefici penitenziari. Significative le parole dell’allora Ministro della Giustizia Claudio Martelli, che, durante i lavori parlamentari, vide nella collaborazione l’arma più efficace per contrastare la criminalità organizzata, visto che “praticamente tutti i processi che hanno ottenuto qualche risultato (..) sono stati fondati sulla collaborazione di ex appartenenti alle associazioni di stampo mafioso”.

Volendo sintetizzare le questioni che dovrà sciogliere, si può dire che la Corte è oggi chiamata a valutare se la mancata collaborazione con la giustizia sia una preclusione all’accesso ai benefici penitenziari ragionevolmente fondata sulla constatazione per cui gli appartenenti al sodalizio mafioso si distaccano dalla realtà criminale in cui sono nati e vissuti solo rinnegandola (come in questi giorni affermato da molti magistrati impegnati nella lotta alle mafie) ovvero se essa, impedendo una valutazione complessiva del detenuto, comprima il ruolo del giudice nel favorire il percorso rieducativo (come invece perlopiù sostenuto dalla dottrina e dalla magistratura di sorveglianza).

La Corte costituzionale potrebbe però anche considerare che lo Stato, imponendo la collaborazione, non ha inteso solo assicurarsi che il condannato si sia distaccato dal contesto criminale di provenienza, ma ha voluto anche ottenere informazioni utili per ragioni di politica criminale.

Il ragionamento sarebbe diverso: vero che, come chiedeva Kant, non si dovrebbe “strumentalizzare” una persona per fini non suoi, ma sarebbe in gioco la sicurezza pubblica … In questa prospettiva, la Corte sarebbe allora chiamata a svolgere un giudizio di proporzionalità tra mezzo utilizzato (obbligo di collaborare al fine di acquisire informazioni necessarie a combattere la criminalità) ed entità del sacrificio dei principi costituzionali (rieducazione e libertà morale), a valutare se questa strategia sia ancora “attuale”, se, nel corso del tempo, abbia prodotto, o meno, dei risultati.

In definitiva, vista la complessità dei temi sul tappeto, è difficile prevedere l’esito della decisione della Corte. Quale che sia, dobbiamo però confidare che le riflessioni suscitate da queste vicende sulle “ragioni” della collaborazione con la giustizia con riferimento ai condannati per reati “di mafia” abbiano eco anche in Parlamento, dove nel corso degli anni si è invece persa memoria dell’origine dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario e tale disposizione è stata irragionevolmente riempita di reati che nulla hanno a che vedere con la lotta alle mafie. Inoltre – ma su questo la Corte ha per fortuna già avuto occasione incidere – spesso i condannati per tutti reati oggi elencati nell’art. 4 bis, collaboranti o no, sono stati automaticamente esclusi, ex lege, dall’accesso da benefici penitenziari, con scelte, queste sì, facilmente ascrivibili al populismo giudiziario.

Francesca Biondi – Professoressa di Diritto Costituzionale Università degli Studi di Milano

Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2019