È incostituzionale negare qualsiasi beneficio penitenziario ai condannati all’ergastolo per aver causato la morte di una persona sequestrata a scopo di estorsione, terrorismo o eversione, prima che abbiano scontato almeno 26 anni di detenzione. La preclusione assoluta è intrinsecamente irragionevole alla luce del principio stabilito dall’articolo 27, terzo comma, della Costituzione, secondo il quale le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lo ha affermato la Corte Costituzionale nella sentenza n. 149 depositata oggi 11 luglio 2018 (Presidente Giorgio Lattanzi e Giudice Relatore Francesco Viganò), con la quale è stato dichiarato incostituzionale l’articolo 58 quater, comma 4, della Legge n. 354/1975 sull’Ordinamento Penitenziario là dove si applica ai condannati all’ergastolo per i due “reati ostativi” previsti dagli articoli 630 e 289 bis del codice penale.
La questione era stata sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Venezia, al quale un condannato all’ergastolo per sequestro a scopo di estorsione e omicidio della vittima aveva chiesto di poter accedere al regime di semilibertà avendo trascorso più di 20 anni in carcere, dove si era meritevolmente impegnato in attività lavorative e di studio. In primo luogo, i giudici costituzionali hanno ritenuto che la norma sovvertisse indebitamente la logica di progressività con cui, secondo il vigente ordinamento penitenziario, il condannato all’ergastolo deve essere aiutato a reinserirsi nella società, attraverso benefici che gradualmente attenuino il regime carcerario, favorendone contatti via via più intensi con l’esterno del carcere. Di regola, infatti, già dopo avere scontato 10 anni di pena, l’ergastolano, se mostra una fattiva partecipazione al programma rieducativo, può beneficiare dei primi permessi premio e può essere autorizzato a uscire dal carcere per il tempo strettamente necessario a svolgere attività lavorativa all’esterno delle mura penitenziarie. In caso di esito positivo di queste prime esperienze, dopo 20 anni l’ergastolano “comune” può essere ammesso al regime di semilibertà, che consente di trascorrere la giornata all’esterno del carcere per rientrarvi nelle ore notturne; e dopo 26 anni, qualora abbia dato prova di sicuro ravvedimento, può finalmente accedere alla liberazione condizionale.
La norma ora dichiarata illegittima – con riferimento ai soli condannati all’ergastolo per i reati considerati – appiattiva invece all’unica e indifferenziata soglia temporale dei 26 anni la possibilità di accedere a tutti questi benefici, impedendo così al giudice di valutare il graduale progresso del condannato nel proprio cammino di reinserimento sociale. In secondo luogo, la Corte ha evidenziato come la norma rinviasse irragionevolmente al ventiseiesimo anno di carcere gli sconti di 45 giorni, previsti per ogni semestre di pena espiata, in caso di positiva partecipazione del condannato all’opera di rieducazione. Nei casi di ergastolo “comune”, questi sconti possono invece essere utilizzati per anticipare il momento di accesso ai diversi benefici penitenziari (permessi premio, lavoro all’esterno, semilibertà). La norma ora dichiarata illegittima eliminava ogni pratico incentivo, solo per queste speciali categorie di ergastolani, a impegnarsi sin dall’inizio della pena nel cammino di risocializzazione. Infine, la Corte ha censurato il rigido automatismo stabilito dalla norma, che impediva al giudice di valutare i progressi compiuti da ciascun condannato, sacrificando così del tutto la funzione rieducativa della pena sull’altare di altre, pur legittime, funzioni. La sentenza sottolinea, in particolare, come siano incompatibili con il vigente assetto costituzionale norme “che precludano in modo assoluto, per un arco temporale assai esteso, l’accesso ai benefici penitenziari a particolari categorie di condannati (…) in ragione soltanto della particolare gravità del reato commesso, ovvero dell’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti della generalità dei consociati”; ed evidenzia come le conclusioni da essa raggiunte siano coerenti con gli insegnamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui gli Stati hanno l’obbligo “di consentire sempre che il condannato alla pena perpetua possa espiare la propria colpa, reinserendosi nella società dopo aver scontato una parte della propria pena”.
Corte Costituzionale – Sentenza nr. 149/2018 (clicca qui per leggere)