“Bambinisenzasbarre”: la “Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti” si rinnova


bambini-senza-sbarreIl Ministro della Giustizia Andrea Orlando, la Garante Nazionale per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano e la presidente dell’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus Lia Sacerdote hanno siglato lo scorso 6 settembre 2016 presso il Ministero della Giustizia il rinnovo per altri due anni del Protocollo d’Intesa Carta dei figli di genitori detenuti, avviato il 21 marzo 2014. Durante il biennio di applicazione, il protocollo è diventato un modello per la rete europea Children of prisoners Europe con la quale la onlus firmataria sta conducendo una campagna di sensibilizzazione perché venga adottata nei 21 Paesi membri della rete.

L’intesa sottoscritta oggi intende individuare nuovi strumenti di azione e rafforzare e ampliare i risultati fin qui ottenuti: la tutela dell’interesse superiore del minore, al quale deve essere garantito il mantenimento del rapporto con il genitore detenuto, in un legame affettivo continuativo, riconoscendo a quest’ultimo il diritto/dovere di esercitare il proprio ruolo genitoriale; la promozione di interventi e provvedimenti normativi che regolino questa relazione, contribuendo alla rimozione di discriminazioni e pregiudizi attraverso la creazione di un processo di integrazione socio-culturale, nella prospettiva di una società solidale e inclusiva; l’agevolazione ed il sostegno dei minori nei rapporti con il genitore detenuto, sia durante sia oltre la detenzione, cercando di evitare che eventuali ricadute negative possano incidere sul rendimento scolastico o sulla salute. Il nuovo Protocollo, tenendo conto dell’esperienza acquisita durante il biennio di applicazione, individua come necessaria l’offerta di percorsi di sostegno alla genitorialità sia alle madri sia ai padri sottoposti a restrizione della libertà personale.

L’articolo 1 detta le linee di comportamento che l’autorità giudiziaria dovrà tenere nei confronti di arrestati o fermati che siano genitori di minori: se possibile, in caso di applicazione di misura cautelare, dare priorità alla misura alternativa alla custodia in carcere; in caso di detenzione del genitore, non violare il diritto del minore a rimanere in contatto con lui; disciplinare i permessi di uscita, con particolare riguardo per le “giornate particolari” come compleanni, primi giorni di scuola, recite e diplomi, e per situazioni di emergenza, quali i ricoveri ospedalieri. L’articolo 2 individua in 12 punti una serie di azioni necessarie a proteggere il legame tra minore e genitore che garantisca da un lato lo sviluppo psico-affettivo del bambino, e dall’altro preservi il vincolo familiare, ritenuto importante anche in relazione alla prevenzione della recidiva e nel successivo reintegro sociale del detenuto. Si è ritenuto quindi fondamentale regolamentare: i tempi di visita, privilegiando i pomeriggi per non creare ostacoli alla frequentazione scolastica, che in situazioni del genere è una delle realtà del minore destinate ad essere compromesse; i luoghi, creando spazi attrezzati per il gioco, la conversazione, l’intrattenimento, i momenti di privacy. La Carta chiede comunque di accompagnare i minori con informazioni adeguate all’età e che, ove possibile, siano organizzati gruppi di esperti a sostegno, in una esperienza che potrebbe rivelarsi traumatica.

L’articolo 3 è un’ulteriore passo verso la semplificazione del rapporto figlio-genitore detenuto e impegna le parti a sviluppare linee specifiche che coadiuvino gli incontri, laddove più difficoltosi, anche utilizzando i mezzi che la nuova tecnologia mette a disposizione come conversazioni in chat o webcam. L’articolo 4 impegna il sistema penitenziario ad affrontare il tema dell’accoglienza non solo in termini strutturali, ma soprattutto culturali, attraverso una formazione adeguata del personale dell’Amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile e di comunità, che prepari all’accoglienza di minori e famiglie. L’articolo 5 intende assicurare ai detenuti, ai loro parenti e ai loro figli tutte le informazioni appropriate (all’età), aggiornate e pertinenti (alla fase del processo o della detenzione); offrire programmi di assistenza alla genitorialità, per aiutare allo sviluppo e al consolidamento del rapporto genitori-figli e una guida all’utilizzo dei servizi socio-educativi e sanitari messi a disposizione dagli enti locali.

L’articolo 6 regolamenta la raccolta sistematica di informazioni relative al numero di colloqui e all’età dei soggetti coinvolti. L’articolo 7, pur ribadendo l’obiettivo di evitare la permanenza in carcere dei bambini, ne regolamenta la presenza, cercando di garantire loro una quotidianità il più possibile vicina a quella dei coetanei all’esterno, anche attraverso la frequentazione di aree all’aperto, asili nido e scuole al di fuori dell’Istituto, in modo che la loro crescita non abbia a subire eccessive ripercussioni psico-fisiche.
L’articolo 8 conferma il Tavolo permanente, già istituito con il protocollo precedente, composto da rappresentanti del Ministero della Giustizia, dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e dell’Associazione Bambinisenzasbarre che, convocato ogni tre mesi, svolgerà azione di monitoraggio sull’applicazione del protocollo appena prorogato.

Protocollo d’Intesa tra l’Amministrazione Penitenziaria, l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e l’Associazione Bambinisenzasbarre (clicca per scaricare)

Giustizia, le due Italie: l’80% dei ragazzi detenuti nelle Carceri Minorili è del Sud


carcere-minorile-trevisoSono i 240 meridionali reclusi oggi nei sedici istituti penitenziari minorili italiani. E sono più irredimibili degli altri. L’amara realtà emerge dai numeri: su 503 detenuti oggi ospitati dalle carceri minorili nazionali, al netto di 224 stranieri, sono attualmente reclusi 279 italiani. Ma di questi, soltanto 40 provengono dal Centro e dal Nord, mentre gli altri 239 sono tutti giovani del Sud. Otto su dieci. Viene dal Meridione l’ottanta per cento dei giovani italiani che oggi guarda il mondo di fuori dal carcere. E per buona parte di loro, le speranze di uscirne presto per accedere a misure alternative di reinserimento, resta una chimera. In fondo è normale, ci hanno detto in molti. Dietro le sbarre ci sono più meridionali perché al Sud c’è la ‘ndrangheta, c’è la mafia, c’è la camorra. Al Sud si abusa senza scrupoli della manovalanza minorile, ergo i meridionali se la sono cercata. Non fosse che spesso, le risposte più semplici sono quelle più sbagliate. “In realtà – spiega al Mattino Alessio Scandurra, curatore insieme a Susanna Marietti del Terzo Rapporto di Antigone sugli Ipm – la selezione dei minori destinati al carcere non avviene purtroppo in base alla pericolosità dei ragazzi o alla gravità delle loro condotte”.

“A prevalere – chiosa – non sono i reati più gravi ma i casi più estremi. E cioè quelli per i quali si suppone un recupero più difficile”. La nostra Costituzione prescrive all’articolo 27 che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il carcere minorile dovrebbe pertanto essere, più di quello per gli adulti, un luogo di transito verso nuove opportunità di redenzione. Opportunità come la messa alla prova, pensata nel 1988 per i minori e dal 2014 applicata anche agli adulti con ottimi esiti. L’istituto non è soltanto un’alternativa al carcere, ma anche allo stesso processo: si tratta in pratica di inserire il ragazzo in una comunità e vedere come si comporta. Se tutto procede nel verso giusto, si può arrivare all’estinzione del reato. I risultati sono stati finora entusiasmanti: nel 2014 la messa alla prova ha salvato l’80 per cento dei minori coinvolti.

Ma se recuperare i giovani del Nord è più facile per via di una maggiore disponibilità di risorse, di chance lavorative più consistenti e di contesti operativi più favorevoli, al Sud l’impresa è decisamente più ardua. “Nelle periferie delle grandi città del Sud – osserva Isaia Sales, docente di Storia della criminalità organizzata nel Mezzogiorno d’Italia presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli – il giovane si muove in un contesto aggregato in cui la violenza è più facilmente replicabile. Non così al Nord, dove i reati dei giovani minorenni sono più spesso frutto di singoli “scoppi” più facili da risanare”.
L’abitudine a delinquere è più difficile da sradicare. “I disperati delle periferie delle grandi città del Sud hanno a disposizione meno alternative, meno risorse e meno supporto delle famiglie”, sintetizza Scandurra. Si chiama carcere la risposta più frequente che i giovani meridionali si sentono dare. Si chiama così per via di ragioni quantitative, qualitative e logistiche. A fronte di un elevato tasso di criminalità minorile, le strutture di accoglienza del Sud sono nel complesso insufficienti ad assorbire la domanda, e assai meno variegate di quanto non richiederebbero le esigenze riabilitative dei singoli minori.

“Anche se presso gli enti locali c’è attenzione – chiarisce l’operatore di Antigone – si fa estrema fatica a trovare collocazioni che rappresentino per i giovani meridionali delle vere opportunità”. E ci sono poi difficoltà logistiche sovente insuperabili. Ricollocare un minore del Sud nel suo territorio di appartenenza è molto rischioso, in quanto la pressione dell’ambiente circostante nel quale ha sempre navigato può minare il percorso di recupero. E trasferirlo in una comunità del Centro Nord è altrettanto impervio.
“Sia perché trapiantare un ragazzino a 500 chilometri da casa è complesso – racconta Alessio Scandurra – sia perché le comunità centro-settentrionali temono a volte che l’arrivo di un minore dai precedenti criminali “importanti” possa turbare gli equilibri degli altri ospiti e innescare meccanismi di leaderismo, sopraffazione ed emulazione”.
E non va poi sottovalutato che a differenza degli adulti che accedono a misure alternative, i minori non possono lavorare stabilmente, e non possono permettersi una casa in affitto. Ecco perché per loro diventa più difficile accedere a percorsi professionali e formativi fuori dalla Regione di origine. Nelle more di una vera opportunità di riscatto, l’esito è spesso scontato. Da luogo di transito dai trascorsi criminosi a orizzonti di rinascita, l’istituto penitenziario minorile diventa per i giovani meridionali una specie di limbo.

“L’Ipm non è il problema in sé – annota Scandurra l’Ipm diventa un problema quando diventa la risposta”. Se si osservano le serie storielle, e le si rapportano a quelle di Paesi come gli Stati Uniti, sembra emergere una verità indubitabile: la giustizia minorile funziona, e la carcerazione è divenuta nel corso degli anni un fenomeno residuale. Ma non c’è da cullarsi troppo sugli allori. “Le molte retate nei quartieri napoletani a rischio – spiega l’ispettore Ciro Auricchio, segretario regionale della Uspp Campania (unione sindacale polizia penitenziaria) hanno stravolto gerarchie e strategie della criminalità organizzata. Dopo l’arresto di numerosi capi clan di spicco, i giovani detenuti nelle carceri campane sono aumentati a dismisura. I minori sono diventati schegge impazzite che guardano alla detenzione come a un segno di potenza da esibire”. Gli effetti, come dimostra la recente rivolta nel carcere di Airola, sono facilmente intuibili.
“A causa della legge del2014 che ha esteso ai venticinquenni la possibilità di restare nel carcere minorile – spiega Auricchio – gli equilibri degli Ipm sono cambiati. Succede sempre più spesso che piccoli boss dalla personalità ormai strutturata intrattengano pericolosi rapporti con gli altri ospiti adolescenti”. “Se non si provvede a destinare gli ultra ventenni a circuiti ad hoc – avverte Auricchio – c’è il serio pericolo di innescare sempre più frequenti meccanismi di emulazione, e di spezzare quindi il percorso riabilitativo di chi è più piccolo ed ha ancorala possibilità di ricominciare da capo”.

Eppure, proprio dalla Campania delle paranze, dei minori con il kalashnikov, delle periferie dove è sempre buio, un raggio di speranza arriva e dovrebbe far riflettere chi dice che m fondo, al Sud, non c’è niente da far Ormai da sei anni, all’interno del carcere minorile di Nisida, il progetto “Finché c’è pizza c’è speranza” dell’Associazione Scugnizzi riscuote grande successo tra i giovani detenuti. “A molti di loro abbiamo insegnato un mestiere – dice il presidente Antonio Franco – a oggi abbiamo reinserito nella società venti giovani”.
Grazie al sostegno dei fratelli La Bufala, alcuni ex detenuti oggi fanno i pizzaioli in ristoranti del celebre marchio o hanno intrapreso attività di successo. “È il caso di ragazzi come Daniele e Vincenzo – racconta Franco-molti dicevano che erano irrecuperabili ma noi abbiamo creduto in loro. Ciò che questi ragazzi cercano, è qualcosa di molto più concreto di astrusi progetti formativi. Vogliono un lavoro, dei soldi puliti da spendere per i loro bambini, e qualcuno che creda in loro”. Daniele è oggi un nome della pizza, un vero fuoriclasse che ha partecipato anche ai campionati mondiali del settore. Vincenzo, orfano ed ex criminale, è stato chiamato a Città del Messico come maestro pizzaiolo per la Festa nazionale del Paese. “Bisogna tagliare il cordone ombelicale e stargli vicini, è tutto qua”, dice Franco. “Non insegnate ai bambini – cantava Giorgio Gaber – date fiducia all’amore. Il resto è niente”.

Francesco Lo Dico

Il Mattino, 9 settembre 2016

Fatta la riforma, gabbato il Ministro. Italia resta Paese della carcerazione preventiva


arresto-manetteFin dall’inizio, uno si domanda se la vera vergogna siano i dati in sé, oppure il fatto che appena un tribunale su tre abbia deciso di rispondere al ministero della Giustizia. Perché la richiesta del ministro Andrea Orlando era sacrosanta: Orlando aveva chiesto agli uffici giudiziari di tutta Italia di raccontare come abbia funzionato la custodia cautelare nell’ultimo anno.

Non era una curiosità peregrina. Il ministro voleva sapere quali effetti avesse avuto la legge 47 del 16 aprile 2015, entrata in vigore lo scorso 8 maggio, che ha introdotto significative modifiche al codice di procedura penale rendendo più stringenti le regole che stabiliscono la custodia in carcere. Ed è la stessa legge 47 che prevede l’analisi di funzionamento, perché il governo deve presentare una relazione al Parlamento entro il 31 gennaio di ogni anno. Ebbene, a Orlando hanno (vergognosamente) risposto appena 48 uffici giudiziari su 136: prevalentemente si tratta di tribunali piccoli, l’unica eccezione la fa Napoli. E soltanto sette uffici corrispondono a direzioni distrettuali antimafia.
Passando poi ai dati, la vergogna aumenta. Sulle 12.959 misure cautelari personali disposte da questi 48 tribunali, la custodia cautelare in carcere è stata decisa in 6.016 casi: il 46 per cento del totale. Gli arresti domiciliari sono stati 3.704 (il 29 per cento dei casi), l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria ha riguardato altri 1.430 casi, l’11 per cento. Gli avvocati penalisti, associati nell’Unione delle camere penali, sono più che delusi: “Il risultato dell’indagine – protesta Beniamino Migliucci, che dell’Ucpi è presidente – è così parziale da non consentire, anche per via della natura del tutto casuale della selezione del campione, di conferire a quel dato un significato in qualche modo rappresentativo della realtà”.

Ma i penalisti correttamente lamentano che resta altissimo (nonostante il commento favorevole del ministero), il ricorso alla custodia cautelare in carcere. Del resto, che anche dopo le restrizioni della legge 47 poco meno della metà del totale delle misure porti un cittadino in cella è statistica letteralmente impensabile per gli altri paesi europei: e questo avviene nonostante il legislatore abbia sempre inteso l’adozione del carcere da parte del giudice come extrema ratio.

E il braccialetto elettronico? A leggere le tabelle del ministero, inoltre, si comprende che tra le oltre 6 mila custodie cautelari disposte in carcere quelle determinate da una condanna definitiva sono state soltanto 845, una su cinque. Quindi i detenuti che in questi ultimi mesi sono andati a occupare una cella sono in stragrande maggioranza imputati in attesa di giudizio: presunti innocenti. E sempre interpretando le tabelle si capisce che in un solo anno (con durate che non è dato conoscere) sono maturate le condizioni per quasi 200 ingiuste detenzioni presso il solo tribunale di Napoli.
In tutto questo, viene da domandarsi che fine abbia fatto il mitico “braccialetto elettronico” di cui si favoleggia da decenni. In base alle ultime statistiche, in Italia dovrebbero esisterne 2 mila, ma non si sa se vengano tutti utilizzati, né come. Aveva fatto scalpore, a metà del 2015, il caso di un detenuto: il giudice aveva ordinato di farlo uscire di prigione e dargli gli arresti domiciliari, ma la carenza di braccialetti lo aveva inesorabilmente respinto in cella. In compenso, i braccialetti costano 11 milioni di curo l’anno (5.500 euro l’uno), che vanno a sommarsi ai 110 milioni circa che dal 2001 al 2011 lo Stato aveva versato a Telecom, titolare del servizio, per la “sperimentazione” su 114 braccialetti.

Maurizio Tortorella

Tempi, 9 settembre 2016