Lo Stato nelle carceri tortura i detenuti : lo ammette, ma continua a farlo con il 41 bis


Ministero della GiustiziaNel 2004 due detenuti vennero torturati nel carcere di Asti. L’associazione Antigone si costituì parte civile in quel procedimento che, nei mesi scorsi è arrivato davanti alla Corte Europea dei Diritti Umani la quale, il 23 novembre, ha dichiarato ammissibile il ricorso. Lo Stato italiano, a quel punto, ha proposto una composizione amichevole di 45.000 euro per ciascuno dei due ricorrenti. “Quella della Corte europea è una decisione di importanza enorme che riguarda la tortura in un carcere italiano. Il Governo ammette sostanzialmente le responsabilità e si rende disponibile a risarcire i due detenuti torturati ad Asti.

Come aveva scritto a chiare lettere il giudice di Asti nella sentenza del 2012, si era trattato di un caso inequivocabile, e impunito, di tortura” – ha dichiarato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, la quale è tornata a chiedere al Governo di approvare subito, anche in Italia, una legge che punisca questo crimine contro l’umanità. Su questo è stata avviata una petizione che ha raccolto sinora più di 52mila firme.

Ma quella della tortura in Italia, è una pratica che si presenta con varie dimensioni, una delle quali è la detenzione in regime di 41 bis. L’art.41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, è il punto più rigido della scala del trattamento differenziato che regola il sistema carcerario italiano. Nato come provvedimento emergenziale, come sempre succede, è diventato norma permanente e questo processo di stabilizzazione determina inasprimenti anche di altri regimi carcerari, come l’Alta Sicurezza 1 e 2 o l’isolamento prolungato dell’art. 14 bis. Dal regime di 41 bis non si esce, se non attraverso la collaborazione con lo Stato.

Il regime carcerario del 41 bis prevede:

1. isolamento per 23 ore al giorno (soltanto nell’ora d’aria è possibile incontrare altri/e detenuti/e, comunque al massimo tre, e solo con questi è possibile parlare);

2. colloquio con i soli familiari diretti (un’ora al mese) che impedisce per mezzo di vetri, telecamere e citofoni ogni contatto diretto;

3. esclusione a priori dell’accesso ai “benefici”;

4. utilizzo dei Gruppi Operativi Mobili (Gom), il gruppo speciale della polizia penitenziaria, tristemente conosciuto per i pestaggi nelle carceri e per i massacri compiuti a Genova nel 2001;

5. “processo in videoconferenza”: l’imputato/a detenuto/a segue il processo da solo/a in una cella attrezzata del carcere, tramite un collegamento video gestito a discrezione da giudici, pm, forze dell’ordine, quindi privato/a della possibilità di essere in aula;

6. censura-restringimento nella consegna di posta, stampe, libri. È evidentemente un regime che mira all’annullamento de detenuto, di ogni suo pensiero e autonomia. Solo in questo senso è spiegabile la nuova restrizione della possibilità di accesso a libri e pubblicazioni.

Chi è sottoposto al 41 bis non può più ricevere libri, né qualsiasi altra forma di stampa, attraverso la corrispondenza e i colloqui sia con parenti sia con avvocati: è un’ulteriore restrizione in aggiunta a quella che già prevede che il detenuto possa avere al massimo tre libri in cella. La campagna “Pagine contro la tortura” vuole agire su questo ulteriore accanimento per mettere in discussione tutto il regime del 41 bis ed in ultima analisi tutto il sistema carcerario perché il carcere non è la soluzione, ma parte del problema.

La campagna consiste nello spedire cataloghi, libri, riviste e altre pubblicazioni presso le biblioteche delle carceri in cui sono presenti le sezioni di 41bis ed ai detenuti e alle detenute che di volta in volta ne faranno richiesta. Sabato 19 dicembre al Cpa Fi-Sud alle 18.00 è fissato un incontro con Olga (è Ora di Liberarsi dalle GAlere) e Uniti contro la Repressione che presenteranno la campagna nazionale “Pagine contro la tortura” a Firenze.

Federico Rucco

contropiano.org, 4 dicembre 2015

Agente Penitenziario : “Le botte ? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati ottimi”


Polizia_Penitenziaria_2Le parole degli agenti penitenziari: “Tanto da qui tu e gli altri uscirete più delinquenti di prima”. “Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?”. “Fermarlo? Chi, a lui? No, io vengo e te ne do altre, ma siccome te le sta dando lui, non c’è bisogno che ti picchio anch’io”.

Botte. E ancora botte. Sevizie. Perché con i detenuti, parole di agente penitenziario, “ci vogliono il bastone e la carota”. Un giorno di pugni e l’altro no, “così si ottengono risultati ottimi”. E la paura tiene buoni. Lividi, percosse, le ossa rotte, inutile nascondersi sotto la branda. Tanto “il detenuto esce dal carcere più delinquente di prima”, e, dice ancora il brigadiere, “non perché piglia gli schiaffi, ma perché è proprio il carcere che non funziona”.

La registrazione è così nitida da far sentire il freddo sulla pelle. Chi parla è Rachid Assarag, detenuto marocchino quarantenne, che sta scontando una pena di 9 anni e 4 mesi nelle carceri italiane. E chi risponde sono gli agenti, ora di un penitenziario ora di un altro. La conversazione è una testimonianza agghiacciante di quanto succede nei nostri istituti penitenziari. Dove il detenuto Rachid (condannato per violenze sessuali) viene ripetutamente picchiato e umiliato dagli agenti addetti alla sua custodia.

La prima volta nel carcere di Parma, racconta Rachid, dove in quattro (guardie) lo seviziano con la stampella a cui si appoggiava per camminare. Lui denuncia, ma chi crede alle parole di un detenuto? Così Rachid, assistito dall’avvocato Fabio Anselmo, mentre viene trasferito in undici carceri diverse dal 2009 (Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella), inizia a registrare tutto.

Conversazioni con la polizia penitenziaria, medici, operatori e magistrati. Voci dall’inferno. Come quando le guardie entrano nella sua cella per “scassarlo” di botte, o il sovrintendente ammette: “questo carcere è fuorilegge, dovrebbe essere chiuso da 20 anni, se fosse applicata la Costituzione”.

Agente con accento napoletano: “Mi hai fatto esaurire, ti sei anche nascosto sotto il letto”. Rachid: “Perché mi volevate picchiare”. “Se ti volevamo picchiare era più facile che ti prendevamo e ti portavamo giù”. Giù. Dove forse nessuno sente e nessuno vede. Sono le botte la rieducazione, come dice chiaramente qualcuno che Rachid chiama “brigadiere”. Probabilmente un sovrintendente della polizia penitenziaria.

Rachid registra e registra. Incalza anche: “Voi qui non applicate la Costituzione”. La risposta del brigadiere (lo stesso che teorizzava una seconda razione di botte per Rachid che chiedeva “fermati” all’agente che lo stava picchiando) è incredibile: “Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni. In questo carcere la Costituzione non c’entra niente”.

Le registrazioni di Rachid escono dal carcere, e l’associazione “A buon diritto” di cui è presidente Luigi Manconi, decide di renderle pubbliche. Conversazioni acquisite dai magistrati, e che testimoniano quanto gli abusi sui detenuti siano una (atroce) prassi abituale nei nostri penitenziari. Dai quali, come ammettono gli stessi agenti “si esce più delinquenti di prima, ma non per gli schiaffi che prendono, o quantomeno non solo, ma perché è l’istituzione carcere che non funziona”. Commenta Luigi Manconi, presidente, anche, della Commissione per i diritti umani: “Il carcere per sua natura e per sua struttura produce aggressività e violenza, e come dice il poliziotto penitenziario si trova in uno stato di permanente illegalità. Riformarlo è ormai un’impresa disperata. Si devono trovare soluzioni alternative”.

Rachid: “Devo uscire dal carcere più cattivo di prima? Dopo tutta questa violenza ricevuta, chi esce da qui poi torna”. E il “superiore” invece di smentirlo difende l’uso della violenza come metodo rieducativo. “Le botte? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati ottimi”. Tanto da dietro le sbarre nessuno parla, come dimostra il caso di Stefano Cucchi.

Da anni Rachid Assarag registra e fa esposti. Ma quasi nulla accade. Anzi mentre le denunce degli agenti nei suoi confronti avanzano, quelle di Rachid si arenano. Assarag da un mese è in sciopero della fame, ha perso 18 chili. Di recente è stato di nuovo denunciato per aver bloccato le ruote della carrozzina in cui ormai viene trasportato, per aver insultato le guardie e rovesciato la branda in cella, “disturbando il riposo e le normali occupazioni degli altri detenuti”.

Rachid, qualunque sia il reato di cui un detenuto si è macchiato, testimonia con le sue registrazioni che nei penitenziari italiani la violenza è prassi. Scrive l’associazione “A buon diritto”: “Se Assarag dovesse morire in carcere, nessuno potrebbe dire che non si è trattato di una morte annunciata”.

Maria Novella De Luca

La Repubblica, 4 dicembre 2015

Carceri, Da Pordenone alla Sardegna, in Italia si continua a morire di pena


Casa Circondariale 1Sì, in Italia si continua a morire di carcere. E anche se probabilmente è prematuro parlare di nuovi casi Cucchi, specie negli ultimi mesi dai penitenziari del nostro Paese sono usciti detenuti coperti da teli bianchi, sul cui destino si addensano parecchie e pesanti ombre. Non sarebbe un caso, allora, che proprio nell’ultimo mese anche diversi parlamentari si sono interessati alla questione, rivolgendo al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, interrogazioni cui si spera possa giungere una risposta nel più breve tempo possibile.

Misteri in Friuli – Siamo a Pordenone. È il 7 agosto 2015 quando Stefano Borriello, un giovane di soli 29 anni, viene trasportato dal carcere friulano in condizioni che, con il passare del tempo, si fanno via via più critiche. Arriva in ospedale e subito gli viene offerto il dovuto controllo. Ma non c’è niente da fare. Poco dopo l’arrivo, Borriello muore. Per arresto cardiaco, reciterà il referto. Da subito, però, la madre di Stefano chiede con fermezza quali siano le ragioni del decesso del figlio sempre stato in ottime condizioni di salute. Un dubbio che tortura la madre. E non solo lei: la Procura, infatti, decide di aprire un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. Sembra che Stefano stesse male già da qualche giorno prima della morte, infatti. A interessarsi della vicenda, anche l’associazione Antigone, sempre presente quando si parla di diritti umani e detenzione. Ebbene, dalla visita effettuata dagli osservatori dell’associazione nei giorni seguenti, è emerso che all’interno del carcere di Pordenone il servizio medico non è garantito 24 ore su 24, ma soltanto fino alle 21, che esiste una unica infermeria per tutto il carcere e che non ci sono defibrillatori nella sezione. Ma arriviamo al dunque: com’è morto Stefano? Non è dato ancora saperlo. A più di tre mesi dalla sua terribile morte, infatti, ancora non se ne conoscono le cause: i periti nominati dalla Procura per riferire in merito alle “cause della morte” e ad “eventuali lesioni interne o esterne”, ancora non hanno consegnato la relazione. Le ragioni della morte di Stefano sono ad oggi assolutamente incomprensibili.

Istigazione al suicidio – Scendiamo lungo lo stivale e facciamo tappa a Pesaro, nelle Marche. È il 25 settembre quando Anas Zamzami, da tutti conosciuto come Eneas, viene trovato morto in cella. A soli 29 anni. Era stato arretato per il reato di falsa identità e resistenza a pubblico ufficiale, reati commessi nel 2011, e in relazione ai quali doveva scontare dodici mesi di reclusione. Nonostante quanto previsto dalla legge del 2010 riguardante “Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto mesi”, Eneas scontava, inspiegabilmente, la pena nell’istituto e già da 5 mesi.

Ma non è questo l’unico buco nero della vicenda. Secondo la casa circondariale, Eneas sarebbe morto per suicidio. Peccato però che per i familiari e gli amici le dinamiche dei fatti risultino invece poco chiare. Ad interessarsi alla vicenda è stato anche Adriano Zaccagnini (Sel) che ha presentato un’interrogazione a riguardo. Perché l’unica cosa certa, paradossalmente, è che al momento più di qualcosa non torna. Eneas stesso, infatti, si lamentava delle condizioni di vita all’interno dell’istituto di pena che l’avevano anche portato ad una significativa perdita di peso e di fiducia verso chi lo circondava. Non è un caso che la Procura marchigiana ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio.

Tre morti in quindici giorni – Facciamo ancora un salto e sbarchiamo in Sardegna dove, a distanza di soli 15 giorni, sono morti tre detenuti, due a Uta (Cagliari) e uno nella colonia penale di Mamone (Nuoro), avvenuta il 26 ottobre e tenuta incredibilmente nascosta fino al 15 novembre. Si tratta di un’escalation senza precedenti, denunciata anche da Mauro Pili in Parlamento. Ma dei tre decessi, come detto, ce n’è uno inquietante, quello di Simone Olla la cui morte, stando alla denuncia del leader di Unidos, “non sarebbe da attribuire a cause naturali come aveva dichiarato la direzione del carcere cercando di eludere la gravità della situazione. Sarebbe certa, invece, l’overdose. Con un quesito inquietante: chi ha fornito o somministrato quel cocktail letale al giovane sardo?”. La polizia penitenziaria, ovviamente, nega tutto. Ma le indagini sono in corso. Ed è stato riconosciuto, dopo l’autopsia, che la morte del giovane sarebbe stata causata da una dose eccessiva di morfina iniettata con una siringa. E allora si ripropone la domanda. Perché qualcuno ha deciso di farla. Qualcuno ne ha deciso la quantità di dose. Qualcuno, di fatto, potrebbe aver ucciso Olla.

Carmine Gazzanni

lanotiziagiornale.it, 4 dicembre 2015