Certo non lo si può consigliare nelle guide turistiche. Eppure un giro nei pressi del carcere di Poggioreale può aiutare a conoscere Napoli almeno quanto una passeggiata in via Caracciolo. Bisogna fermarsi lì, davanti al bar “L’angolo della libertà”, un nome che dice tutto. Ci sono i familiari dei reclusi, una comunità solidale come poche. Non noterai i segni del dolore, la rabbia della privazione, ma una consuetudine che è fatalismo e spirito di adattamento.
Possibile che ci si rassegni anche ai pestaggi? Forse sì. Poggioreale è stata al centro di vicende gravissime negli anni scorsi, che nel 2014 hanno portato alla sostituzione di tutti i vertici: via la direttrice, il comandante della polizia penitenziaria, il direttore sanitario e il responsabile del Pedagogico. Ci si aspetterebbe anche un rinnovamento nella gestione dei reclusi. Ma le testimonianze raccolte lì, davanti all’ingresso di via Nuova Poggioreale riservato ai familiari, fanno temere che qualche scoria sia difficile da espellere.
Nella rassegnazione devi metterci anche la sentenza frettolosa di un signore sulla cinquantina, padre di un detenuto e a sua volta con un passato da recluso a Poggioreale. “Se hanno ricominciato a malmenarli? E perché ricominciato? Sono vent’anni che va avanti così”. S’infila nel cancello, non dice altro, rende l’idea di una terribile normalità. Informazioni più chiare le fornisce un uomo appena uscito dal penitenziario: “Sì, le guardie picchiano. Dipende anche dai padiglioni, ma certo ce ne sono alcuni dove le mani addosso alla gente le ho viste mettere”. Cosa succede esattamente? “Sono i sistemi che si usano soprattutto con i nuovi arrivati. Che vi devo dire, se si fa una fila e uno non sta perfettamente allineato, come sotto le armi, come minimo ti arriva uno scazzettone”. Uno schiaffo sulla nuca. “A chi è appena entrato in carcere danno una specie di benvenuto. Tu non sai che dentro devi rispettare regole di ferro come al militare: diciamo che te le fanno capire loro”.
Naturalmente non ci viene chiesto di sollevare un caso: fa tutto parte di una prassi ormai radicata. Continua l’ex recluso: “I padiglioni dove questo accade più spesso sono il Napoli e il Milano. Altri sono più tranquilli”. Altri come il Firenze, sostiene un signore sulla cinquantina che ha un fratello dentro e ha appena accompagnato la cognata: “Finora non ci ha raccontato niente di strano”. In effetti i padiglioni Firenze e Italia rappresentano un’eccezione positiva: sono gli unici in cui le celle restano aperte 8 ore al giorno.
Sul resto i numeri parlano chiaro. In giro ci sarà pure una tendenza alla decompressione, qui a Napoli est non sanno che significa: secondo i dati del Dap al 31 agosto si contavano 1.931 detenuti, 287 in più rispetto ai 1.644 posti della capienza “teorica”. Ma in pratica le cose vanno ancora peggio: c’è un’intera ala in ristrutturazione, il padiglione Genova. Fanno 111 posti in meno, come ricorda l’ultimo rapporto di Antigone. Vuol dire che i reclusi in sovrannumero raggiungono l’astronomica quota 400. E che Poggioreale è un carcere sovraffollato per oltre il 25 per cento.
In queste condizioni lavorare è difficilissimo anche per le guardie carcerarie. Una di loro descrive così la situazione: “I nuovi simil-camorristi sono ragazzetti di 18-20 anni. Gli ultimi morti a Napoli lo dimostrano. Il più delle volte hanno il cervello bruciato dalle droghe sintetiche, li guardi e ti chiedi com’è possibile definirli boss. Io non ho mai alzato le mani, non mi risulta alcun episodio, ma se a qualche collega fosse scappato uno schiaffo deve essere stato perché quando parli non ti capiscono nemmeno”.
Davanti all’ingresso dei familiari molti negano. Niente botte, dicono, mai arrivato un lamento, almeno su questo. Un padre si affanna verso l’entrata: “Mio figlio sta dall’altro ieri, ancora non ci ho parlato, non posso rispondere. Ma ‘e guagliune tenene ‘e cape ‘e merd”. Napoli è anche rassegnazione a una devianza giovanile più disperata che criminale. Eppure il dubbio resta: i tempi della “cella zero” – la gabbia liscia dove, come raccontò il pentito Fiore D’Avino, “ti picchiavano con le mazze coperte dagli asciugamani per non lasciarti i segni” – sono definitivamente andati o è rimasta una traccia? Su Poggioreale pesa una lontana maledizione: l’assassinio di Giuseppe Salvia, il vicedirettore che Raffaele Cutolo fece trucidare in Tangenziale nell’81. Due anni fa il penitenziario è stato intitolato proprio a Salvia. Con quell’atto ci si illuse di aver fermato la scia di repressione e rivolte seguita proprio alla bestiale vendetta di ‘o prufessore. Fu un’illusione appunto. E i fatti che nel 2014 hanno portato al trasferimento dell’ex direttrice Teresa Abate lo dimostrano. Ora qualcosa sembra cambiato davvero. Ma a Poggioreale c’è un virus sottile che nemmeno la gestione più rigorosa potrà mai allontanare del tutto.
Errico Novi
Il Garantista, 25 ottobre 2015