Catanzaro, Violati i diritti dei detenuti. Il Prap Calabria non esegue gli ordini della Magistratura di Sorveglianza


Casa Circondariale Catanzaro SianoSono tanti anni che i Radicali Italiani e pochi altri sostengono che la legalità prima di pretenderla bisognerebbe darla e che le nostre carceri, che dovrebbero essere il regno del diritto, siano i luoghi più illegali del Paese ove non esiste alcuna effettiva tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti sanciti dall’Ordinamento Penitenziario. In Calabria, come nel resto delle altre Regioni d’Italia, viene sistematicamente violato il principio di umanità e di territorialità della pena.

Negli scorsi mesi Giuseppe Macrì, 47 anni, di Delianuova in Provincia di Reggio Calabria, ristretto nella Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro in espiazione di una condanna a 6 anni di reclusione per detenzione abusiva di arma da sparo, durante una visita ispettiva esperita il 16/06/2015 dal Magistrato di Sorveglianza di Catanzaro Angela Cerra, rappresentava di avere seri problemi di salute e che voleva essere trasferito a Reggio Calabria, perché la vicinanza ai suoi figli lo avrebbe fatto stare meglio. Dalle informazioni acquisite presso la Direzione della Casa Circondariale di Catanzaro emergeva che, effettivamente, il condannato, era affetto da numerose patologie e che aveva bisogno di cure e controlli periodici, soprattutto neurologici, psichiatrici ed otorinolaringoatrici.

Per cui, l’avvicinamento al proprio nucleo familiare, poteva sicuramente giovare al miglioramento del tono dell’umore e dello stato psicologico del detenuto con probabile riduzione degli episodi critici. Le doglianze del detenuto, a cui resta da espiare ancora qualche anno, hanno trovato riscontro durante l’istruttoria espletata e lo stesso Dirigente del Servizio Sanitario Penitenziario ha segnalato l’opportunità di un trasferimento del predetto in altro Istituto il più possibile vicino alla residenza del suo nucleo familiare. Per tale motivo, il Magistrato di Sorveglianza Angela Cerra, in accoglimento del reclamo, disponeva che l’Amministrazione Penitenziaria (Prap e Dap), provvedesse con sollecitudine ad adottare le determinazioni di competenza in merito a quanto indicato nella parte motiva del decreto del 07/07/2015 e cioè di trasferire il detenuto richiedente in un Istituto Penitenziario il più vicino possibile al luogo di residenza dei propri familiari.

Giuseppe MacrìL’Amministrazione Penitenziaria, nei giorni scorsi, in esecuzione di quanto disposto dall’Ufficio di Sorveglianza di Catanzaro, disponeva l’assegnazione e la traduzione del detenuto Macrì dalla Casa Circondariale di Catanzaro (distante 134 km) a quella di Vibo Valentia (distante 79 km) mentre lo stesso aveva richiesto di essere trasferito in uno degli Istituti di Reggio Calabria (distante 65 km) o, comunque, per come disposto dal Giudice Cerra, in altro Istituto più vicino alla residenza del nucleo familiare (ad esempio la Casa Circondariale di Palmi, distante 31 km oppure quella di Locri, distante 69 Km).

Tra l’altro, secondo quanto denunciato ai Radicali dai familiari del Macrì, nel nuovo Istituto di Vibo Valentia, il proprio congiunto, non avrebbe più assicurate le cure necessarie per la tutela della sua salute e non avrebbe nemmeno più la possibilità di avere un altro detenuto piantone in cella che gli presti assistenza quando ne abbia la necessità.

L’Ordinamento Penitenziario (Legge nr. 354/1975) all’Art. 42 dispone che i trasferimenti dei detenuti siano disposti per gravi e comprovati motivi di sicurezza, per esigenze dell’Istituto, per motivi di Giustizia, di salute, di studio e familiari e che nel disporre detti trasferimenti debba essere favorito il criterio di destinare i soggetti in Istituti prossimi alla residenza delle famiglie.

Decreto Magistrato Sorveglianza Catanzaro Reclamo MacrìNon si comprende, per quale motivo, l’Amministrazione Penitenziaria, abbia individuato e tradotto il detenuto presso la Casa Circondariale di Vibo Valentia, Istituto come Catanzaro lontano dal luogo di residenza del nucleo familiare, quando invece vi sono tanti altri Carceri nella zona di Reggio Calabria, sicuramente più vicini alla famiglia dello stesso. Eppure il provvedimento disposto dalla Magistratura di Sorveglianza, Autorità preposta al controllo della legalità dell’esecuzione della detenzione le cui decisioni sono vincolanti per l’Amministrazione Penitenziaria, è abbastanza chiaro perché parla di “altro Istituto il più possibile vicino al suo nucleo familiare”.

Nel caso in questione, si registra ancora una volta, l’ennesima violazione del principio di umanità e di territorialità della pena e quindi dei diritti fondamentali dei detenuti nonché l’inottemperanza, da parte dell’Amministrazione Penitenziaria centrale e periferica, delle determinazioni assunte dalla Magistratura di Sorveglianza che priva la tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti di ogni effettività e che, contestualmente, lede gravemente le attribuzioni costituzionalmente riconosciute al potere giudiziario ed in particolare alla Magistratura di Sorveglianza quale titolare della giurisdizione in materia di diritti dei detenuti e di eventuali loro violazioni ad opera dell’Amministrazione Penitenziaria.

Ci si aspetta che, con cortese sollecitudine, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria, provveda con urgenza a riesaminare nuovamente il caso del detenuto Giuseppe Macrì disponendo il suo trasferimento in altro Istituto Penitenziario più vicino alla residenza del nucleo familiare così come disposto dal Magistrato di Sorveglianza e come sancito dall’Ordinamento Penitenziario che assegna grande rilevanza al mantenimento ed al miglioramento delle relazioni familiari.

Emilio Quintieri

Giustizia: decalogo del rifiuto alla richiesta del Papa di una “grande amnistia”


Cella Carcere ItaliaLa richiesta del Papa “di una grande amnistia” per il Giubileo Straordinario della Misericordia, può anche essere respinta al mittente. Purché lo si motivi con ragioni all’altezza dell’interlocutore, il quale possiede carisma, progettualità, credibilità in quantità che la politica ha smarrito da tempo.

Ovvio l’entusiasmo dei favorevoli, a cominciare dalla voce ragionevolmente visionaria di Pannella. Quanto agli altri, il silenzio generale è stato interrotto da poche risposte verosimili, ma non vere. Eccone il catalogo.

La risposta orgogliosa è, in apparenza, convincente. Rivendica il primato della politica sull’indulgenza cristiana. La misericordia è una virtù morale, che dispone alla compassione e opera per il bene del prossimo perdonandone le offese. Non può però dettare tempi e contenuti delle scelte giuridiche che, laicamente, rispondono all’etica della responsabilità, preoccupandosi delle conseguenze concrete più che dei buoni propositi.

Tutto giusto ma sbagliato se riferito al tema della clemenza, dove la voce di Bergoglio si è aggiunta (e non sostituita) a quella del capo dello Stato e della Corte costituzionale che, da tempo, hanno invocato una legge di amnistia e indulto. Il primo, motivandone le ragioni strutturali nel suo unico messaggio alle Camere, ignorato al Senato, discusso solo di sponda alla Camera. La seconda, evocandolo in un’importante sentenza del 2013 in tema di sovraffollamento carcerario. Rispondere picche al Papa, come già al Presidente Napolitano e ai Giudici costituzionali (tra i quali, allora, sedeva anche Sergio Mattarella), testimonia della politica non l’autonomia, ma la grave afasia.

La risposta pavloviana è quella di chi ama vincere facile. C’è la sua variante rozza (“Mai più delinquenti in libertà”) e quella più forbita (“Le carceri devono essere luoghi di rieducazione, ma chi è condannato deve stare in carcere fino all’ultimo giorno”). È un mantra costituzionalmente stonato. Se le pene “devono tendere” alla risocializzazione, durata e afflittività dipendono, in ultima analisi, dal grado di ravvedimento del reo: questo, alle corte, è quanto imposto dalla Costituzione. La certezza della pena è, dunque, un concetto flessibile, più processuale che sostanziale. Scambiarla con la legge del taglione significa abrogare l’intero ordinamento penitenziario, benché vigente da quarant’anni.

C’è poi la risposta causidica. Interpretare le parole del Papa come un appello alla politica ne fraintenderebbe il senso, esclusivamente ecclesiale. Che tale precisazione venga dal portavoce vaticano non stupisce: già nel 2002 la richiesta di clemenza di Papa Wojtyla – coperta da applausi in Parlamento – fu poi ignorata da deputati e senatori. Prudenzialmente, oltre Tevere, si vorrebbe evitare il déjà-vu.

Se Bergoglio ha usato – per la prima volta – la parola “amnistia”, l’ha fatto a ragion veduta, soppesandone l’inevitabile impatto politico. Non ha improvvisato. Ha proseguito la sua riflessione (sul senso delle pene, sulla necessità di un diritto penale minimo, sui pericoli del populismo penale) e la sua azione riformatrice (abolizione dell’ergastolo, introduzione del reato di tortura), entrambe costituzionalmente orientate. Isolare da ciò il suo appello alla clemenza è come divorziare dalla realtà delle cose.

Dal governo, invece, è giunta la risposta stupefatta: “Ma come? Proprio ora che il tasso di sovraffollamento è calato, grazie a misure deflattive adeguate? Proprio ora che si è aperto un grande cantiere per la riforma della giustizia e dell’ordinamento penitenziario?”. Lo stupore nasce da un fraintendimento di fondo: quello per cui un atto di clemenza generale sarebbe alternativo a riforme strutturali, quando invece ne rappresenta un tassello essenziale. Amnistia e indulto sono previsti in Costituzione come utili strumenti di politica giudiziaria e criminale, a rimedio di una legalità violata da un eccesso di processi e detenuti. È solo la sua rappresentazione collettiva (decostruita efficacemente da Manconi e Torrente nel loro libro La pena e i diritti, Ed. Carocci, 2015) ad aver trasformato una legge di clemenza da opportunità a catastrofe per i propri dividendi elettorali.

Resta la risposta possibilista. Fare in modo che “una legittima aspirazione della Chiesa possa diventare un fatto politico” (così il Presidente Grasso); tradurre questa richiesta “in qualche cosa di strutturale, che rimanga anche dopo” (così il ministro Orlando). Come? Le maggioranze dolomitiche necessarie e le divisioni tra le forze politiche, temo, bloccheranno i disegni di legge ora fermi in Commissione al Senato. Perché, allora, non riformare l’art. 79 della Costituzione che, nel suo testo attuale, oppone così rilevanti ostacoli alla loro approvazione? L’ultima amnistia risale al 1990, l’ultimo indulto al 2006. Restituire agibilità politica e parlamentare agli strumenti di clemenza: questa sarebbe una risposta possibile, e all’altezza della misericordia giubilare.

Andrea Pugiotto

Il Manifesto, 9 settembre 2015

 

Palermo: detenuta tunisina di 58 anni si impicca in cella, era in carcere da poche ore


carcere-Pagliarelli-di-Palermo.Si è impiccata con un lenzuolo dopo appena mezz’ora dal suo ingresso nel carcere Pagliarelli, nella sezione delle donne. Quello di Wahida Ben Khafallah, tunisina, detenuta per pochi minuti nel penitenziario palermitano è il secondo caso di suicidio nelle ultime due settimane nelle carceri siciliane, il trentaduesimo in Italia dall’inizio dell’anno. Il 26 agosto a togliersi la vita era stato un giovane italiano di 30 anni, anche lui impiccato ma nel carcere di Gela. Gli restavano meno di due anni di pena per detenzione di droga e ricettazione.

Anche Wahida Ben Khafallah, che aveva 58 anni, doveva scontare una condanna definitiva per droga. Era conosciuta dalle forze dell’ordine per i diversi episodi di spaccio nei quali era stata coinvolta nel centro storico della città. Dal momento in cui è stato scoperto il suo cadavere all’interno della cella in cui si trovava da sola, cinque giorni fa, nessuno ha reclamato il corpo. Ieri è stata eseguita l’autopsia, disposta dal pm Gaetano Guardì, la donna resterà in deposito e poi, con molta probabilità, verrà cremata.

Venerdì sera, quando è arrivata a Pagliarelli, Wahida Ben Khafallah ha solo detto di essere vedova. Ha passato le visite mediche e poi è stata ricevuta all’ufficio immatricolazione. Alle tre è scattata l’emergenza. “Era in una cella da sola – spiega il direttore del Pagliarelli, Francesca Vazzana – perché ancora stavamo decidendo la sistemazione più adeguata per lei”.

I poliziotti penitenziari si sono accorti quasi subito di quello che era accaduto nella cella dovesi trovava la detenuta tunisina. “C’è stato anche un soccorso con le manovre rianimatorie da parte del nostro personale – spiega il direttore del penitenziario – ma non c’è stato nulla da fare. La detenuta aveva stretto le lenzuola alle sbarre della finestra”.

Anche i medici del 118 non hanno potuto fare nulla, se non dichiarare la morte della donna. Sull’ultimo caso di suicidio dietro le sbarre interviene il sindacato Osapp. “L’assistenza sanitaria è al lumicino – denuncia il segretario generale dell’Osapp, Mimmo Nicotra – basti pensare che da dieci anni non è stato bandito alcun concorso per educatori.

Nelle carceri si muore per solitudine”. E da sola, senza nessuno a vegliarla, Wahida Ben Khafallah rimane nell’obitorio dell’ospedale Policlinico. Non ha lasciato nessun biglietto per spiegare il suo gesto e il personale del carcere non aveva notato alcun atteggiamento che potesse far presagire quanto accaduto. Adesso dal carcere e dalla procura sperano che la sua fotografia possa essere vista da chi la conosceva per rintracciare i suoi familiari in Tunisia.

Romina Marceca

La Repubblica, 9 settembre 2015