Il carcere duro per chi ha commesso reati nell’ambito della criminalità organizzata viene visto come necessario, e nessuno o quasi ha il coraggio di metterlo in discussione. Noi vogliamo provare a farlo, nella convinzione che uno Stato debba avere la forza di trattare da esseri umani anche i più feroci delinquenti.
Solo così si sconfigge davvero la cultura mafiosa, non “imitando” i metodi dei criminali, ma rifiutandoli e dando ai loro figli la sensazione che le istituzioni sono forti perché rifiutano la violenza, SEMPRE. Quella che segue è la storia di un detenuto che per anni è stato trattato come un animale, e stava diventando realmente un mostro, poi per fortuna qualcosa è cambiato, qualcuno ha capito che trattare le persone con umanità è la strada per vincere il male.
Dalla pena di tortura al reinserimento vero
Durante i 17 anni in cui ho vissuto in carcere in regimi durissimi (41 bis e Alta Sicurezza), ero diventato una persona “animalesca”. Non pensavo ad altro che a come fare sempre del male, soprattutto a certe persone delle istituzioni, volevo solo vendicarmi del male che avevo ricevuto durante la mia detenzione in quei regimi. Il mio cambiamento vero è avvenuto nel momento in cui sono giunto alla Casa di reclusione di Padova. Dopo un paio di mesi circa dal mio trasferimento riesco a entrare a far parte della redazione di Ristretti Orizzonti e mi viene data la possibilità di fare un percorso unico nel suo genere. Dopo qualche mese di attività vengo inserito in uno dei progetti della redazione, “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”.
Un progetto che cambia radicalmente la mia vita. Ascolto i miei compagni mentre si confrontano con gli studenti con tanta sincerità, affronto una riflessione interiore. Inizio a chiedermi se davanti a quei ragazzi dovevo rimanere sempre quel mostro che ero diventato. In quel periodo ero impegnato a capire se ero così cattivo da continuare a mentire di fronte agli studenti e tenermi addosso quella maschera da duro. Ma non è possibile raccontare bugie davanti a quelle persone, non puoi dare dei brutti esempi, e il motivo è semplice, come per i tuoi figli non vuoi correre il rischio che un ragazzo provi ad imitarti. Se lo influenzi negativamente portandolo a sbagliare, porterai sulla coscienza questo tuo atto.
Io non volevo avere ancora degli altri sensi di colpa. Questa è la spinta che mi porta a confrontarmi anch’io con quei ragazzi. Inizio a parlare con sincerità, finché comincio a percepire che stavo bene con me stesso, non ero più nervoso, riuscivo ad avere un approccio alla vita diverso. Poi iniziano le domande complicate degli studenti, dove vogliono delle spiegazioni. È stato il momento più difficile della mia vita, ma non potevo essere disonesto! Allora mi metto in gioco, trovo la forza di raccontare la mia vita, vedo che mi ascoltano con tanta attenzione, vedo nel loro viso trapelare espressioni di comprensione nei miei confronti, mi fanno sentire una persona, ero ancora qualcuno, un essere umano! Si, qualcuno di diverso da prima. Mi sentivo davvero libero, mi sentivo in pace con me stesso. Ho riconquistato il coraggio di parlare in pubblico, non sentendomi colpevole per sempre.
Oggi non mi nascondo più dalla responsabilità del reato che ho commesso. Grazie a questo percorso trovo il coraggio di assumermi le responsabilità dei miei errori davanti alle mie figlie. Grazie a questo percorso ho ritrovato la vita, e con essa la speranza di un futuro. Svolgendo un’azione di volontariato mi sento di poter essere utile in qualcosa. Cerco di “assolvermi” un po’ dentro me stesso del male che ho provocato, mi sento ancora una persona che possa dare aiuto e sostegno a qualcuno.
La differenza di una detenzione diversa
Oggi dopo 17 anni di detenzione sono stato rivalutato da persone competenti, che in quella persona cattiva che ero trovano anche qualcosa di buono. E mi hanno concesso un permesso di necessità per incontrare la mia anziana madre ammalata. Non avrei mai creduto di poter pranzare ancora una volta con la mia famiglia. Mi ero convinto che mia mamma l’avrei rivista solamente al suo funerale. Di conseguenza immaginavo che non avrei mai conosciuto fuori “in libertà” i miei nipotini, men che meno vederli pranzare con me. Gioia immensa è stata rivedere mia figlia Veronica non in carcere, era piccolina l’ultima volta che abbiamo pranzato insieme.
È stato come rinascere di nuovo. Il giorno del permesso arrivo nella Casa di accoglienza “Piccoli passi”, incontro Egidio, il direttore della struttura. Mi offre un caffè in una tazza di porcellana. Sensazione strana bere il caffe in quel modo. Arriva l’ora di pranzo, a vedermi accerchiato da tutta la mia famiglia mi sentivo in un altro mondo. E che strano pranzare con posate di acciaio in piatti di porcellana!
Il rumore delle posate che sbattevano sui piatti, per le mie orecchie erano tutti rumori nuovi.
In questa occasione speciale, agognata da anni, mi sentivo pieno di gioia. Ma, nello stesso tempo, percepivo qualcosa di strano. Mi stavo accorgendo che stavo fingendo. Sembravo un ragazzo che doveva fare il perfettino davanti a delle persone a cui desideravo mostrarmi in una certa maniera, mi sono accorto allora che i miei familiari erano come degli estranei. Tutto questo diventa più evidente nel momento in cui arrivano a pranzare con noi tanti volontari che ho conosciuto in carcere. È allora che inizio a sentirmi veramente felice. Inizio a scherzare, quell’ironia che mi fa essere me stesso. La mia mamma si accorge di questo mio cambiamento e mi dice: “Figlio mio, devi capire che ora come ora hai più confidenza con loro, voi vivete tutti i giorni insieme, il sentimento di affetto ti lega più a loro che a noi”. Nel frattempo mi ricorda un suo modo di dire: “Il genitore non è chi ti concepisce o ti fa nascere, ma chi ti cresce con la convivenza quotidiana. Figlio mio, tu sei cresciuto con loro, adesso devi abituarti a rientrare in un contatto di affetto vero con noi che siamo i tuoi cari”.
Un forte imbarazzo e tanta vergogna a dare spiegazioni ai miei nipotini
Arriva il momento che mia figlia Veronica mi chiede di dare delle spiegazioni ai suoi figli e a suo marito, perché non sono stato mai presente nel loro matrimonio, non ci sono stato quando lei ha dato alla luce i suoi figli, non sono stato presente a un loro compleanno o durante una festa.
Questa volta mi sono messo davanti ai miei occhi quei ragazzi delle scuole a cui tante volte parlo e ho capito che devo affrontare anche questo ostacolo. Ci sediamo intorno a un tavolo, c’erano i miei nipotini, Biagio junior e Domenico, mio genero e mia figlia Veronica. Inizio a spiegare il perché della mia assenza da 17 anni, il motivo per cui mi ritrovavo in carcere, per aver commesso un crimine, Domenico mi chiede che tipo di crimine, la mia risposta è stata che non importa il tipo di crimine, per il motivo che qualunque tipo di crimine si commette non è buono e porta la vita di una persona a deragliare. L’importante è non rimanere incastrato in certe circostanze della vita, non mettere il dio denaro al primo posto. Vedevo che mia figlia Veronica piangeva, ricordava il passato, le sue sofferenze. Allo stesso tempo si era liberata di un peso: quello di dover dare lei delle spiegazioni ai suoi figli e a suo marito. Mio nipote Domenico è andato via facendosi mille domande, ma prima di andarsene mi ha detto: “Nonno, adesso devi fare il bravo in modo che non ti perda ancora l’affetto della famiglia, devi venire per giocare con noi, ci devi accompagnare a scuola in modo che possiamo far vedere ai nostri compagni che nonno giovane abbiamo”.
Ma il contatto con mia mamma è stato il più commovente. La mia mamma è affetta da una grave malattia, la sua patologia principale è il diabete, deve fare di continuo l’insulina per mantenere la glicemia al di sotto di 300. Quel giorno le ero vicino mentre controllava il diabete: era nella media di 120. Così lei mi ha detto: “Sei tu che mi fai stare bene”. Questo mentre me la curavo e la coccolavo come una bambina. Le massaggiavo le gambe che spesso le si gonfiano. Penso sia stato uno dei momenti più felici della sua vita. Poverina, mi è sempre stata vicina in tutti questi anni di detenzione. Sono convinto che il dolore più grande per un genitore è il perdere i propri figli. Mia mamma ne ha persi tre, di cui due deceduti. Oggi ne ritrova uno.
Biagio Campailla – Ergastolano detenuto a Padova
Il Mattino di Padova, 24 agosto 2015