Il diritto d’accesso agli atti sulla salute dei detenuti va garantito anche dall’istituto penitenziario che li ha conservati stabilmente e non solo dall’Asl a cui il legislatore ha deciso di trasferire la competenza sull’assistenza sanitaria carceraria. A stabilirlo è il Consiglio di Stato nella sentenza n. 1137/2015, depositata dalla Quarta sezione il 6 marzo scorso. I giudici, in linea con quanto deciso in primo grado, hanno bocciato il ricorso del ministero della Giustizia e di una casa circondariale che col silenzio-diniego avevano negato ad un ex detenuto, in carcere per cinque mesi da novembre 2010 ad aprile 2011, ma poi scarcerato e prosciolto con sentenza di assoluzione, di estrarre copia della propria documentazione medica per conoscere le terapie sanitarie praticate durante il periodo di detenzione.
Per l’ex detenuto, la domanda di accesso era necessaria per attivare la causa di riparazione per ingiusta detenzione come disciplinato dal Codice di procedura penale (artt. 314-315). A parere del Ministero, è l’Asl e non più l’Amministrazione carceraria a dover garantire l’accesso a tali atti poiché dal 2008 l’assistenza sanitaria penitenziaria è stata ormai trasferita al Servizio sanitario nazionale come disposto dal Governo su legge delega del Parlamento (Dpcm 1 aprile 2008 che fissa “le modalità, i criteri e le procedure per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, delle risorse finanziarie, dei rapporti di lavoro, delle attrezzature, arredi e beni strumentali relativi alla sanità penitenziaria”).
Secondo il collegio, invece, «vero è infatti che dall’entrata in vigore del DPCM dell’agosto 2008 la documentazione sanitaria riguardante lo stato di salute dei detenuti è formata dalle Asl, ma nulla vieta che i documenti sanitari in questione siano detenuti e conservati presso la struttura carceraria presso cui l’appellato è stato ristretto». Il principio è stato chiarito dopo aver sottolineato che «riguardo ai principi di tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. deve essere comunque garantito l’accesso ai documenti a chi deve acquisire la conoscenza di determinati atti per la cura degli interessi giuridicamente protetti» e che «l’art. 25 comma 2 della legge n. 241/90 – “Accesso ai documenti amministrativi”, ndr – stabilisce che è tenuta ad esibire i documenti l’Amministrazione che ha formato l’atto o che lo detiene stabilmente e tale norma non appare…preclusiva all’accoglimento dell’istanza di accesso» come nella controversia in esame.
Per i giudici di Palazzo Spada dunque «non viene allora disatteso il dettato legislativo che ha individuato, sia pure in via alternativa, l’Amministrazione tenuta a consentire l’esercizio del diritto di accesso, nel soggetto che detiene stabilmente, e quindi conserva, la relativa documentazione». Nel caso di specie, è stato precisato, «legittimamente e correttamente la domanda di accesso è stata rivolta dall’interessato alla Casa Circondariale, quale Amministrazione che conserva i documenti, ed è sempre la stessa Casa Circondariale che deve puntualmente evadere l’istanza».
In tema di diritto d’accesso a tali dati, come spiegato nella sentenza, l’istituto penitenziario è quindi la Pubblica amministrazione che possiede la documentazione sanitaria richiesta dal detenuto (art. 22, legge n. 241/1990) e che non a caso, nella fattispecie, è stata facilmente individuata dal collegio con la lettura di una nota già inviata al Tar dallo stesso direttore dell’istituto che, tra le altre cose, riferiva che «“… la richiesta dell’avvocato è stata pertanto girata…alla infermeria dove sono giacenti le cartelle cliniche…”».
Consiglio di Stato, Sez. IV, Sent. n. 1137/2015 del 06/03/2015