Sulle pareti delle celle ormai vuote del reparto più isolato le scritte di chi si lamenta del vicino di cella perché “parla con lo sciacquone del bagno”, o qualcun altro che si prescrive una dieta alimentare per dimagrire da seguire con attenzione – “tanta acqua e poca pasta” – o ancora chi chiede a se stesso “di farsi coraggio”, aspettando che trascorri il tempo dietro una porta blindata.
Le stanze dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa (Caserta), intitolato al medico aversano Filippo Saporito, sono la testimonianza di circa un secolo e mezzo di drammi. Della sofferenza di malati psichici, che si sono resi autori di reati gravi ma anche di di fatti lievi, e delle loro famiglie. L’Opg della cittadina normanna (ha aperto i battenti nel 1876), diretto da Elisabetta Palmieri, così come prevede la legge, dal 31 marzo scorso non accoglie più nuovi pazienti. E nel giro di qualche mese i suoi attuali 86 ospiti (quelli registrati oggi alla matricola) dovranno essere trasferiti nelle residenze per l’esecuzione delle misure sicurezza o nelle strutture intermedie di residenza.
Secondo i programmi finora annunciati, l’antica struttura diventerà un carcere a custodia attenuata, ovvero destinato a quei detenuti che non sono particolarmente pericolosi. Circa la metà degli ospiti dell’Opg di Aversa è campana. Gli altri vengono dal Lazio, dalla Lucania, dall’Abruzzo. E secondo la legge dovranno tornare nelle loro regioni e presi in carico dai servizi sanitari locali. In Campania la prima struttura alternativa – si tratta quella di Mondragone, in provincia di Caserta – diventerà operativa solo dalla prossima settimana.
Negli istituti di pena, invece, sono già sono state attrezzate le articolazioni per il superamento degli Opg. Si tratta di strutture di accoglienza provvisoria. In passato l’Opg di Aversa, il più antico di Italia, che sorge alle spalle dell’antico castello aragonese ora sede del tribunale e della procura di di Napoli Nord, ha ospitato anche fino a 250 persone.
In dieci, negli ultimi giorni, hanno varcato, l’uscita perché hanno scontato la pena oppure è stata revocata la misura di sicurezza a loro carico (che non può avere una durata superiore alla pena edittale) o possono seguire un programma terapeutico individuale nelle case famiglie. Altri, invece, attendono la decisione del tribunale di sorveglianza. Tante storie, una diversa dell’altra, con vicende che hanno segnato non solo l’esistenza dei singoli pazienti ma anche quella dei loro familiari.
Sono giovani ed anziani, tra cui alcune persone di discreta cultura, che continuano ad aggiornarsi su tutto e che alla vista dei giornalisti chiedono di fare precisazioni o di avere chiarimenti su notizie di stampa risalenti addirittura a qualche anno fa. C’è chi è dentro per aver ucciso la mamma o chi per aver commesso un furto. Un luogo che a qualcuno dispiace di lasciare: “Qui ho imparato a fare qualcosa – ha confidato un uomo di mezza età dentro per omicidio – quando vado fuori voglio lavorare anche senza soldi, perché non ho affatto bisogno di soldi”.
Alfonso Pirozzi
Ansa, 19 aprile 2015