Grosso (Gruppo Abele) : Il Governo resta in silenzio totale sulle Droghe da oltre un anno


Marijuana 3Sulla “questione droghe”, il governo risulta afasico. Dopo un primissimo vagito nei giorni iniziali del suo insediamento, costretto dalla abolizione per incostituzionalità della Fini-Giovanardi a ripristinare la vecchia normativa, il governo non ha più battuto un colpo, nonostante il semestre italiano di presidenza dell’Unione europea, occasione mancata per presentare la discontinuità dalla gestione Giovanardi-Serpelloni.

Il governo di larghe intese ha “incassato” la decisione della Corte Costituzionale. Nel doppio senso del termine. “Pugilisticamente”, affidando il compito di relatore del rabbercio legislativo allo stesso Giovanardi, con un’operazione incompiuta sia rispetto a vistose incoerenze normative risultanti dal nuovo testo unico, sia per la mancanza di una disposizione di legge che evitasse ai detenuti, condannati con una legge dichiarata incostituzionale, l’onere del ricorso individuale per la rideterminazione della pena.

Nello stesso tempo il governo ha incassato i benefici di una riforma extraparlamentare (la reintroduzione della distinzione tra droghe “pesanti” e “leggere”, con tutti gli effetti a cascata, in primis sul sovraffollamento carcerario) che nemmeno l’ultimo governo Prodi, nonostante le buone intenzioni, era stato in grado di portare a casa abrogando la Fini-Giovanardi.

Poi il silenzio totale per un anno intero, senza la designazione di un referente politico per il Dipartimento Anti Droga, a sostituzione e “correzione” del ruolo ricoperto troppo a lungo da Giovanardi.

La legge 309 del 90 richiede che ogni tre anni venga convocata una Conferenza nazionale per verificare e rideterminare le politiche sulle droghe: è sei anni che non viene indetta. La stessa legge prevede l’istituzione di una Consulta e di un Comitato scientifico che coadiuvi l’attività del Dipartimento: non sono mai stati nominati. Il Dipartimento ogni anno finanzia progetti a sostegno di obiettivi ritenuti prioritari o sperimentali, in collaborazione con i servizi pubblici e il privato-sociale accreditato: tutto è fermo e sono state bloccate anche le progettazioni che fruivano di una biennalità già predeterminata. L’indispensabile collaborazione con le Regioni, molto tormentata nella precedente gestione, non è stata ancora riavviata. La stessa relazione al parlamento, debito informativo che il governo ha come obbligo istituzionale, è pervenuta in ritardo e senza la tradizionale prefazione che definisce le priorità e gli orientamenti politici.

A livello internazionale, si avverte con ancora più urgenza la necessità di un riposizionamento dell’Italia rispetto alle politiche dell’Unione europea e dell’Onu.

Rompendo l’unitarietà della posizione europea, la gestione Giovanardi-Serpelloni ha schierato l’Italia contro il “pilastro” della Riduzione del danno. L’importantissima scadenza di New York dell’Assemblea Generale Onu sulle droghe (Ungass 2016), in cui si rifletterà sulla possibile revisione delle Convenzioni internazionali, necessita di un diverso ruolo dell’Italia, a favore, e non di ostacolo, alle significative innovazioni e coraggiose sperimentazioni condotte ormai in molti Paesi del vecchio e nuovo Continente.

Bisogna che il governo ri-apra con franchezza un percorso di confronto con tutto il settore: le istituzioni regionali, gli operatori del pubblico e del privato sociale, le associazioni coinvolte a vario titolo, i comitati delle famiglie, le rappresentanze dei consumatori, la società civile responsabile.

Leopoldo Grosso (Presidente onorario Gruppo Abele)

Il Manifesto, 8 aprile 2015

Rems, Camere Penali : il Governo intervenga subito in tutte le Regioni inadempienti


Camere PenaliApprendiamo che la Giunta Regionale toscana, dopo tanti tentennamenti, ha infine deciso di destinare gli internati toscani dell’Opg di Montelupo Fiorentino alla Casa Circondariale Mario Gozzini di Firenze che, per l’occasione, attraverso apposita operazione di maquillage, dovrebbe parzialmente trasformarsi in Rems a vigilanza rafforzata.

Avevamo denunciato nei giorni scorsi il fatto che l’Opg toscano, sebbene cancellato per legge, fosse ancora in piena attività e fosse evidentemente destinato a sopravvivere chissà per quanto tempo, vista l’incapacità della Regione di individuare soluzioni adeguate per la realizzazione delle strutture alternative previste dalla legge, miseramente documentata dalle plurime e variegate ipotesi formulate nell’arco di oltre tre anni e sempre rapidamente accantonate.

Tuttavia la scelta operata rappresenta il peggiore epilogo che potesse immaginarsi.

Ci si chiede come possa una Rems, che dovrebbe essere una struttura sanitaria e non penitenziaria, un luogo di cura e di assistenza e non di detenzione, come vuole la legge, essere ospitata dalla sezione di un carcere; come si possa immaginare di dare attuazione ad una legge che, con enorme progresso di civiltà, sancisce la chiusura degli Opg, trasferendo in malati in un carcere.

Il caso, inoltre, rappresenta un ulteriore campanello di allarme se si considera che già la Lombardia aveva deciso di trasformare in Rems a vigilanza rafforzata l’Opg di Castiglione delle Stiviere, con un’operazione che assomiglia molto ad un cambio di etichetta, e che il Piemonte e la Liguria avevano deciso di destinare i propri malati a quella struttura.

Non vorremmo – ma abbiamo motivo di temerlo – che una riforma di portata storica, grazie a scelte di questo tipo, si trasformasse in un’operazione gattopardesca.

Sono molte le Regioni che non sono pronte a rispettare il dettato normativo, nonostante il lunghissimo tempo avuto a disposizione. Gravissime inadempienze sulla pelle di persone che, invece, avrebbero bisogno di maggiori attenzioni, perché alle loro problematiche spesso si aggiunge l’abbandono da parte delle famiglie.

Chiediamo dunque al Governo di non ratificare la decisione della Regione Toscana, d’intervenire immediatamente in tutte le Regioni inadempienti e di nominare un commissario ad acta, come previsto dalla legge, per procedere rapidamente all’individuazione di soluzioni alternative per i malati di quelle regioni in cui non sono state ancora approntate soluzioni idonee, auspicabilmente rivalutando anche quelle che non sono in linea con l’ispirazione del percorso riformatore culminato nella Legge 81/2014.

La Giunta dell’Unione delle Camere Penali

http://www.camerepenali.it, 8 aprile 2015

Giustizia, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo all’Italia : “La tortura da voi è un problema strutturale”


Cedu1Diritti umani. La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per le violenze della Diaz. Censure pesanti contro stato e polizia: manca il reato specifico e l’identificativo degli agenti, le istituzioni coprirono i violenti. Il blitz alla Diaz durante il G8 di Genova deve essere qualificato come “tortura”, alla polizia è stato consentito di non collaborare alle indagini e la reazione dello Stato italiano non è stata efficace violando l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Lo ha stabilito la Corte europea di Strasburgo (Cedu) che ha accolto il ricorso di Arnaldo Cestaro, uno dei 92 manifestanti, picchiati e ingiustamente arrestati la notte del 21 luglio 2001. Cestaro, all’epoca 62 enne, uscì dalla scuola con fratture a braccia, gambe e costole che hanno richiesto numerosi interventi negli anni successivi.

Una sentenza che pesa come un macigno per un Paese le cui istituzioni hanno minimizzato fino all’ultimo quanto accadde in quella che, grazie alle parole di uno dei poliziotti intervenuti, è nota come la “macelleria messicana”.

La sentenza, decisa all’unanimità, per la prima volta condanna l’Italia per violenze qualificabili come tortura, escludendo che i fatti possano essere considerati solo come “trattamenti inumani e degradanti” e sottolineando la gravità delle sofferenze inflitte e la volontarietà deliberata di infliggerle. La Corte respinge anche la difesa del governo italiano secondo cui gli agenti intervenuti quella notte erano sottoposti a una particolare tensione: “La tensione – scrivono i giudici – non dipese tanto da ragioni oggettive quanto dalla decisione di procedere ad arresti con finalità mediatiche utilizzando modalità operative che non garantivano la tutela dei diritti umani”.

La Cedu entra poi nel cuore del problema: la reazione (o non reazione) dello Stato italiano a ciò che avvenne. “Gli esecutori materiali dell’aggressione non sono mai stati identificati e sono rimasti, molto semplicemente, impuniti” e la principale responsabilità di ciò è addebitabile alla “mancata collaborazione della polizia alle indagini”. Ma la Corte va anche oltre e lamenta che “alla polizia italiana è stato consentito di rifiutare impunemente di collaborare con le autorità competenti nell’identificazione degli agenti implicati negli atti di tortura”. I giudici ricordano che gli agenti devono portare un “numero di matricola che ne consenta l’identificazione”. Per quanto riguarda le condanne “nessuno è stato sanzionato per le lesioni personali” a causa della prescrizione mentre sono stati condannati solo alcuni funzionari per i “tentativi di giustificare i maltrattamenti”. Ma anche costoro hanno beneficiato di tre anni di indulto su una pena totale non superiore ai 4 anni.

La responsabilità di tutto ciò non è stata né della Procura né dei giudici ai quali il Governo italiano secondo la Corte ha provato ad attribuire la “colpa” della prescrizione. Anzi, al contrario, i magistrati hanno operato “diligentemente, superando ostacoli non indifferenti nel corso dell’inchiesta”.

Il problema, secondo la Corte, è “strutturale”: “La legislazione penale italiana si è rivelata inadeguata all’esigenza di sanzionare atti di tortura in modo da prevenire altre violazioni simili”. Infatti “la prescrizione in questi casi è inammissibile”, come inammissibili sono amnistia e indulto.

La Corte ritiene necessario che “i responsabili di atti di tortura siano sospesi durante le indagini e il processo e, destituiti dopo la condanna”. Esattamente il contrario di quanto accaduto. Forse anche per questo “il Governo italiano non ha mai risposto alla specifica richiesta di chiarimenti avanzata dai giudici di Strasburgo”.

Dall’ex capo dell’Ucigos Giovanni Luperi al direttore dello Sco Francesco Gratteri al suo vice Gilberto Caldarozzi, al capo del reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini, i massimi vertici della polizia hanno proseguito le loro brillanti carriere fino alla condanna definitiva.

Per molti di loro è arrivata nel frattempo l’agognata pensione, per gli altri nessuna destituzione da parte del Viminale ma solo l’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici disposta dai giudici, terminata la quale potranno rientrare in servizio. Per i capisquadra dei picchiatori del nucleo sperimentale antisommossa di Roma, condannati ma prescritti prima della Cassazione (ritenuti però responsabili agli affetti civili) non risultano sanzioni disciplinari, tantomeno per i loro sottoposti mai identificati.

“I vertici delle forze di polizia hanno ricevuto in questi anni soltanto attestazioni di stima e solidarietà” commenta il procuratore generale di Genova Enrico Zucca, che ha sostenuto l’accusa contro i poliziotti in primo e secondo grado – e mi rifiuto di credere che lo stato non abbia funzionari migliori di quelli che sono stati condannati”. “Quando nel corso dei processi insieme al collega Cardona parlavamo di tortura citando proprio casi della Cedu ci guardavano come fossimo pazzi”, ricorda con un pizzico di amarezza mista alla soddisfazione per una sentenza che considera però “scontata”. Per il magistrato, che spesso si trovò isolato anche all’interno della stessa Procura nell’inchiesta più scomoda “bisogna prevenire fatti di questo genere e in Italia non abbiamo antidoti all’interno del corpo di appartenenza. Le dichiarazioni dopo la sentenza definitiva dell’allora capo della polizia Manganelli non sono solo insufficienti ma dimostrano la mancata presa di coscienza di quello che è successo. Fece delle scuse, sì, ma parlando di pochi errori di singoli, senza riflettere sulla vastità del fenomeno”.

La sentenza che ha condannato l’Italia a un risarcimento di 45 mila euro ad Arnaldo Cestaro arriva a quattro anni dal ricorso. I legali di Cestaro, gli avvocati Niccolò e Natalia Paoletti, che non hanno neppure atteso la sentenza di Cassazione per rivolgersi alla Cedu, esprimono soddisfazione: “Siamo molto contenti, soprattutto per il fatto che la corte ha rilevato l’enorme mancanza dell’ordinamento interno italiano, vale a dire la non previsione del reato di tortura e lo invita quindi a porre dei rimedi”. Per il loro cliente anche un risarcimento superiore a quanto normalmente disposto dalla Corte per casi simili “anche se – dice l’avvocato – parlare di cifre rispetto alla violazione di determinati diritti, è svilente”.

“La sentenza della Corte di Strasburgo – commenta il sindaco di Genova Marco Doria – riconosce la tragica realtà delle violenze perpetrate alla Diaz e mette a nudo la responsabilità di una legislazione che non prevede il reato di tortura e, per questa ragione, lascia sostanzialmente impuniti i colpevoli. È una sentenza di grande valore, non solo da rispettare, ma da condividere pienamente”. “Uno stato democratico – aggiunge il sindaco – non deve mai tollerare che uomini che agiscono in suo nome compiano atti di brutale violenza contro le persone e i diritti dell’uomo. È, questa, una condizione essenziale anche per difendere la dignità di quanti operano invece negli apparati dello Stato secondo i principi della Costituzione”.

L’Italia, che potrebbe fare ricorso contro la sentenza, sarà costretta a ottemperare con una legge ad hoc. “Il modello – spiega l’avvocato Paoletti – potrebbe essere per esempio quello francese, che prevede per la tortura una pena base di 15 anni, aumentata a 20 in caso sia un pubblico ufficiale a commetterla e a 30 in caso di infermità permanente per la vittima, ma si sa che il nostro Paese è molto ‘bravò a ottemperare con molta lentezza alle sentenze della Cedu”. Nell’attesa, comunque lo Stato italiano potrebbe essere costretto a sborsare molto per risarcire le altre circa 60 parti civili della Diaz che hanno fatto ricorso in blocco dopo la sentenza definitiva. Se quella di Cestaro può essere considerata una sentenza-pilota, si può ipotizzare un risarcimento di quasi 3 milioni di euro. Senza contare i processi civili per le vittime non solo della Diaz ma anche di Bolzaneto, che sono appena cominciati.

Katia Bonchi

Il Manifesto, 8 aprile 2015

Cosenza, Sulla morte del detenuto Tavola, interrogati gli Agenti Penitenziari


 

Aldo TavolaLe condizioni di salute di Aldo Tavola sono state al centro della nuova udienza di oggi nell’ambito del processo sulla morte del detenuto deceduto il 26 giugno del 2012 nell’ospedale bruzio. Il tribunale di Cosenza ha acquisito i verbali delle guardie penitenziarie nel corso dell’udienza che si è svolta questa mattina nell’aula 5. L’uomo era stato trasferito nel nosocomio il 22 giugno per problemi neurologici.

Nel processo sono imputati Francesco Montilli, responsabile dell’area sanitaria del carcere di Castrovillari, e i medici dell’Annunziata Furio Stancati, Angela Gallo, Domenico Scornaienghi, Ermanno Pisani, Carmen Gaudiano e Antonio Grossi. Tavola che era stato ricoverato per problemi neurologici e lamentava – emerge dalle denunce dei familiari – dolori alle gambe, è deceduto però per shock emorragico causato da un’ulcera perforante.

Per l’accusa, i medici e il responsabile sanitario del carcere avrebbero sottovalutato la patologia lamentata dal paziente e riscontrata da alcuni esami endoscopici.
In particolare, il giudice monocratico del foro bruzio ha deciso di acquisire i verbali delle guardie che hanno svolto il servizio di piantonamento quando Tavola era detenuto. Solo due degli agenti sono stati sentiti, oggi, per ulteriori approfondimenti: Alfredo Ponterio e Giuseppe Brusco.

I due hanno riferito delle condizioni di salute del paziente: Tavola si lamentava per i dolori, ma i medici in servizio sono arrivati sempre a visitarlo. Il processo è stato rinviato al prossimo 23 giugno quando sarà sentito il direttore facente funzioni del reparto di Neurologia dell’Annunziata, Alfredo Petrone, e i consulenti della Procura, i medici legali Silvio Cavalcanti e Vannio Vercillo. Per quella data il giudice ha disposto, anche, l’acquisizione dei registri di accesso alle celle custoditi dalle guardie penitenziarie. Nel collegio difensivo, tra gli altri, anche l’avvocato Franz Caruso.

Mirella Molinaro

Corriere della Calabria, 07 Aprile 2015