Giustizia: cancelliamo il 4 bis della Legge Penitenziaria, è contro la Costituzione


281778_203223483069863_6404471_nDi qualunque condanna si tratti, è inammissibile una carcerazione non protesa alla riammissione in società. C’è una norma nell’ordinamento penitenziario che è stigmate, preclusione di speranza, mutilazione di rieducazione, negazione di umanità.

C’è una norma che spezza ogni anelito dì cambiamento a coloro che sono stati condannati per una determinata categoria di reati, salvo che collaborino con la giustizia. C’è una norma che e incostituzionale e deve essere abrogata.

E’ l’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario. E una nonna tarlata da stridenti contraddizioni rispetto al dettato costituzionale, scaturigine di indirizzi giurisprudenziali schizofrenici. I giudici di legittimità esprimono principi assoluti e inderogabili afferenti alla proiezione di ogni pena alla rieducazione del condannato per poi stravolgerli ineluttabilmente a fronte dello sbarramento cieco dei reati ostativi alla concessione di qualsivoglia beneficio intramurario ad eccezione della liberazione anticipata.

Si impone, dunque, un adeguamento normativo della legislazione ordinaria a quella di rango costituzionale reso più cogente da imperativi comunitari che ricordano come sia inammissibile una carcerazione non protesa alla riammissione della persona detenuta nel tessuto sociale, alla aspirazione alla libertà, alla speranza di restituzione alla vita (Vinter c. Regno Unito).

Occorre una visione costituzionalmente orientata dell’accesso alle misure alternative alla carcerazione attraverso verifiche del percorso compiuto dalla persona ristretta avulse da meccanismi mercimoniosi; una “valutazione della condotta complessiva – per usare le parole della Cassazione – che consenta di verificare che l’azione rieducativa svolta abbia condotto il detenuto ad una revisione critica della vita anteatta”; una valutazione che non radichi il giudizio sul compiuto ravvedimento del condannato a logiche auto od eteroaccusatorie che si scontrano con principi anch’essi di valore e rango costituzionale, ma adotti criteri personalistici ed esuli da logiche preconcette ed aprioristiche.

“Nemo tenetur se detergere” è principio cui è improntato l’intero sistema ordinamentale e da esso trae sostanza la giurisprudenza di legittimità che con indirizzo costante afferma: “la concessione delle misure alternative alla detenzione non presuppone la confessione del condannato”. Nessuno può essere coartato all’autoaccusa, ad affermare la propria responsabilità penale; nessuno può essere privato del diritto di professarsi innocente (magari perfino di esserlo!). É una tutela offerta dalla Costituzione e racchiusa nei principi di inviolabilità del diritto di difesa e di non colpevolezza posti a presidio della libertà – da intendersi come valore assoluto e preminente – ma anche del decoro e della reputazione del soggetto nel contesto in cui il vive.

La correlazione tra aspirazione all’accesso ai benefici penitenziari e obbligatorio approdo a condotte auto ed etero accusatorie – quando non meramente delatorie – contrasta con violenza con i principi evocati e si pone in feroce contrapposizione con il diritto di qualunque soggetto, perfino condannato con sentenza definitiva, a proclamare la propria innocenza.

La Corte Costituzionale ha offerto uno spunto di cambiamento, un segnale positivo affermando l’esistenza di “un criterio costituzionalmente vincolante” che impone di “escludere rigidi automatismi” nella materia dei benefici penitenziari, ossia divieti aprioristici all’accesso ai benefìci premiali e alle misure alternative al carcere tratti dal tipo di reato.

Esiste, dunque, una vistosa separazione tra compimento del percorso rieducativo e collaborazione con la giustizia per cui è, deve essere, del tutto ammissibile che un percorso di reinserimento nel tessuto sociale possa dirsi compiuto anche in difetto di approdo alla scelta collaborativa. Nessun uomo può giungere al pentimento, quello autentico dell’anima, se non sarà mai perdonato. Nessuna spinta positiva esercita una pena che non ha fine né emenda. Il 4 bis è una norma che deve essere cancellata. Lo chiede la Costituzione, lo chiede la ragione.

Avv. Maria Brucale

Il Garantista, 30 aprile 2015

Carceri, Visita Ispettiva a Terni del Sen. Compagna e Mazzotta dei Radicali


Carcere di TerniSoddisfazione del parlamentare di Ncd: “La gestione della struttura la allontana dall’area del malessere. Necessario differenziare tra custodia cautelare e detenuti con sentenze”. Una visita da parte di un parlamentare presso una casa circondariale è un diritto, ma anche un dovere: per queste ragioni, nella mattinata di lunedì 27 aprile il senatore di Nuovo Centro Destra Luigi Compagna, insieme a Luigi Mazzotta, presidente dell’associazione Per La Grande Napoli (Radicali italiani), hanno effettuato una visita ispettiva presso le carceri di Vocabolo Sabbione.

Detenuti da diverse realtà Terni è vicina a Roma e il carcere umbro è “interessante e articolato per la composizione dei suoi ospiti”.

Così ha esordito il senatore Compagna parlando dei risultati, molto positivi, della visita effettuata. “La provenienza dei detenuti -ha spiegato il parlamentare- non è quella del malessere sociale e della delinquenza umbri, ma questi arrivano da altre realtà, anche lontane: in particolare, sono stato colpito dal fatto che Nicola Cosentino fosse stato trasferito a Terni e ho reputato giusto effettuare un incontro con la direttrice della struttura, Chiara Pellegrini, e il comandante della Polizia penitenziaria, Fabio Gallo”.

Condizioni soddisfacenti Come ha spiegato Compagna, le condizioni della struttura sono molto soddisfacenti, perché “si allontanano dall’area del malessere”. Fra i detenuti, nonostante la presenza di un 10% di stranieri, non si creano condizioni di insofferenza razziale. La logistica è buona, così come lo sono le condizioni in cui gli stessi detenuti vivono in cella: tra di essi, molti alloggiano da soli, mentre altri arrivano a un massimo di tre individui. Lo stesso è stato rilevato per la situazione sanitaria interna al carcere, che grazie “all’impegno e alla solerzia degli operatori funziona in modo pronto ed efficiente”.

“Forno solidale” e personale Due sono state le sottolineature del senatore Campagna: in primis, un appello alla Regione per l’investimento di maggiori risorse per portare a termine il progetto della panetteria solidale, facendo così “veri passi in avanti in tema di diritto al lavoro”, quindi un auspicio, quello di poter vedere in futuro aumentate le unità di personale, al fine di garantire un funzionamento ancor più organizzato del carcere, specialmente con una migliore distribuzione fra gli addetti alle custodie cautelari e a chi è detenuto dopo l’emanazione di una sentenza.

Noemi Matteucci

http://www.umbria24.it, 28 aprile 2015

Intervista di Radio Radicale al Sen. Compagna ed al Radicale Mazzotta

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Civitavecchia: detenuta suicida, Direttrice e Funzionari di Polizia Penitenziaria condannati per omicidio colposo


Casa Circondariale di CivitavecchiaSi tolse la vita impiccandosi in cella, dopo aver tentato il suicidio un’altra volta, nella stessa settimana. Una morte annunciata quella di Anna Toracchi, donna affetta da sindrome bipolare, per cui l’allora direttrice del carcere di Civitavecchia, Patrizia Bravetti, non avrebbe disposto un regime di sorveglianza adeguato a scongiurare la tragedia.

Ora le scelte operate dal funzionario sono state giudicate come un errore di valutazione dal giudice monocratico Monica Ciancio, che ha condannato la Bravetti a un anno di carcere, con l’accusa di omicidio colposo. Lo stesso verdetto di condanna a dodici mesi di reclusione è stato pronunciato dal magistrato nei confronti di Marco Celli, comandante delle guardie del penitenziario, e di Cecilia Ciocci, responsabile del reparto femminile del carcere. Il giudice, invece, ha assolto Paolo Badellino, lo psichiatra che aveva in cura la donna poiché il medico, dopo aver segnalato le problematiche comportamentali, consigliò alla direttrice di ricoverare la Toracchi in un ospedale psichiatrico.

Ai familiari della giovane – assistiti dagli avvocati Valerio Aulino e Alessandra Pietrantoni – il magistrato ha riconosciuto una provvisionale di 10 mila euro. La tragedia risale alla mattina del 20 giugno del 2009, quando le guardie carcerarie aprirono la cella dove era detenuta la Toracchi e la trovarono impiccata alla finestra. Tragedia non inattesa. Solo tre giorni prima, la donna, 35 anni, aveva cominciato a battersi la testa contro il muro per protesta.

A rendere ancora più amara la disgrazia, la circostanza che il 13 giugno la Toracchi aveva provato a suicidarsi proprio impiccandosi con il cavo della televisione. Nonostante i segnali mostrati dalla detenuta, la direttrice si limitò a stabilire un regime chiamato “grande sorveglianza” che prevedeva un controllo della detenuta a intervalli di dieci minuti. Tempo sufficiente alla donna per suicidarsi.

Giulio De Santis

Corriere della Sera, 28 aprile 2015

Carceri, va valutata la richiesta del detenuto di essere spostato in una cella non fumatori


Corte di cassazione1Va affrontata seriamente la richiesta del detenuto di essere trasferito in una cella per non fumatori. In generale, per la Cassazione, Sentenza n. 17014/2015, tutti i reclami che lamentano la violazione di «diritti soggettivi», fa cui svetta la carenza di spazio, non possono essere liquidati con formule generiche ma esigono sempre una valutazione concreta delle condizioni della carcerazione.

Il caso
– Il Magistrato di Sorveglianza di Cosenza aveva respinto tutte le doglianze di un detenuto. Riguardo la dedotta impossibilità di utilizzare la lavanderia esterna, il giudice ha stabilito che dipendeva soltanto dall’assenza della specifica domanda. Non era vero, invece, che il farmaco richiesto non gli veniva somministrato essendo al contrario provato che ne riceveva gratuitamente uno equivalente. Mentre la cella (per sei persone) era «in linea con quanto prescritto dalla legge».

La motivazione
– Proposto ricorso, i giudici di legittimità hanno in primis chiarito che, dopo la sentenza della Consulta 26/1999, il ricorso per Cassazione avverso il rigetto dei reclami dei detenuti è sempre «ammissibile nella misura in cui si verta in tema di indebita limitazione dei diritti soggettivi». Per cui, prosegue la sentenza, mentre la questione della lavanderia esula da tale categoria, le altre doglianze meritano di essere valutate riguardando «situazioni tali da incidere sul diritto alla salute e sul diritto ad una pena detentiva in linea con il divieto di trattamenti inumani».

E se non vi è motivo di dubitare della idoneità del farmaco, con riguardo invece alla spazio intramurario «il provvedimento impugnato non affronta realmente i temi posti nei reclami». In assenza di una chiara regolamentazione normativa, infatti, la Suprema corte ricorda che il «parametro di riferimento» resta la sentenza Torreggiani emessa dalla Cedu nel 2013 dove si stabilisce che lo spazio minimo a disposizione del detenuto «non può essere inferiore a tre metri quadrati».

Ciò detto, continua la Corte, «il giudice del reclamo è chiamato ad accertare e valutare la condizione di fatto della carcerazione». Al contrario, nel caso in esame «il provvedimento si limita ad affermare che la camera detentiva è in linea con quanto prescritto dalla legge senza precisare qual è la sua superficie in rapporto al numero delle persone che la occupano». «Si tratta di risposta non adeguata», chiosano i giudici.

Infine con riferimento alla questione del fumo passivo, la Corte stabilisce che mentre la richiesta di essere messi in una cella dove si può fumare rende la doglianza inammissibile, la domanda opposta investendo un «aspetto indubbiamente correlato alla tutela del diritto alla salute» merita una risposta adeguata.

Corte di Cassazione, Sez. I, Sent. n. 17014/2015 del 23/04/2015

Salute dei detenuti, il diritto d’accesso agli atti va garantito anche dall’Istituto Penitenziario


Consiglio di StatoIl diritto d’accesso agli atti sulla salute dei detenuti va garantito anche dall’istituto penitenziario che li ha conservati stabilmente e non solo dall’Asl a cui il legislatore ha deciso di trasferire la competenza sull’assistenza sanitaria carceraria. A stabilirlo è il Consiglio di Stato nella sentenza n. 1137/2015, depositata dalla Quarta sezione il 6 marzo scorso. I giudici, in linea con quanto deciso in primo grado, hanno bocciato il ricorso del ministero della Giustizia e di una casa circondariale che col silenzio-diniego avevano negato ad un ex detenuto, in carcere per cinque mesi da novembre 2010 ad aprile 2011, ma poi scarcerato e prosciolto con sentenza di assoluzione, di estrarre copia della propria documentazione medica per conoscere le terapie sanitarie praticate durante il periodo di detenzione.
Per l’ex detenuto, la domanda di accesso era necessaria per attivare la causa di riparazione per ingiusta detenzione come disciplinato dal Codice di procedura penale (artt. 314-315). A parere del Ministero, è l’Asl e non più l’Amministrazione carceraria a dover garantire l’accesso a tali atti poiché dal 2008 l’assistenza sanitaria penitenziaria è stata ormai trasferita al Servizio sanitario nazionale come disposto dal Governo su legge delega del Parlamento (Dpcm 1 aprile 2008 che fissa “le modalità, i criteri e le procedure per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, delle risorse finanziarie, dei rapporti di lavoro, delle attrezzature, arredi e beni strumentali relativi alla sanità penitenziaria”).

Secondo il collegio, invece, «vero è infatti che dall’entrata in vigore del DPCM dell’agosto 2008 la documentazione sanitaria riguardante lo stato di salute dei detenuti è formata dalle Asl, ma nulla vieta che i documenti sanitari in questione siano detenuti e conservati presso la struttura carceraria presso cui l’appellato è stato ristretto». Il principio è stato chiarito dopo aver sottolineato che «riguardo ai principi di tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. deve essere comunque garantito l’accesso ai documenti a chi deve acquisire la conoscenza di determinati atti per la cura degli interessi giuridicamente protetti» e che «l’art. 25 comma 2 della legge n. 241/90 – “Accesso ai documenti amministrativi”, ndr – stabilisce che è tenuta ad esibire i documenti l’Amministrazione che ha formato l’atto o che lo detiene stabilmente e tale norma non appare…preclusiva all’accoglimento dell’istanza di accesso» come nella controversia in esame.

Per i giudici di Palazzo Spada dunque «non viene allora disatteso il dettato legislativo che ha individuato, sia pure in via alternativa, l’Amministrazione tenuta a consentire l’esercizio del diritto di accesso, nel soggetto che detiene stabilmente, e quindi conserva, la relativa documentazione». Nel caso di specie, è stato precisato, «legittimamente e correttamente la domanda di accesso è stata rivolta dall’interessato alla Casa Circondariale, quale Amministrazione che conserva i documenti, ed è sempre la stessa Casa Circondariale che deve puntualmente evadere l’istanza».

In tema di diritto d’accesso a tali dati, come spiegato nella sentenza, l’istituto penitenziario è quindi la Pubblica amministrazione che possiede la documentazione sanitaria richiesta dal detenuto (art. 22, legge n. 241/1990) e che non a caso, nella fattispecie, è stata facilmente individuata dal collegio con la lettura di una nota già inviata al Tar dallo stesso direttore dell’istituto che, tra le altre cose, riferiva che «“… la richiesta dell’avvocato è stata pertanto girata…alla infermeria dove sono giacenti le cartelle cliniche…”».

Consiglio di Stato, Sez. IV, Sent. n. 1137/2015 del 06/03/2015

Caserta: l’Opg di Aversa verso la chiusura dopo 150 anni, diventerà un carcere


OPG AversaSulle pareti delle celle ormai vuote del reparto più isolato le scritte di chi si lamenta del vicino di cella perché “parla con lo sciacquone del bagno”, o qualcun altro che si prescrive una dieta alimentare per dimagrire da seguire con attenzione – “tanta acqua e poca pasta” – o ancora chi chiede a se stesso “di farsi coraggio”, aspettando che trascorri il tempo dietro una porta blindata.

Le stanze dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa (Caserta), intitolato al medico aversano Filippo Saporito, sono la testimonianza di circa un secolo e mezzo di drammi. Della sofferenza di malati psichici, che si sono resi autori di reati gravi ma anche di di fatti lievi, e delle loro famiglie. L’Opg della cittadina normanna (ha aperto i battenti nel 1876), diretto da Elisabetta Palmieri, così come prevede la legge, dal 31 marzo scorso non accoglie più nuovi pazienti. E nel giro di qualche mese i suoi attuali 86 ospiti (quelli registrati oggi alla matricola) dovranno essere trasferiti nelle residenze per l’esecuzione delle misure sicurezza o nelle strutture intermedie di residenza.

Secondo i programmi finora annunciati, l’antica struttura diventerà un carcere a custodia attenuata, ovvero destinato a quei detenuti che non sono particolarmente pericolosi. Circa la metà degli ospiti dell’Opg di Aversa è campana. Gli altri vengono dal Lazio, dalla Lucania, dall’Abruzzo. E secondo la legge dovranno tornare nelle loro regioni e presi in carico dai servizi sanitari locali. In Campania la prima struttura alternativa – si tratta quella di Mondragone, in provincia di Caserta – diventerà operativa solo dalla prossima settimana.

Cella OPG AversaNegli istituti di pena, invece, sono già sono state attrezzate le articolazioni per il superamento degli Opg. Si tratta di strutture di accoglienza provvisoria. In passato l’Opg di Aversa, il più antico di Italia, che sorge alle spalle dell’antico castello aragonese ora sede del tribunale e della procura di di Napoli Nord, ha ospitato anche fino a 250 persone.

In dieci, negli ultimi giorni, hanno varcato, l’uscita perché hanno scontato la pena oppure è stata revocata la misura di sicurezza a loro carico (che non può avere una durata superiore alla pena edittale) o possono seguire un programma terapeutico individuale nelle case famiglie. Altri, invece, attendono la decisione del tribunale di sorveglianza. Tante storie, una diversa dell’altra, con vicende che hanno segnato non solo l’esistenza dei singoli pazienti ma anche quella dei loro familiari.

Sono giovani ed anziani, tra cui alcune persone di discreta cultura, che continuano ad aggiornarsi su tutto e che alla vista dei giornalisti chiedono di fare precisazioni o di avere chiarimenti su notizie di stampa risalenti addirittura a qualche anno fa. C’è chi è dentro per aver ucciso la mamma o chi per aver commesso un furto. Un luogo che a qualcuno dispiace di lasciare: “Qui ho imparato a fare qualcosa – ha confidato un uomo di mezza età dentro per omicidio – quando vado fuori voglio lavorare anche senza soldi, perché non ho affatto bisogno di soldi”.

Alfonso Pirozzi

Ansa, 19 aprile 2015

Frosinone, detenuto tenta il suicidio in cella poco prima dell’assoluzione


Carcere FrosinoneDrammatica la vicenda accaduta a Bassi Pietro, ultimo reduce dell’organizzazione mafiosa capeggiata da Salvatore Anacondia, storico boss della mafia Nord barese, di cui Bassi era l’indiscusso braccio destro.

Il 57enne Bassi Pietro, noto con lo pseudonimo di “Bobby solo”, già condannato per il reato di duplice omicidio e di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, estradato dall’Olanda ove era stato catturato su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, dopo un lungo periodo di detenzione nella Casa Circondariale di Bellizzi Irpino era stato da poco trasferito nel Carcere di Frosinone. L’approssimarsi di un nuovo processo penale, da celebrarsi nel tribunale di Trani, aveva ingenerato nell’uomo un profondo stato di angoscia.

E così il 25 marzo 2015, dopo aver rinunciato a comparire all’udienza dibattimentale fissata agli inizi di aprile per la sola discussione dinanzi al tribunale di Trani, salito in cella ed approfittato del fatto che gli altri detenuti erano usciti per l’ora d’aria, ha tentato di suicidarsi impiccandosi con le lenzuola legate alla grata della finestra. Il detenuto ha penzolato per circa una quarantina di secondi fino a quando gli insoliti rumori sentiti dal vicino di cella e l’allarme dato, hanno consentito il provvidenziale intervento degli agenti di Polizia penitenziaria.

Bassi è stato immediatamente trasportato in gravissime condizioni nell’ospedale di Frosinone dove tutt’ora si trova in stato di coma.

Sconvolto il legale di fiducia del Bassi, l’avvocato penalista Rolando Iorio, che non ha avuto neanche la soddisfazione di poter comunicare al proprio assistito, che versa in uno stato di coma, l’esito del processo penale celebratosi dinanzi al Tribunale di Trani, Presidente Dott. D’Angeli, che ha mandato assolto Bassi con formula piena perché il fatto non sussiste. “Questa vicenda” ha commentato il legale, “accende ancora una volta la luce sulla drammatica condizione dei detenuti nel nostro Paese, spesso costretti a vivere in condizioni insopportabili, vittime di pregiudizi e ritenuti colpevoli già prima della celebrazione dei processi”.

Paola Iandolo

http://www.ottopagine.it, 19 aprile 2015

Grosso (Gruppo Abele) : Il Governo resta in silenzio totale sulle Droghe da oltre un anno


Marijuana 3Sulla “questione droghe”, il governo risulta afasico. Dopo un primissimo vagito nei giorni iniziali del suo insediamento, costretto dalla abolizione per incostituzionalità della Fini-Giovanardi a ripristinare la vecchia normativa, il governo non ha più battuto un colpo, nonostante il semestre italiano di presidenza dell’Unione europea, occasione mancata per presentare la discontinuità dalla gestione Giovanardi-Serpelloni.

Il governo di larghe intese ha “incassato” la decisione della Corte Costituzionale. Nel doppio senso del termine. “Pugilisticamente”, affidando il compito di relatore del rabbercio legislativo allo stesso Giovanardi, con un’operazione incompiuta sia rispetto a vistose incoerenze normative risultanti dal nuovo testo unico, sia per la mancanza di una disposizione di legge che evitasse ai detenuti, condannati con una legge dichiarata incostituzionale, l’onere del ricorso individuale per la rideterminazione della pena.

Nello stesso tempo il governo ha incassato i benefici di una riforma extraparlamentare (la reintroduzione della distinzione tra droghe “pesanti” e “leggere”, con tutti gli effetti a cascata, in primis sul sovraffollamento carcerario) che nemmeno l’ultimo governo Prodi, nonostante le buone intenzioni, era stato in grado di portare a casa abrogando la Fini-Giovanardi.

Poi il silenzio totale per un anno intero, senza la designazione di un referente politico per il Dipartimento Anti Droga, a sostituzione e “correzione” del ruolo ricoperto troppo a lungo da Giovanardi.

La legge 309 del 90 richiede che ogni tre anni venga convocata una Conferenza nazionale per verificare e rideterminare le politiche sulle droghe: è sei anni che non viene indetta. La stessa legge prevede l’istituzione di una Consulta e di un Comitato scientifico che coadiuvi l’attività del Dipartimento: non sono mai stati nominati. Il Dipartimento ogni anno finanzia progetti a sostegno di obiettivi ritenuti prioritari o sperimentali, in collaborazione con i servizi pubblici e il privato-sociale accreditato: tutto è fermo e sono state bloccate anche le progettazioni che fruivano di una biennalità già predeterminata. L’indispensabile collaborazione con le Regioni, molto tormentata nella precedente gestione, non è stata ancora riavviata. La stessa relazione al parlamento, debito informativo che il governo ha come obbligo istituzionale, è pervenuta in ritardo e senza la tradizionale prefazione che definisce le priorità e gli orientamenti politici.

A livello internazionale, si avverte con ancora più urgenza la necessità di un riposizionamento dell’Italia rispetto alle politiche dell’Unione europea e dell’Onu.

Rompendo l’unitarietà della posizione europea, la gestione Giovanardi-Serpelloni ha schierato l’Italia contro il “pilastro” della Riduzione del danno. L’importantissima scadenza di New York dell’Assemblea Generale Onu sulle droghe (Ungass 2016), in cui si rifletterà sulla possibile revisione delle Convenzioni internazionali, necessita di un diverso ruolo dell’Italia, a favore, e non di ostacolo, alle significative innovazioni e coraggiose sperimentazioni condotte ormai in molti Paesi del vecchio e nuovo Continente.

Bisogna che il governo ri-apra con franchezza un percorso di confronto con tutto il settore: le istituzioni regionali, gli operatori del pubblico e del privato sociale, le associazioni coinvolte a vario titolo, i comitati delle famiglie, le rappresentanze dei consumatori, la società civile responsabile.

Leopoldo Grosso (Presidente onorario Gruppo Abele)

Il Manifesto, 8 aprile 2015

Rems, Camere Penali : il Governo intervenga subito in tutte le Regioni inadempienti


Camere PenaliApprendiamo che la Giunta Regionale toscana, dopo tanti tentennamenti, ha infine deciso di destinare gli internati toscani dell’Opg di Montelupo Fiorentino alla Casa Circondariale Mario Gozzini di Firenze che, per l’occasione, attraverso apposita operazione di maquillage, dovrebbe parzialmente trasformarsi in Rems a vigilanza rafforzata.

Avevamo denunciato nei giorni scorsi il fatto che l’Opg toscano, sebbene cancellato per legge, fosse ancora in piena attività e fosse evidentemente destinato a sopravvivere chissà per quanto tempo, vista l’incapacità della Regione di individuare soluzioni adeguate per la realizzazione delle strutture alternative previste dalla legge, miseramente documentata dalle plurime e variegate ipotesi formulate nell’arco di oltre tre anni e sempre rapidamente accantonate.

Tuttavia la scelta operata rappresenta il peggiore epilogo che potesse immaginarsi.

Ci si chiede come possa una Rems, che dovrebbe essere una struttura sanitaria e non penitenziaria, un luogo di cura e di assistenza e non di detenzione, come vuole la legge, essere ospitata dalla sezione di un carcere; come si possa immaginare di dare attuazione ad una legge che, con enorme progresso di civiltà, sancisce la chiusura degli Opg, trasferendo in malati in un carcere.

Il caso, inoltre, rappresenta un ulteriore campanello di allarme se si considera che già la Lombardia aveva deciso di trasformare in Rems a vigilanza rafforzata l’Opg di Castiglione delle Stiviere, con un’operazione che assomiglia molto ad un cambio di etichetta, e che il Piemonte e la Liguria avevano deciso di destinare i propri malati a quella struttura.

Non vorremmo – ma abbiamo motivo di temerlo – che una riforma di portata storica, grazie a scelte di questo tipo, si trasformasse in un’operazione gattopardesca.

Sono molte le Regioni che non sono pronte a rispettare il dettato normativo, nonostante il lunghissimo tempo avuto a disposizione. Gravissime inadempienze sulla pelle di persone che, invece, avrebbero bisogno di maggiori attenzioni, perché alle loro problematiche spesso si aggiunge l’abbandono da parte delle famiglie.

Chiediamo dunque al Governo di non ratificare la decisione della Regione Toscana, d’intervenire immediatamente in tutte le Regioni inadempienti e di nominare un commissario ad acta, come previsto dalla legge, per procedere rapidamente all’individuazione di soluzioni alternative per i malati di quelle regioni in cui non sono state ancora approntate soluzioni idonee, auspicabilmente rivalutando anche quelle che non sono in linea con l’ispirazione del percorso riformatore culminato nella Legge 81/2014.

La Giunta dell’Unione delle Camere Penali

http://www.camerepenali.it, 8 aprile 2015

Giustizia, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo all’Italia : “La tortura da voi è un problema strutturale”


Cedu1Diritti umani. La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per le violenze della Diaz. Censure pesanti contro stato e polizia: manca il reato specifico e l’identificativo degli agenti, le istituzioni coprirono i violenti. Il blitz alla Diaz durante il G8 di Genova deve essere qualificato come “tortura”, alla polizia è stato consentito di non collaborare alle indagini e la reazione dello Stato italiano non è stata efficace violando l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Lo ha stabilito la Corte europea di Strasburgo (Cedu) che ha accolto il ricorso di Arnaldo Cestaro, uno dei 92 manifestanti, picchiati e ingiustamente arrestati la notte del 21 luglio 2001. Cestaro, all’epoca 62 enne, uscì dalla scuola con fratture a braccia, gambe e costole che hanno richiesto numerosi interventi negli anni successivi.

Una sentenza che pesa come un macigno per un Paese le cui istituzioni hanno minimizzato fino all’ultimo quanto accadde in quella che, grazie alle parole di uno dei poliziotti intervenuti, è nota come la “macelleria messicana”.

La sentenza, decisa all’unanimità, per la prima volta condanna l’Italia per violenze qualificabili come tortura, escludendo che i fatti possano essere considerati solo come “trattamenti inumani e degradanti” e sottolineando la gravità delle sofferenze inflitte e la volontarietà deliberata di infliggerle. La Corte respinge anche la difesa del governo italiano secondo cui gli agenti intervenuti quella notte erano sottoposti a una particolare tensione: “La tensione – scrivono i giudici – non dipese tanto da ragioni oggettive quanto dalla decisione di procedere ad arresti con finalità mediatiche utilizzando modalità operative che non garantivano la tutela dei diritti umani”.

La Cedu entra poi nel cuore del problema: la reazione (o non reazione) dello Stato italiano a ciò che avvenne. “Gli esecutori materiali dell’aggressione non sono mai stati identificati e sono rimasti, molto semplicemente, impuniti” e la principale responsabilità di ciò è addebitabile alla “mancata collaborazione della polizia alle indagini”. Ma la Corte va anche oltre e lamenta che “alla polizia italiana è stato consentito di rifiutare impunemente di collaborare con le autorità competenti nell’identificazione degli agenti implicati negli atti di tortura”. I giudici ricordano che gli agenti devono portare un “numero di matricola che ne consenta l’identificazione”. Per quanto riguarda le condanne “nessuno è stato sanzionato per le lesioni personali” a causa della prescrizione mentre sono stati condannati solo alcuni funzionari per i “tentativi di giustificare i maltrattamenti”. Ma anche costoro hanno beneficiato di tre anni di indulto su una pena totale non superiore ai 4 anni.

La responsabilità di tutto ciò non è stata né della Procura né dei giudici ai quali il Governo italiano secondo la Corte ha provato ad attribuire la “colpa” della prescrizione. Anzi, al contrario, i magistrati hanno operato “diligentemente, superando ostacoli non indifferenti nel corso dell’inchiesta”.

Il problema, secondo la Corte, è “strutturale”: “La legislazione penale italiana si è rivelata inadeguata all’esigenza di sanzionare atti di tortura in modo da prevenire altre violazioni simili”. Infatti “la prescrizione in questi casi è inammissibile”, come inammissibili sono amnistia e indulto.

La Corte ritiene necessario che “i responsabili di atti di tortura siano sospesi durante le indagini e il processo e, destituiti dopo la condanna”. Esattamente il contrario di quanto accaduto. Forse anche per questo “il Governo italiano non ha mai risposto alla specifica richiesta di chiarimenti avanzata dai giudici di Strasburgo”.

Dall’ex capo dell’Ucigos Giovanni Luperi al direttore dello Sco Francesco Gratteri al suo vice Gilberto Caldarozzi, al capo del reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini, i massimi vertici della polizia hanno proseguito le loro brillanti carriere fino alla condanna definitiva.

Per molti di loro è arrivata nel frattempo l’agognata pensione, per gli altri nessuna destituzione da parte del Viminale ma solo l’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici disposta dai giudici, terminata la quale potranno rientrare in servizio. Per i capisquadra dei picchiatori del nucleo sperimentale antisommossa di Roma, condannati ma prescritti prima della Cassazione (ritenuti però responsabili agli affetti civili) non risultano sanzioni disciplinari, tantomeno per i loro sottoposti mai identificati.

“I vertici delle forze di polizia hanno ricevuto in questi anni soltanto attestazioni di stima e solidarietà” commenta il procuratore generale di Genova Enrico Zucca, che ha sostenuto l’accusa contro i poliziotti in primo e secondo grado – e mi rifiuto di credere che lo stato non abbia funzionari migliori di quelli che sono stati condannati”. “Quando nel corso dei processi insieme al collega Cardona parlavamo di tortura citando proprio casi della Cedu ci guardavano come fossimo pazzi”, ricorda con un pizzico di amarezza mista alla soddisfazione per una sentenza che considera però “scontata”. Per il magistrato, che spesso si trovò isolato anche all’interno della stessa Procura nell’inchiesta più scomoda “bisogna prevenire fatti di questo genere e in Italia non abbiamo antidoti all’interno del corpo di appartenenza. Le dichiarazioni dopo la sentenza definitiva dell’allora capo della polizia Manganelli non sono solo insufficienti ma dimostrano la mancata presa di coscienza di quello che è successo. Fece delle scuse, sì, ma parlando di pochi errori di singoli, senza riflettere sulla vastità del fenomeno”.

La sentenza che ha condannato l’Italia a un risarcimento di 45 mila euro ad Arnaldo Cestaro arriva a quattro anni dal ricorso. I legali di Cestaro, gli avvocati Niccolò e Natalia Paoletti, che non hanno neppure atteso la sentenza di Cassazione per rivolgersi alla Cedu, esprimono soddisfazione: “Siamo molto contenti, soprattutto per il fatto che la corte ha rilevato l’enorme mancanza dell’ordinamento interno italiano, vale a dire la non previsione del reato di tortura e lo invita quindi a porre dei rimedi”. Per il loro cliente anche un risarcimento superiore a quanto normalmente disposto dalla Corte per casi simili “anche se – dice l’avvocato – parlare di cifre rispetto alla violazione di determinati diritti, è svilente”.

“La sentenza della Corte di Strasburgo – commenta il sindaco di Genova Marco Doria – riconosce la tragica realtà delle violenze perpetrate alla Diaz e mette a nudo la responsabilità di una legislazione che non prevede il reato di tortura e, per questa ragione, lascia sostanzialmente impuniti i colpevoli. È una sentenza di grande valore, non solo da rispettare, ma da condividere pienamente”. “Uno stato democratico – aggiunge il sindaco – non deve mai tollerare che uomini che agiscono in suo nome compiano atti di brutale violenza contro le persone e i diritti dell’uomo. È, questa, una condizione essenziale anche per difendere la dignità di quanti operano invece negli apparati dello Stato secondo i principi della Costituzione”.

L’Italia, che potrebbe fare ricorso contro la sentenza, sarà costretta a ottemperare con una legge ad hoc. “Il modello – spiega l’avvocato Paoletti – potrebbe essere per esempio quello francese, che prevede per la tortura una pena base di 15 anni, aumentata a 20 in caso sia un pubblico ufficiale a commetterla e a 30 in caso di infermità permanente per la vittima, ma si sa che il nostro Paese è molto ‘bravò a ottemperare con molta lentezza alle sentenze della Cedu”. Nell’attesa, comunque lo Stato italiano potrebbe essere costretto a sborsare molto per risarcire le altre circa 60 parti civili della Diaz che hanno fatto ricorso in blocco dopo la sentenza definitiva. Se quella di Cestaro può essere considerata una sentenza-pilota, si può ipotizzare un risarcimento di quasi 3 milioni di euro. Senza contare i processi civili per le vittime non solo della Diaz ma anche di Bolzaneto, che sono appena cominciati.

Katia Bonchi

Il Manifesto, 8 aprile 2015