Per chi muore in carcere l’unica parola è “rispetto”. Giusto punire gli Agenti Penitenziari


Cella Polizia PenitenziariaVi sono entrato molte volte, uscendone poche ore dopo con sollievo mentre l’agente di custodia apriva il pesante portone. Ho visto il carcere nei momenti di relativa tregua dell’affollamento e nelle fasi peggiori. Vi sono stato quando mancava il riscaldamento e nella più drammatica fase della sieropositività e dell’Aids.

Ho anche visto ambienti dignitosi e operatori di straordinaria dedizione; ci sono realtà assai diverse, ma alcuni problemi sono insoluti quasi ovunque, dal sovraffollamento alla violenza che ne deriva, alla esiguità del personale che agisce in condizioni difficili. Tutto ciò porta sofferenza e aumenta il pericolo del degrado, di fronte al quale va posto inflessibilmente il principio costituzionale che mira al recupero della persona e ne tutela la dignità.

Nessun pubblico funzionario può violarla. Altre sono le forme di protesta ammesse, anche contro la peggiore inerzia politica. La sanzione prevista dalla legge è la sola legittima. Non vi si possono aggiungere ferocia e insulto. Le parole di disprezzo adoperate dai membri di un piccolo sindacato di Polizia penitenziaria dopo il suicidio di un detenuto sono inaccettabili. Gli autori sono stati giustamente sottoposti a inchiesta disciplinare e sospesi. Lo Stato non deve usare violenza, come è accaduto di recente, verso chi è nella sua potestà punitiva. Non può cedere sul terreno dell’umanità, e della dignità che a sua volta rivendica.

Adriano Sansa

Famiglia Cristiana, 26 febbraio 2015

 

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