Roma: detenuto morì a Rebibbia per una polmonite. Potevano salvarlo, Medici a giudizio


carcere rebibbiaPer la Procura il giovane detenuto “poteva essere salvato” i sanitari che lo dovevano curare “agirono con negligenza”. In tre visite mediche non gli avevano mai misurato la febbre, né auscultato il torace o misurato la pressione.

È così, con una polmonite non diagnosticata, che Danilo Orlandi, un detenuto di 30 anni di Primavalle con piccoli precedenti per droga, era morto dietro le sbarre di Rebibbia. In pochi giorni, dal 27 maggio al primo giugno del 2013, si era spento senza che nessuno si accorgesse dell’urgenza. Lo curavano con una aspirina. La sua morte, ha concluso ora la procura di Roma, poteva essere evitata.

Il sostituto procuratore Mario Ardigò e il procuratore aggiunto Leonardo Frisani hanno iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio colposo il medico di reparto del G11 che lo aveva in cura e il dirigente sanitario di Rebibbia, pronti a chiederne a breve il processo.

Il giovane, che ha lasciato la moglie e una bambina di 9 anni, in quei giorni era sottoposto ad una sanzione disciplinare, non poteva partecipare alle attività in comune. Ed è proprio per questo, forse, che sarebbe stato sottoposto per tre volte a visite frettolose. Una prassi, a quanto pare, per i detenuti in punizione. Orlandi infatti sarebbe stato visitato dal medico del suo braccio, una dottoressa, sia il 27, il 28 e il 29 maggio senza che gli venisse neanche palpato l’addome.

Il medico infatti si sarebbe limitato per tutti e tre i giorni a un colloquio con lui non riuscendo, appunto, secondo i magistrati, “per negligenza a rilevare i sintomi tipici specifici di una polmonite alveolare bilaterale batterica”, una polmonite grave per cui invece si sarebbe dovuti intervenire subito con approfondimenti diagnostici e cure urgenti.

Nell’inchiesta è finito anche il dirigente sanitario della casa circondariale, in questo caso, perché non avrebbe vigilato sui medici, che per prassi, secondo i magistrati, quando “visitavano i detenuti sottoposti alla sanzione disciplinare dell’esclusione dell’attività in comune si limitavano a un colloquio anamnesico senza eseguire un esame obiettivo generale attraverso l’ispezione quanto meno del torace”. Nel diario clinico del giovane, tra l’altro è stato rilevato un buco. Nessuno infatti lo avrebbe visitato il 31 maggio, il giorno prima della morte. Proprio il giorno in cui la madre del ragazzo, Maria Brito, aveva visitato il figlio trovandolo pallido, febbricitante e debilitato. Eppure tutti i bollettini medici degli ultimi giorni di vita di Danilo avevano concluso che non ci fosse “nessun fatto acuto da riferire”.

Ad accertare le cause della morte del giovane era stata la perizia stilata dal professor Costantino Ciallella de La Sapienza. Un esame che aveva escluso l’ipotesi dell’infarto ventilato nell’ambiente carcerario. Nel diario clinico del detenuto la conferma: si parlava solo di prodotti anti-infiammatori o analgesici, al massimo un antibiotico. “Mio figlio è stato lasciato morire”. Paolo Orlandi si era sfogato pure coi magistrati “ma combatterò”. Il legale della famiglia, l’avvocato Stefano Maccioni, da parte sua, intanto è pronto a formalizzare la costituzione di parte civile.

Adelaide Pierucci

Il Messaggero, 26 febbraio 2015

Per chi muore in carcere l’unica parola è “rispetto”. Giusto punire gli Agenti Penitenziari


Cella Polizia PenitenziariaVi sono entrato molte volte, uscendone poche ore dopo con sollievo mentre l’agente di custodia apriva il pesante portone. Ho visto il carcere nei momenti di relativa tregua dell’affollamento e nelle fasi peggiori. Vi sono stato quando mancava il riscaldamento e nella più drammatica fase della sieropositività e dell’Aids.

Ho anche visto ambienti dignitosi e operatori di straordinaria dedizione; ci sono realtà assai diverse, ma alcuni problemi sono insoluti quasi ovunque, dal sovraffollamento alla violenza che ne deriva, alla esiguità del personale che agisce in condizioni difficili. Tutto ciò porta sofferenza e aumenta il pericolo del degrado, di fronte al quale va posto inflessibilmente il principio costituzionale che mira al recupero della persona e ne tutela la dignità.

Nessun pubblico funzionario può violarla. Altre sono le forme di protesta ammesse, anche contro la peggiore inerzia politica. La sanzione prevista dalla legge è la sola legittima. Non vi si possono aggiungere ferocia e insulto. Le parole di disprezzo adoperate dai membri di un piccolo sindacato di Polizia penitenziaria dopo il suicidio di un detenuto sono inaccettabili. Gli autori sono stati giustamente sottoposti a inchiesta disciplinare e sospesi. Lo Stato non deve usare violenza, come è accaduto di recente, verso chi è nella sua potestà punitiva. Non può cedere sul terreno dell’umanità, e della dignità che a sua volta rivendica.

Adriano Sansa

Famiglia Cristiana, 26 febbraio 2015

 

Bruno Bossio (Pd) : Nessun attacco ai Magistrati, si tratta di una riforma giusta


Aula Udienza TribunaleNessun attacco ai magistrati, ma la risposta alla richiesta di una ‘giustizia giusta’. Mi pare assai discutibile la reazione dell’ANM che ha parlato di una norma contro i giudici.
Sarebbe come dire che quando i parlamentari hanno limitato i privilegi della cosiddetta ‘casta’, ad esempio in tema di immunità, poi avrebbero dovuto reagire, loro stessi, dicendo che si trattava di una misura contro i parlamentari e non di una riforma che eliminava tutele ingiuste e spesso anche abusi.

Le nuove norme sulla responsabilità civile rispondono in primo luogo a un’osservazione della Corte di Giustizia Europea che riteneva troppo limitativa la necessità della sussistenza della ‘colpa grave’ per poter ottenere risarcimento. Serviva un requisito meno stringente, quale la ‘manifesta violazione del diritto’, che è il requisito a cui si ispirano le normative europee. Ora possiamo farlo valere anche in Italia, e i cittadini non debbono piu’ appellarsi alla Corte di Giustizia.

E’ un passo avanti significativo ed equilibrato, perché si supera la colpa grave e si mantiene la responsabilità indiretta. Il cittadino chiede risarcimento allo Stato. L’azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato, laddove ne sussistano gli estremi, diventa obbligatoria. Insomma, l’errore del magistrato non è considerato meno importante di quello dei medici. Non c’è un attacco ai magistrati, ma la risposta alla richiesta di una ‘giustizia giusta’.

On. Enza Bruno Bossio

Deputato del Partito Democratico

Napoli: Poggioreale, l’inchiesta sui pestaggi nella “cella zero”, indagati quattro Agenti Penitenziari


Carcere di Poggioreale Manifestazione RadicaliSono quattro le persone finite sul registro degli indagati per i presunti pestaggi all’interno del carcere di Poggioreale. Sono agenti di polizia penitenziaria. Stiamo parlando dell’inchiesta sulle presunte violenze consumate all’interno della cosiddetta “cella zero”, luogo di soprusi e botte da orbi all’interno della struttura penitenziaria napoletana, venuta alla luce dopo le denunce il garante dei detenuti della Regione Campania Adriana Tocco. Nel suo ufficio sono arrivate oltre 150 testimonianze dei detenuti.

Sono quattro le persone finite sul registro degli indagati per i presunti pestaggi all’interno del carcere di Poggioreale, sono tutti appartenenti alla polizia penitenziaria. I reati contestati; abuso di autorità, sequestro di persona e maltrattamenti. Stiamo parlando delle presunte violenze consumate all’interno della cosiddetta “cella zero”, luogo di soprusi e botte da orbi all’interno della struttura penitenziaria napoletana, venute alla luce dopo le denunce il garante dei detenuti della Regione Campania Adriana Tocco. L’inchiesta prende le mosse lo scorso anno: la procura di Giovanni Colangelo recepisce le oltre 150 denunce che gli ex detenuti hanno messo nero su bianco a inoltrato anche all’ufficio del garante.

E approfondisce i racconti che le sono pervenuti.

Indagine complessa e difficile quella dei sostituti Valentina Rametta e Giuseppina Loreto, coordinate dall’aggiunto Alfonso D’Arino. Ma la vicenda è tutt’altro che chiusa, le indagini proseguono percepire se si sia trattato solo di episodi sporadici oppure di una condotta stabile riservata ai detenuti. Una vicenda, questa dell’esistenza della “cella zero” che allora come oggi suscita grande stupore e l’inchiesta da atto del lavoro del lavoro dell’ufficio del Garante. “L’indagine della Procura partenopea – commenta la garante Adriana Tocco – in seguito alla presentazione delle mie segnalazioni, ha permesso di far cambiare aria a Poggioreale”.

“Sono stati cambiati i vertici dell’Istituto (a maggio del 2014 il Dap aveva deciso di avviare le procedure per il trasferimento della direttrice, Teresa Abate, ndr), della Polizia Penitenziaria, dell’area educativa che con l’apertura delle celle e l’aumento di varie attività, mi hanno permesso di riscontrare il fatto che non ricevo più denunce, né verbali né scritte per abusi di violenze”. Intanto, sulla vicenda della “cella zero” nei giorni scorsi è stato pubblicato il documentario pubblicato realizzato dal fotoreporter Salvatore Esposito che attraverso le testimonianze di numerosi ex detenuti del carcere partenopeo – ricostruisce una realtà agghiacciante, tragica e, allo stesso tempo, drammatica raccontata dai protagonisti dei presunti pestaggi nel carcere partenopeo.

Antonio Scolamiero

Corriere del Mezzogiorno, 24 febbraio 2015

L’Italia da decenni attende Carceri nelle quali si sconti solo la privazione della libertà


carcere2Ioan Barbuta, il detenuto romeno che si è impiccato con i propri pantaloni alcuni giorni fa nel carcere di Opera, non era un uomo buono. Aveva rapinato ed ucciso. Era un criminale che aveva dimostrato ferocia. La sofferenza che infliggeva, per lui, non era un ostacolo. Un uomo duro com’è difficile essere.

Ebbene, quest’uomo ha sentito la sofferenza della sua vita di detenuto fino a uccidersi. Ha sentito la definitività e l’oppressione fisica di un dolore che non lasciava anfratti di speranza. E con i mezzi che aveva, i pantaloni, s’è ammazzato nel modo più doloroso possibile. Anche questo è il carcere. Alcuni agenti, profittando dei social, hanno comunicato parole di soddisfazione e gioia. Orrende, ma assai meno isolate e inspiegabili di quanto si possa credere. Perché il rumeno, l’arabo, il libico, il povero di altri mondi, è visto come nemico, come minaccia: e allora “deve morire, visto che non è possibile impedirgli l’ingresso in Italia”.

Perciò la barbarie parolaia di alcuni agenti trova sostenitori. Soprattutto tra i tanti che evitano di esprimersi. Qualche tempo fa un astronomo inglese di origine palestinese ha chiuso il proprio studio di Londra ed è tornato nella sua terra, con un progetto: insegnare ai bambini a guardare il cielo. Che non è il luogo nel quale passano gli aerei che bombardano le loro case, ma quello delle stelle. Il cielo, insomma, da guardare, non da temere. A me pare che il nostro tempo non sia, per certi versi, diverso da quella terra: tutti abbiamo paura.

Perché le novità che ci assalgono, e la loro rapidità, rendono difficile l’esercizio della razionalità. I poveri del mondo si muovono verso illusorie terre promesse, e portano con sé tutte le loro miserie. Per alcuni, esse comprendono anche il crimine. Le loro fedi diventano ragioni di identità da difendere, da conservare come verità verso l’ignoranza dell’ altro: per questo facilmente si trasformano in schemi ideologici.

Che rispondono con l’aggressione alla diffidenza e alla cattiva accoglienza. Molti, perciò, evitano di approfondire, individuano nell’immigrazione il pericolo, nella particolarità culturale o religiosa l’inevitabilità della deriva violenta. Terroristica addirittura. E la contrapposizione delle irrazionalità avvicina il pericolo della guerra come tecnica di ordine e della morte come strumento di pacificazione. Le stelle, allora: cioè i nostri principi. Quelli che ci hanno insegnato, all’articolo 13 della Costituzione, che è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni delle loro libertà. Perché la pena per chi ha commesso reati – la privazione della libertà – è ben precisata nella legge: altra sofferenza non dev’essere scontata. L’Italia da decenni attende carceri nelle quali si sconti solo la privazione della libertà. E da tempo promette attenzione e serietà verso la polizia penitenziaria.

Che vive una condizione professionale a rischio di assuefazione al dolore: anche a quello immeritato. Vive una condizione frustrante. Perché nessun carcere ha strumenti capaci di rieducare o migliorare il detenuto. E l’operatore di una rieducazione che troppo spesso non esiste si trova ad affrontare la violenza , la mancanza di speranza, di chi viene solo chiuso in gabbia. So che il problema è enorme.

Ha fatto bene il ministro della Giustizia a chiedere spiegazioni serie sulla manifestazione di opinioni preoccupanti quanto indicative di un circolo vizioso che mantiene crudeltà inutili. Ma se non alziamo gli occhi verso il cielo del nostri principi, con scelte moderne che mettano razionalità nel mondo della detenzione, abitueremo troppi a guardare solo il pavimento che calpestiamo. E a chiedere, magari in modo ipocrita, altre morti rumene.

Giuseppe Maria Berruti (Magistrato, Presidente Sezione Cassazione)

Corriere della Sera, 24 febbraio 2015

Droghe: Sono migliaia i detenuti che scontano ancora le pene illegali della Fini Giovanardi


Corte di cassazione1Nel primo anniversario della sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittime le pene draconiane previste dalla Fini-Giovanardi per le droghe “leggere” (da 6 a 20 anni di reclusione) e ripristinato le più miti pene della legge precedente (da 2 a 6 anni), le Sezioni Unite della Cassazione sono chiamate a risolvere i prevedibili contrasti insorti tra pubblici ministeri e giudici, di legittimità e di merito, sulla incidenza della pronuncia della Consulta sulle condanne definitive in corso di esecuzione.

Gli appelli di giuristi e associazioni per un intervento legislativo che prevenisse tali contrasti, adottando una soluzione equa ed uniforme per tutti i condannati, sono caduti nel vuoto e così, nella latitanza della politica, sarà ancora una volta il massimo organo della giurisdizione penale che, nell’udienza di domani, dovrà dire una parola definitiva sulla sorte di migliaia di detenuti che stanno scontando pene “illegittime”.

I giudici di piazza Cavour si trovano la strada parzialmente spianata da una precedente decisione delle stesse Sezioni Unite, che, sia pure con riferimento ad una diversa vicenda, nel maggio scorso hanno spazzato via il feticcio del “giudicato”, invocato da una parte della magistratura per contrastare gli effetti delle decisioni della Consulta sulle condanne definitive.

Ma i giudici più restii a dare piena attuazione ai valori costituzionali, non potendo continuare ad invocare lo sbarramento del “giudicato”, si sono attestati su una nuova frontiera. Dicono che la decisione della Consulta vale solo per i casi in cui la condanna definitiva superi il minimo della pena prevista dalla Fini-Giovanardi, che coincide con il massimo previsto dalla ripristinata legge precedente (6 anni di reclusione). In altre parole, secondo questa giurisprudenza, può considerarsi “illegale” solo la parte di pena che superi il minimo della legge precedente, sicché, per ripristinare la legalità, basterebbe eliminare la pena eccedente.

Questo orientamento non tiene conto di un dato, ben noto a chiunque abbia una qualche conoscenza delle prassi giudiziarie. La commisurazione della pena è una scelta che i giudici compiono collocando il fatto da giudicare nella “cornice edittale” prevista dalla legge vigente e riservando il minimo ai fatti di minore gravità. È perciò evidente che il minimo della pena inflitta nel vigore della illegittima legge Fini-Giovanardi (6 anni di reclusione) potrebbe riguardare, e quasi sempre riguarda, fatti che, se giudicati secondo i parametri legali ripristinati dalla decisione della Consulta, avrebbero meritato un minimo di 2 anni o comunque una pena di gran lunga inferiore.

Perciò la giurisprudenza più attenta a dare effettiva attuazione ai valori costituzionali, ritiene che tutte le condanne in corso di espiazione inflitte nel vigore della Fini-Giovanardi per droghe leggere vadano annullate e il trattamento sanzionatorio vada rideterminato dal giudice della esecuzione sulla base delle pene previste dalle precedenti norme costituzionalmente legittime (più miti, anche se ancora troppo severe).

Sono appunto questi contrastanti orientamenti giurisprudenziali che i giudici della Cassazione dovranno risolvere nell’udienza di domani. L’auspicio è che le Sezioni Unite proseguano il percorso della ragione intrapreso nel maggio scorso, ponendo fine alla esecuzione delle pene illegittime.

Resta comunque il rammarico per tutti coloro che l’inerzia della politica ha nel frattempo condannato ad espiare, nell’ancora sovraffollate galere, una pena che per i principi costituzionali del nostro ordinamento non avrebbero dovuto espiare.

Luigi Saraceni

Il Manifesto, 25 febbraio 2015

Piacenza: 20enne nigeriano si impicca, era in cella di isolamento perché “molto agitato”


Casa Circondariale di PiacenzaDa quattro mesi era in carcere con la pesante accusa di aver violentato e rapinato, in un appartamento della zona-stazione, due donne colombiane: si è impiccato in cella usando come cappio un pezzo della sua maglietta, morendo mercoledì in ospedale dopo quattro giorni d’agonia. È accaduto nel carcere di Piacenza dove il nigeriano 20enne Osas Ake era stato trasferito dopo un periodo trascorso alla Pulce.

Stiamo parlando di un clandestino completamente solo in Italia, giunto nel nostro Paese in modo rocambolesco su un barcone, approdando a Lampedusa. Poi il coinvolgimento – il 9 ottobre scorso – a Reggio Emilia, con un ghanese, in un episodio che i dirigenti della polizia non avevano esitato a definire “di devastante e sconcertante violenza”.

La notizia del suicidio è rimbalzata solo ieri in città, ma la conferma è arrivata ripercorrendo i “passaggi” giudiziari legati a questo giovane nigeriano che, dopo la convalida dell’arresto in ottobre, si era ripresentato in tribunale a Reggio il 10 febbraio scorso per assistere ad un incidente probatorio, affiancato dagli avvocati d’ufficio Noris Bucchi ed Elisabetta Strumia.

Quel martedì era stata sentita la terza donna colombiana presente nell’appartamento. Quattro giorni dopo il gesto estremo del ventenne. E nello studio degli avvocati d’ufficio sono in effetti al corrente di quanto accaduto, perché Ase aveva disposto fin dall’inizio che ogni comunicazione che lo riguardava fosse comunicata ai suoi legali, unico suo punto d’appoggio in Italia.

Una disposizione che ora è un cupo testamento. “Siamo stati avvertiti da Piacenza telefonicamente della tragedia – conferma l’avvocato Bucchi – e con la collega abbiamo subito pensato a quando l’abbiamo visto l’ultima volta, cioè all’incidente probatorio. Osas non parlava l’italiano e, quindi, aveva seguito l’interrogatorio tramite l’interprete. Al termine gli avevo comunicato che l’incidente probatorio non era andato male. Durante l’udienza aveva avuto un atteggiamento passivo e mi era sembrato un po’ scosso, ma nessuno poteva pensare – conclude il difensore – che questa sua passività fosse premonitrice della tragedia”.

Ma cos’è accaduto in carcere? Il giovane nigeriano era andato in escandescenze in un corridoio della struttura piacentina, denudandosi. Era stato messo in isolamento, più tardi la macabra scoperta in quella cella da parte di un agente carcerario che, per motivi di sicurezza, chiama alcuni colleghi per poi soccorrere il ventenne impiccatosi alla finestra. Quattro giorni dopo la morte. È stata aperta un’inchiesta e disposta l’autopsia.

Terribile la vicenda che aveva portato all’arresto del nigeriano e di un complice ghanese. Secondo la ricostruzione fatta dalla polizia, i due stranieri la sera del 9 ottobre scorso bussano alla porta di un appartamento situato nel quadrilatero della stazione. E viene loro aperto. All’interno si trovano tre donne colombiane, in regola con il permesso di soggiorno e con il contratto d’affitto, due quarantenni e una trentenne.

Le intenzioni dei due uomini appaiono subito chiare. Il primo, armato di coltello che si rivelerà poi essere una scacciacani, obbliga una delle donne a spogliarsi. Lo stesso fa il secondo con un’altra delle donne presenti nell’appartamento e, di fronte ad un tentativo di sottrarsi alla violenza, va in cucina e prende un coltello con cui inizia a minacciarla. Inizia così l’ora più lunga per le due donne che vengono violentate davanti alla terza obbligata ad assistere inerme.

Carceri disumane, questo suicidio è l’ennesima prova, di Elisa Pederzoli

La riflessione del presidente della Camera penale Bucchi Disposta l’autopsia sul 20enne che si è ucciso a Piacenza. Sulla morte in carcere di Osas Ake, il 20enne nigeriano che era accusato della rapina e della stupro di due donne avvenuto in un appartamento in zona stazione lo scorso mese di ottobre, a Piacenza è stata aperta un’inchiesta. La procura, infatti, ha disposto l’autopsia. Vuole chiarire quanto avvenuto per quel suicidio in cella il 14 febbraio scorso, in una giornata in cui già un altro detenuto aveva tentato, senza riuscirci, di togliersi la vita.

Il tragico gesto del nigeriano è il settimo, dall’inizio dell’anno, nelle carceri italiane. Fatti che, una volta in più, fanno riflettere. Ventenne, era accusato di aver violentato in ottobre due donne con un complice. Il gesto estremo nel carcere di Piacenza: era in isolamento perché “molto agitato”.

“Come uomo – spiega l’avvocato Domenico Noris Bucchi – il suicidio di Osas mi ha turbato non poco. Come suo difensore e come presidente della Camera penale reggiana, questo episodio mi induce ad una riflessione più complessa”. “Osas Ake aveva vent’anni, non era ancora stato condannato e in attesa del processo si è tolto la vita impiccandosi in una cella di isolamento – racconta – Questo è il settimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno. Nel 2014 i suicidi nelle carceri italiane sono stati quasi 50. Un fenomeno che deve fare riflettere tutti noi”.

“Da anni le Camere Penali denunciano le condizioni disumane nelle quali sono costretti a vivere i detenuti in Italia – prosegue.

Lo stesso presidente Giorgio Napolitano ha recentemente denunciato pubblicamente questa insostenibile situazione. Tuttavia nessuno fa nulla per, non dico risolvere, ma neppure affrontare, denunciare, questa situazione”. “Ebbene – rilancia – io vorrei approfittare di questa triste vicenda per ricordare a tutti e ribadire ad alta voce che la situazione dei detenuti in Italia è drammaticamente al collasso. Che nessuno ha il diritto di privare un altro uomo della sua dignità. Che anche i detenuti sono uomini e come tali devono essere trattati. Che occorre stimolare le istituzioni ad affrontare questo delicatissimo tema”. “Se qualcosa, anche poco, si muoverà allora anche il sacrificio umano di Osas Ake non sarà stato vano” conclude.

Bucchi aveva visto Osas Ake appena quattro giorni prima del suo suicidio: durante l’incidente probatorio, che si è tenuto in tribunale a Reggio. La notizia della sua morte è arrivata nello studio di Bucchi, che era il suo unico riferimento in Italia. Quello che è stato ricostruito fino ad ora, è che il giorno del suicidio aveva dato in escandescenza in corridoio. Si era denudato. Quindi, era stato messo in isolamento. Ma più tardi, gli agenti della penitenziaria lo avevano trovato ormai senza vita: si era impiccato con la maglietta che indossava. Quattro mesi prima, c’era stata l’irruzione a casa di tre donne in zona stazione: armati di una scacciacani, secondo quanto ricostruito dalla polizia, in due le avevano rapinate e violentate. Accusati sono lui e un amico ghanese.

Tiziano Soresina

Gazzetta di Reggio, 25 febbraio 2015