Sassari: detenuto morto in cella, indaga la Magistratura. Non si trova il filmato perchè “sovrascritto”


Carcere-634x396Un filmato che non si trova perché è stato “sovrascritto”, una cena mai consumata, una famiglia che non si rassegna alla tesi del suicidio e che mette in campo esperti di fama nazionale. La Procura ha aperto una inchiesta per fare chiarezza sulla morte di Francesco Saverio Russo, il detenuto algherese trovato nella sua cella a Bancali il 6 settembre.

È ancora sotto sequestro la cella del carcere di Bancali dove la sera del 6 settembre è stato trovato privo di vita Francesco Saverio Russo, di 34 anni. L’ipotesi è che il detenuto algherese si sia tolto la vita, ma l’inchiesta avviata dalla Procura e affidata al pubblico ministero Cristina Carunchio dovrà chiarire se esiste anche il minimo dubbio sul suicidio.

E i familiari della vittima – fin dal primo momento – hanno chiesto che vengano svolti tutti gli accertamenti per capire che cosa è successo quella sera. La mamma del giovane, in particolare, ha più volte espresso la convinzione che il figlio non avesse mai manifestato – tanto meno nell’ultimo periodo – l’intenzione di togliersi la vita.

Ha anche raccontato di averci parlato il giorno stesso, di avergli portato la cena (che non era stata neppure consumata, in larga parte era nel piatto). Gli esperti. Dal giorno della morte di Francesco Saverio Russo, i familiari hanno affidato l’incarico agli avvocati Elias Vacca e Paolo Spano di seguire la vicenda e fare in modo che venga accertata la verità.

Nominati anche consulenti tecnici piuttosto conosciuti a livello nazionale: si tratta della criminologa Roberta Bruzzone (che ha seguito tutti i casi più importanti degli ultimi anni), di Mariano Pitzianti (esperto della ricerca della prova elettronica-digitale e conoscitore di sistemi di sicurezza e server ministeriali), dell’avvocato Federico Delitala e del genetista Andrea Maludrottu, del team di esperti fanno parte anche un medico legale e un investigatore privato. In carcere.

I legali sono stati in carcere per un sopralluogo. Hanno potuto vedere l’ambiente dove è avvenuta la tragedia e si sono resi conto della presenza di una sbarra orizzontale (a una altezza di circa due metri da terra) che divide il bagno da una sorta di disimpegno. Ora, che cosa ci faccia una sbarra in una cella di un nuovo carcere è da capire. L’indagine. L’indagine sta muovendo i primi passi e la parte più importante è rappresentata dall’esame dei filmati registrati dalle telecamere che nel nuovo carcere di Bancali sono ovunque.

La perizia del medico legale darà un contributo prezioso per la valutazione del caso e le valutazioni dei consulenti della Procura sono già sulla scrivania del magistrato che si occupa dell’inchiesta. Ci sono, però, diversi dubbi da chiarire. Le immagini. Pare che il filmato del giorno 6 settembre – quello fondamentale perché quella sera viene scoperto il corpo senza vita del detenuto – non sia disponibile.

Nel senso che sarebbe stato sovrascritto da altri dati. I familiari di Francesco Saverio Russo vogliono che sia fatta chiarezza sulla morte in cella, e quel filmato ha un valore enorme, anche per capire se la sera della tragedia ci sono stati movimenti in entrata o in uscita. I consulenti tecnici chiederanno di avere accesso al server ministeriale che – per norma – ha un sistema ridondante e deve continuare a funzionare in presenza di qualunque anomalia e quindi conservare anche la memoria.

Ipotesi. Dalle verifiche risulta che Francesco Saverio Russo era solo in cella, aveva la vicinanza della famiglia ed era seguito regolarmente dagli avvocati. Una situazione che, teoricamente, porterebbe a escludere eventuali tentativi di suicidio che in carcere si realizzano in presenza di una serie di elementi negativi.

Tra le ipotesi prese in esame c’è anche quella di un atto dimostrativo finito in tragedia: “Ci abbiamo pensato – ha spiegato l’avvocato Elias Vacca – ma se decidi di mettere in pratica una azione simile non la fai nell’angolo nascosto, ti posizioni nel punto più visibile per fare in modo che i soccorsi possano scattare immediatamente”. L’inchiesta dovrà chiarire se davvero quello di Francesco Saverio Russo è il primo suicidio nel carcere di Bancali oppure se dietro quella morte inspiegabile e che ha sorpreso tutti c’è dell’altro.

Gianni Bazzoni

La Nuova Sardegna, 16 ottobre 2014

Catanzaro: 2,3 milioni di risarcimenti per ingiuste detenzioni, un record negativo


carcere-620x264Catanzaro conquista il secondo posto a livello nazionale nella drammatica classifica dei rimborsi dovuti a chi è stato ingiustamente in carcere. Un record per nulla positivo, secondo solo a Palermo. Le cifre provengono dal Ministero dell’Economia, che materialmente liquida le somme.

La statistica semestrale dei fascicoli per ingiusta detenzione vede in testa proprio la città siciliana, con 35 casi e risarcimenti per 2 milioni e 790 mila euro. Seguono Catanzaro, con 2,3 milioni; Roma, con 1,3 milioni, e Napoli con 1 milione e 235mila euro.

Solo nei primi sei mesi del 2014 lo Stato ha già pagato 16 milioni e 200 mila di euro di risarcimenti per 431 casi di ingiusta detenzione nelle carceri. Un dato che si aggiunge a quello degli oltre 567 milioni di euro pagati a partire dal 1992 per le 22.689 richieste autorizzate. E ai 30 milioni e 650 mila euro sborsati per i soli errori giudiziari, cioè quelli sanciti dopo un processo di revisione che ha dichiarato innocenti soggetti precedentemente condannati in via definitiva.

Ma “al di là delle cifre – osserva il vice ministro della Giustizia, Enrico Costa – che certo servono a misurare l’entità del fenomeno, bisogna comprendere meglio quali vicende si nascondano dietro i numeri. Bisogna andare oltre i dati, per capire meglio come si produca l’errore: per questo ritengo si debba quanto prima avviare un’istruttoria in merito”.

“Il solo passaggio all’interno del carcere – afferma Costa – è un’esperienza che segna e spesso spezza una vita. Dietro i numeri ci sono storie personali che vanno analizzate non solo per prevenire il pagamento di ingenti somme da parte dello Stato, ma anche per capire perché e in che fase, principalmente, si apra la falla: se per esempio prevalga un’errata valutazione di fatti e circostanze o piuttosto una applicazione della custodia cautelare non corretta.

Noi, per esempio, non desumiamo dai dati se la percentuale maggiore di ingiusta detenzione si determini nella fase preliminare con ordinanze dei gip o in quelle successive. Ma sarebbe importante capirlo”.

Per Costa, un veicolo di possibile intervento per introdurre contromisure potrebbe essere proprio il provvedimento sulla custodia cautelare all’esame della Camera. Ma in prima battuta serve un supplemento di indagine per comprendere il fenomeno. Un’istruttoria, appunto. Che tra l’altro Costa riterrebbe utile anche su un altro versante: quello della responsabilità civile dei magistrati. L’ambito e i meccanismi non sono esattamente gli stessi, ma alla base c’è comunque un errore che può essere riconosciuto come danno, sebbene i casi di risarcimento siano stati molto pochi nel corso degli anni.

L’intenzione di Costa è di “chiedere ed esaminare anche i fascicoli relativi alla responsabilità civile per avere un quadro chiaro”, tanto più in un momento in cui l’intera materia oggetto di un disegno di legge di riforma all’esame del Senato. E l’idea di una commissione sugli errori dei magistrati piace all’Unione camere penali, che invita l’Anm, “stabilmente impegnata in un’azione di contrasto a tutto campo delle politiche di riforma del sistema giudiziario”, a riflettere sulle cifre fornite da Costa.

L’Opinione, 16 ottobre 2014

Pannella (Radicali); rispetto ai diritti umani siamo tecnicamente in condizioni criminali


marco-pannella-6402La situazione delle carceri italiane è una piaga che da tempo affligge la penisola italiana. Nonostante i richiami della Corte di Strasburgo, che aveva condannato l’Italia a versare indennizzi per la violazione dei diritti dei propri cittadini, l’emergenza relativa al sovraffollamento e più in generale al sistema carcerario italiano non sembra essersi esaurita.

Da sempre i radicali sono impegnati in prima fila con la loro lotta non violenta nel contestare questi “crimini” umani. Sulla questione interviene nuovamente lo storico leader radicale, Marco Pannella, che a margine di un evento organizzato da “Nessuno tocchi Caino” a Bruxelles, ha spiegato ai microfoni di Vista, Agenzia Televisiva Parlamentare: “Siamo fuorilegge, sul piano tecnico in perfetta continuità con una situazione europea degli anni Trenta Quaranta. Siamo tecnicamente in condizioni criminali rispetto ai diritti umani”.

Pannella, ha sottolineato nella presentazione del rapporto annuale sulla pena di morte di “Nessuno Tocchi Caino”, come il mondo in cui viviamo è “un mondo in putrefazione. Ci sono zone italiane che rischiano di avere l’oro nero. Penso che il semestre europee italiano è bene che riesca a sorprendere. Questo è possibile”.

Vittoria Dolci

http://www.clandestinoweb.com, 16 ottobre 2014

Droghe, Cassazione: va rivista condanna basata su norma dichiarata incostituzionale


marijuanaLa condanna in via definitiva è un tabù giuridico infranto: la Corte di Cassazione ha stabilito che se la pena è stata fondata su norme successivamente dichiarate incostituzionali, deve essere rivista.

Già la sentenza di maggio aveva messo in soffitta la legge Fini-Giovanardi (giudicata incostituzionale a inizio anno) troppo punitiva per reati leggeri, ma con le motivazioni pubblicate ieri dai giudici delle Sezioni unite della Cassazione, il principio si estende a tutti i reati, aprendo di fatto le porte del carcere per chi vi è detenuto ingiustamente più di un provvedimento “svuota-carceri” di cui sempre si parla.

È davvero storico il pronunciamento della Corte di Cassazione, il giudice delle leggi, per almeno tre motivi: intacca il tabù del giudicato, consente e ha già consentito l’uscita dal carcere di centinaia forse migliaia di detenuti, bacchetta severamente classe politica e Parlamento con la constatazione che negli ultimi anni ha approvato “una serie di irragionevoli previsioni sanzionatorie su cui è dovuto intervenire il Giudice delle leggi”.

La sentenza. La sentenza muoveva dal ricorso di un imputato per detenzione e spaccio di stupefacenti condannato nel 2012 a 6 anni di carcere a causa del divieto, introdotto nel 2005 dalla legge ex Cirielli, di dare prevalenza all’attenuante del “fatto di lieve entità” (la dose modesta di droga detenuta) rispetto alla recidiva. Un divieto cancellato dalla Corte costituzionale nel 2012, in quanto contrastante con l’articolo 27, terzo comma, della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Gli effetti sulla popolazione carceraria. In base alla sentenza pubblicata ieri dalla Cassazione, spetterà al giudice dell’esecuzione rimuovere l’illegalità di una pena inflitta in base a norme dichiarate poi incostituzionali. Ma, soprattutto, spetterà al pubblico ministero attivare il giudice dell’esecuzione per l’eventuale ricalcolo della pena, sia se deve ancora essere emesso l’ordine di esecuzione sia se la detenzione è già in corso. E questo specifico dovere del Pm è un punto centrale della decisione, destinata a incidere significativamente sulla popolazione carceraria

Bacchettata al Parlamento “irragionevole”. Negli ultimi anni, il Parlamento ha inasprito molte pene in maniera “irragionevole” e “senza fondamento” – non solo per quanto riguarda gli stupefacenti – costringendo la Consulta ad intervenire più volte, e la Cassazione a ridurre o disapplicare le pene dichiarate incostituzionali fino a travolgere il “mito giuridico” della “intangibilità del giudicato”. Lo sottolinea la Suprema Corte prendendo di mira soprattutto, ma non solo, la legge Fini-Giovanardi, una normativa “imposta” violando la Costituzione.

A sostegno della necessità di applicare le decisioni della Consulta, come la bocciature della Fini-Giovanardi dove inaspriva le pene per i piccoli pusher recidivi e dove non distingueva tra droghe pesanti e leggere, le Sezioni Unite rilevano che “far eseguire una condanna, o una parte di essa, fondata su una norma contraria alla Costituzione, e perciò dichiarata invalida dal Giudice delle leggi, significa violare il principio di legalità”. Dunque via libera agli ‘sconti di pena’. Il principio non vale se cambia la legge: vale solo se la legge con cui qualcuno è stato condannato era incostituzionale.

“Il diritto fondamentale alla libertà personale deve prevalere sul valore dell’intangibilità del giudicato”. Secondo la Cassazione, inoltre, sarebbe “del tutto irrazionale” consentire “la sostituzione dell’ergastolo con quella di trent’anni di reclusione”, come è avvenuto in varie decine di casi di boss mafiosi per effetto della sentenza ‘Ercolano’ della Corte di Strasburgo, e ritenere, invece, “intangibile” la porzione di pena “applicata per effetto di norme che mai avrebbero dovuto vivere nell’ordinamento: un ‘sovrappiù’ che risulta l’effetto ancora in atto di una norma senza fondamento, estromessa dall’ordinamento giuridico”.

Tra l’altro, prosegue la Suprema Corte, continuare a tenere in carcere persone condannate a pene divenute fuorilegge, “costituirà un ostacolo” al perseguimento dello scopo “rieducativo” perché tale condanna sarà “inevitabilmente” avvertita “come ingiusta da chi la sta subendo”. E questo in quanto la pena è stata “non già determinata dal giudice nell’esercizio dei suoi ordinari e legittimi poteri, ma imposta da un legislatore che ha violato la Costituzione”.

Anche i giudici dell’esecuzione della pena, e i pubblici ministeri nell’ambito delle loro “funzioni istituzionali di vigilanza sulla osservanza delle leggi”, hanno il compito di far ricalcolare le pene, al ribasso, obbedendo alle indicazioni della Consulta e degli ermellini, conclude la Cassazione invitando i magistrati a fare la loro parte per rendere il carcere meno disumano e le pene più equilibrate.

http://www.blitzquotidiano.it, 15 ottobre 2014

Parma: botte in cella, i nastri che accusano, anche Dap apre inchiesta sul carcere emiliano


Polizia Penitenziaria cella detenutoAl processo le denunce del detenuto Rachid Assarag. “La verità la conoscono Dio e questo registratore”. Rachid Assarag è stato arrestato nel 2008 per aver violentato due donne. Un fatto pesante che ha meritato “un supplemento di pena”, almeno a giudizio degli agenti penitenziari del carcere di via Burla, a Parma, dove l’uomo è stato rinchiuso tra il 2010 e il 2011. Botte, minacce di morte, umiliazioni di vario genere. D’altra parte, là fuori, è questa la legge che si invoca per chi si macchia di reati tanto odiosi come quelli sessuali: la galera non basta, serve qualcosa di più.

Nella mattinata di ieri, il 40enne marocchino si è presentato in aula, a Parma, sventolando una foto di Stefano Cucchi: “Non voglio finire così”, ha detto ai pm, che lo stavano interrogando nell’ambito di un processo che lo vede imputato per oltraggio a pubblico ufficiale. È una storia che va avanti da tempo: lui inoltra esposti alla procura e gli agenti lo denunciano, un modo come un altro per tenerlo dentro. Finché continuerà a subire processi su processi per le motivazioni più svariate, Assarag non potrà usufruire di alcuna misura alternativa al carcere.

Davanti ai pm Assarag ha parlato delle violenze subite, e delle prove che ha a disposizione: nastri magnetici sui quali sono state registrate le voci di alcuni secondini.

Conversazioni che restituiscono un affresco piuttosto nitido della realtà inquietante e violentissima che si vive dietro le sbarre, tra spavalderie poliziottesche (“Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu”), amare confessioni da parte di un medico (“Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero… Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no… Ma quello è morto, ha capito?

È morto per le botte”) e un tremendo dialogo con una guardia: “Va bene assistente – dice Rachid -, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?”. “Sì, ho visto – la risposta -, come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici. Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io…”.

L’uomo si è procurato il registratore grazie all’aiuto di sua moglie, Emanuela D’Arcangeli, che, in un modo o nell’altro, è riuscita a farglielo arrivare in cella. E lui l’ha usato come meglio non poteva fare per cercare di incastrare gli agenti che l’avevano picchiato e che, proprio davanti a lui, non si vergognavano di rivendicare i propri abusi di potere, il conclamato monopolio della violenza, inconsapevoli però che tutto quello che stavano dicendo veniva registrato.

A volerla dire tutta, comunque, le violenze denunciate da Assarag, gli investigatori avrebbero potuto scoprirle diverso tempo fa: per mesi un esposto con gli stessi elementi usciti fuori ieri durante l’interrogatorio è rimasto a prendere polvere in qualche ufficio nella procura di Parma. Adesso, però, le indagini dovrebbero partire sul serio: se ne parlerà alla prossima udienza, il 12 dicembre.

Alla fine dell’udienza, la procura ha deciso di acquisire agli atti non solo le registrazioni clandestine (che saranno sottoposte a perizia), ma anche i diari del detenuto e ha ordinato di perquisirne la cella a Sollicciano, dove adesso è recluso. Intanto, il Dap – senza capo ormai dalla fine di maggio – ha annunciato di aver aperto un’inchiesta interna sulla vicenda di Parma, mentre il clima si fa sempre più teso, in un ambiente che non riesce ad accettare il fatto di non essere più al di sopra di ogni sospetto. Prossimamente, il Dipartimento andrà anche in visita ispettiva in via Burla, ma, assicurano qualora qualcuno avesse dei dubbi: “Non vogliamo in alcun modo interferire con il lavoro della procura”.

Il carcere di Parma è già finito più volte in cronaca per altri casi di maltrattamento (come quello di Aldo Cagna, con gli agenti che sono stati condannati a 14 mesi) o per le condizioni allucinanti dell’infermeria interna, grazie a una battaglia che il Garante dei detenuti dell’Emilia Romagna continua a portare avanti nel solito, colpevole, clima di indifferenza generale.

Mario Di Vito

Il Manifesto, 15 ottobre 2014

Abusi in carcere a San Vittore : «Sei una trans ? Allora fammi un pompino»


Casa Circondariale San Vittore MilanoTestimonianze di abusi sessuali sulle detenute transessuali e di altre vessazioni nel carcere di San Vittore, l’assoluzione degli agenti di Polizia penitenziaria finiti alla sbarra e poi l’inquietante morte di Erica, la trans che aveva avuto il coraggio di denunciare le violenze, e la scomparsa di un detenuto che in una lettera aveva scelto di raccontare quanto accadeva tra le mura dell’istituto milanese.

È il quadro a tinte fosche descritto dai volontari del gruppo Calamandrana, che hanno contattato il Garantista dopo la pubblicazione del nostro reportage: “L’inferno delle detenute transgender”. Nel dicembre del 2008 venne resa pubblica la lettera di un detenuto del raggio dei protetti che raccontava la vergogna degli abusi sessuali praticati da agenti graduati su detenute trans. Tramite questa lettera, i volontari del Gruppo Calamandrana chiedevano che si facesse luce su questi abusi ben conosciuti nell’ambiente ma mai denunciati da nessuno.

“In questo piano protetto dove sono rinchiusi stupratori, pedofili, infami e trans – scriveva il detenuto recluso al carcere di San Vittore – avviene ogni tipo di sopruso: regole che cambiano da un giorno all’altro, a discapito sempre del detenuto, ore di aria ridotte, scarafaggi ovunque, ecc.”.

Poi il detenuto va nello specifico: “Ma la cosa più scandalosa è ciò che subiscono le persone transessuali, cioè dei veri e propri abusi sessuali da parte di alcuni agenti, per lo più graduati, col tacito consenso di tutti gli altri che sanno. La cosa avviene con chiamate serali giustificate da visite mediche, chiamate per ritiro pacchi postali, chiamate di avvocati, chiamate dell’ufficio comando o matricole. Il detenuto di turno si trova poi in una stanza isolata con uno o più agenti, dove l’abuso avviene con ricatto, minacce, negazione dei medicinali, o più semplicemente con la promessa di agevolazioni di vario genere.

Questo abuso – conclude il detenuto del carcere di San Vittore – continua da sempre, e da sempre impunito, anche se confidato ad avvocati o operatori civili, medici e parenti. In un modo o nell’altro ciò che avviene dentro queste mura viene insabbiato prima di riuscire ad avere un efficace intervento”. Dopo la pubblicazione della lettera, il gruppo Calamandrana subisce una sospensione della sua attività all’interno del carcere milanese. E questo provvedimento ha messo in luce la difficoltà dei volontari operanti all’interno delle carceri di denunciare gli abusi e le inefficienze del sistema penitenziario.

“Durante la loro attività in carcere – sottolinea il gruppo Calamandrana – inevitabilmente i volontari possono essere testimoni di fatti gravi compiuti da singoli operatori penitenziari (di cui, tra l’altro, non sono gli unici a sapere): perché non se ne parla? Forse per il timore dì essere segnalati al Giudice di Sorveglianza e di conseguenza non poter più entrare in carcere?

O forse perché, per una sorta di fatalismo si è convinti che la comunicazione alla Direzione comunque non porterebbe a nulla? E se anche ne parlano, in genere non vengono neppure a sapere se in seguito siano stati adottati dei provvedimenti; l’unica notizia è un eventuale trasferimento del detenuto/a coinvolto/a perché non lo/la si vede più. Siamo consapevoli che il mondo carcerario ha al suo interno equilibri molto delicati e che deve essere presa in considerazione sia la tutela del detenuto/a che denuncia sia la tutela del denunciato/a.

D’altra parte, gli eventuali gravi episodi contrastano nettamente con l’articolo 27 della Costituzione comma terzo (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dì umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) e con l’ordinamento penitenziario legge 26 luglio 1975 n° 354 art. 1 comma uno (“Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”).

L’attuazione pratica di questi due articoli è stata l’istituzione della Magistratura di Sorveglianza che ha il compito di vigilare sull’esecuzione della pena nel rispetto dei diritti dei detenuti ed ha il potere di intervenire. C’è perfino una sentenza della Corte Costituzionale n. 26 dell’11.02.1999 che prescrive l’adozione di una specifica procedura giurisdizionale in merito ai reclami dei detenuti al Magistrato di Sorveglianza per violazione dei propri diritti”.

Conclude poi il gruppo Calamandrana con un quesito: “Quindi, tornando alla domanda iniziale, se ne aggiunge un’altra, con la speranza che si possa arrivare ad un dibattito per avere chiarezza su quanto abbiamo esposto: quali sono i limiti del silenzio del volontariato (e non solo del volontariato) in carcere?”.

E, di fatto, i volontari del gruppo Calamandrana non si sono imposti limiti nel denunciare ciò che accadeva all’interno del carcere dove operavano, Non solo hanno reso pubblico la testimonianza del detenuto e della trans Erica, ma hanno trascritto e diffuso una parte significativa di un1 intervista radiofonica nei confronti di una trans uscita dal carcere milanese. “Dal mio primo ingresso a San Vittore – spiega la trans nell’intervista – ho dovuto sopportarne di tutti i colori. Se fuori la discriminazione verso i trans è al 100%, dentro il carcere è al 200%, In carcere vieni vista come un animale, E a furia di essere trattati come animali, lo si diventa”.

La trans durante l’intervista spiega nel dettaglio anche le vessazioni subite e il fatto di non essere creduto dalla dal direttore del carcere. “Ero in una situazione così grave – continua la trans -che ho cominciato a riempirmi di psicofarmaci per dormire e non sentire niente. Ho avuto tante colleghe trans arrivare alla pazzia. Alle richieste di prestazioni sessuali da parte degli agenti io reagivo con odio e a uno di questi un giorno non solo l’ho mandato a fanculo, ma gli ho detto: “Un pompino te lo deve fare la tua mamma, non io”.

Questo mi è costato 45 giorni di carcere in più, perché lui mi ha fatto rapporto”. A quel punto la trans spiega che “per 3 anni ho passato questa vita non di merda, ma sotto la merda. Giorno dopo giorno ho ricevuto violenze dagli agenti, violenze anche verbali.

“Puttana di merda, come li facevi i pompini fuori?”. E allora io rispondevo; “Bene, molto bene”. Perché se li mandavo a fanculo avevo altri 45 giorni di pena in più”. Ma la trans durante l’intervista tiene a specificare che “non tutti gli agenti sono così, Ci sono fra loro anche persone bravissime, I veri bravi agenti esistono, ma molti si approfittano della loro posizione, Dagli altri detenuti ho ricevuto molta solidarietà e ho imparato tanto”.

Le denunce delle vessazioni nei confronti delle trans detenute hanno avuto un effetto concreto: dopo circa due mesi dalla diffusione delle testimonianze, nel 2009 la Procura di Milano ha cominciato ad occuparsi della faccenda. È scattato il rinvio a giudizio nei confronti delle due guardie penitenziarie e avviato il processo. Dopo molti rinvii il processo si è concluso il 18 luglio 2013 con l’assoluzione dei due agenti “perché il fatto non sussiste”.

Ma la conclusione di questa storia è molto più amara e inquietante. Gabriella Sacchetti, volontaria del gruppo Calamandrana, spiega al Garantista che “due protagonisti importanti di questa brutta storia sono spariti subito dopo il processo o poco prima. Di Erica, una delle trans che aveva denunciato gli abusi, è corsa voce che sia stata uccisa, ma non siamo riusciti a sapere dove, come e quando. Il detenuto della lettera di denuncia che abbiamo pubblicato è sparito dalla circolazione dopo che ha finito di scontare la pena. E questo ci è molto dispiaciuto e ci ha inquietato, anche perché – conclude amaramente Gabriella Sacchetti – li avevamo conosciuti durante il nostro volontariato ed eravamo rimasti in contatto epistolare fino a poco prima della sentenza”.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 14 ottobre 2014

Gratteri ha già pronta l’anti-riforma della Giustizia. Una vera e propria spada di Damocle sullo Stato di Diritto


giustizia1-640x436Gratteri ha già pronta l’anti-riforma della giustizia. Trapelano i punti cardine delle proposte della Commissione presieduta a Via Arenula dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria. Una vera e propria spada di Damocle sullo stato di diritto.

Forse non tutti lo sanno ma il pm antimafia Nicola Gratteri presiede anche una commissione ministeriale per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta alla criminalità. L’Ansa ha fatto trapelare le prime indiscrezioni sulle sue proposte. I punti focali sono un concetto di giustizia come negazione del diritto di difesa, l’umiliazione del ruolo dell’avvocato difensore, l’annichilimento delle garanzie del giusto processo e della certezza della prova.

Si era detto disponibile a diventare ministro della Giustizia per il governo Renzi, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, a patto di avere la libertà di realizzare le cose che aveva in testa. La nomina sembrava certa prima che Renzi salisse al Colle. Poi il nulla di fatto. Uno stop del presidente Napolitano, pare, determinato da ragioni di opportunità.

Un magistrato ancora in servizio attivo non dovrebbe rivestire incarichi politici, tanto più che al ministro della Giustizia spettano compiti vistosamente incompatibili con il ruolo di pm dell’antimafia rivestito da Gratteri, quali la firma sui decreti di applicazione e proroga dei 41 bis.

Allora la nomina del ministro Orlando con il suo passato di garantista, anti manette facili, contro l’ergastolo e l’obbligatorietà dell’azione penale. Certo è che sul fronte della garanzia dei diritti nessun passo sembra essere stato mosso. Intanto l’Ansa rende note le linee guida della riforma voluta da Gratteri.

Sì, perché il pm antimafia presiede la commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta alla criminalità, istituita presso Palazzo Chigi. I punti focali delle proposte di modifica appaiono una stridente espressione di una impostazione del concetto di “giustizia” come negazione del diritto di difesa, umiliazione del ruolo dell’avvocato difensore, annichilimento delle garanzie del giusto processo e della certezza della prova, disattenzione alle logiche deflattive dei giudizi a vantaggio della celere definizione dei processi, superamento del principio del favor rei e perfino confusione tra i ruoli – e già ce n’è troppa – tra chi esercita l’azione penale e chi giudica.

Il primo punto riguarda la parificazione, in termini sanzionatori, del partecipe ad associazione mafiosa al partecipe ad associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Pene fino a trent’anni di reclusione – tuona Gratteri – per i mafiosi che, a suo dire, temono solo le condanne per omicidio, che possono comportare l’ergastolo, e per la droga, che comportano pene assai severe. Un aumento sanzionatorio, quello prospettato, che appare già un abominio giuridico se si pensa che la contestazione di partecipazione non viene certo mossa soltanto ai boss ma a piccoli fiancheggiatori con una capacità criminale a volte infima che sarebbe quanto meno spropositato punire con sanzioni così follemente afflittive.

Cadrebbe il divieto di re-formatio in pejus in sede di appello proposto dal solo imputato. In parole povere: oggi, se la procura non impugna la sentenza di condanna a carico dell’imputato e tacitamente si dichiara soddisfatta dell’esito del giudizio, opera un divieto per i giudici dell’appello di aggravare la condanna emessa dal primo giudice.

È un principio di civiltà che, nel nostro ordinamento, risponde anche alla divisione di funzioni operata dal codice di rito. È il pm che esercita l’azione penale. Se ritiene che la condanna a carico dell’accusato sia coerente all’atto di accusa che ha formulato, nessun potere è dato al magistrato giudicante di ravvisare nuovi elementi di responsabilità dai quali far scaturire inasprimenti sanzionatori. Ancora: verrebbe abrogato il rito abbreviato, la possibilità, cioè, per l’imputato di scegliere di essere giudicato con il materiale di prova raccolto nelle indagini rinunciando a un processo in aula nel quale confutare gli esiti istruttori raccolti dalla pubblica accusa con conseguente sconto di pena in caso di condanna.

Una modifica normativa del genere comporterebbe la paralisi definitiva dei tribunali. L’accesso al rito abbreviato, infatti, determina il venir meno di centinaia di udienze, di video conferenze, di traduzioni in aula di detenuti, di trasferimenti in località protette di collaboratori di giustizia, un abbattimento considerevole dei costi e dei tempi della giustizia.

La logica della cancellazione di tale rito – che peraltro santifica l’operato dei pm poiché sottopone ai magistrati che giudicano, quale prova da valutare, solo l’esito delle attività di indagine – appare del tutto incomprensibile. Non trova, peraltro, alcuna compensazione nell’ulteriore progetto di ampliare l’accesso al patteggiamento a tutti i reati. La proposta appare incoerente se si pensa che lo stesso Gratteri ha più volte parificato patteggiamento e rito abbreviato definendoli “sconti fatti alle mafie”.

Diverso sarebbe se, come sembra, l’accesso al patteggiamento venga subordinato alla confessione, sulla bontà e pienezza della quale è ipotizzabile si preveda il parere del pm e il vaglio del magistrato. Si apre la prospettiva a derive incostituzionali di coazione psicologica all’accusato che sarebbe indotto a confessare e ad indicare i corresponsabili per accedere al solo rito -abrogata la previsione dell’abbreviato – che permetta uno sconto di pena. Non è finita! Il progetto di modifica contempla l’estensione ai legali, in solido con i propri assistiti, del pagamento delle spese processuali in caso di ricorso dichiarato inammissibile.

Una norma che se esistente spazzerebbe via del tutto il diritto di difesa e troncherebbe ogni anelito di giustizia inibendo di fatto gli avvocati dal prospettare questioni giuridiche talora innovative e creative per non correre il rischio di subire un danno economico. L’avvocato è per sua essenza sentinella del diritto. Studia le norme, le loro interpretazioni e implicazioni, le rapporta in aula con il caso concreto, ne osserva l’applicazione al fatto e le illogicità, le storture e le abnormità e se ne fa portavoce. È una voce di garanzia, quella dell’avvocatura, che non può, non deve essere menomata! Ancora: videoconferenze per tutti i detenuti per i reati più gravi. Nessun imputato potrebbe più essere presente in udienza.

Verrebbe meno radicalmente l’oralità del processo penale. La videoconferenza, infatti, già prevista per i soli detenuti in 41 bis, vanifica, di fatto, la possibilità di intervenire in aula in corso di giudizio. Mentre il detenuto in saletta video chiede il permesso di intervenire, o di comunicare telefonicamente con il proprio difensore in aula, il processo si svolge, va avanti e rende inutile la pretesa legittima del detenuto.

Questa follia antigiuridica, finora accettata – seppur inaccettabile – per i 41 bis in ragione del prevalere di logiche di sicurezza, dovrebbe essere estesa ad una enorme categoria di detenuti che verrebbero di fatto estromessi dalla partecipazione attiva ai processi. Verrebbe abolito l’appello incidentale, ossia l’impugnazione proposta dall’imputato per contrastare quella del pm, con vistoso detrimento del principio costituzionale del favor rei.

Sarebbe introdotta la declaratoria di inammissibilità delle impugnazioni in appello per manifesta infondatezza, con un iter che in sostanza ricalcherebbe quello analogo già operante in Cassazione: soppressione, dunque, ancorata a parametri discrezionali, di un grado di giudizio di merito e insensata ed illusoria attribuzione ad un solo giudicante delle sorti dell’imputato.

L’abolizione del ricorso per Cassazione per vizio di motivazione che sottrarrebbe al giudice di legittimità il potere di annullare le sentenze illogiche o contraddittorie: una grave menomazione delle garanzie difensive se solo si pensa al frequente approdo, alla Corte di Cassazione, di sentenze di condanna che poggiano interamente sulle dichiarazioni di collaboratori di giustizia in relazione alle quali fondamentale appare che il giudice di legittimità preservi il compito di verifica di coerenza e logicità dell’apparato motivazionale.

La militarizzazione degli istituti penitenziari che avrebbero, come direttori, non più civili bensì commissari di polizia penitenziaria. Un controllo interno, dunque, che non sfugge alle ansie di meccanismi corporativi (un pò come il Csm che giudica i magistrati!). Una serie, dunque, di ipotesi normative nella sostanza antigiuridiche e costituzionalmente illegittime, una minaccia concreta al giusto processo, una spada di Damocle sullo stato di diritto.

Maria Brucale

Il Garantista, 16 ottobre 2014