Tra le notizie di cronaca è frequente l’informazione che l’imputato, in carcere o agli arresti domiciliari, ha chiesto di definire il procedimento mediante il rito abbreviato. Quest’ultimo si caratterizza per il fatto che il procedimento si svolge sulla base dei risultati delle indagini del pubblico ministero e senza che la difesa possa introdurre le prove a proprio discarico.
Il rito abbreviato si risolve, in sostanza, in un giudizio sulla base dei rapporti della polizia giudiziaria, delle testimonianze raccolte dal pubblico ministero e dei risultati delle consulenze disposte da quest’ultimo. Quasi sempre, perciò, quando vi sia uno stato di detenzione, disposto dal Gip e confermato dal Tribunale del riesame, l’esito della condanna è scontato.
In un caso del genere, sulla base degli stessi atti su cui si deve formare il giudizio, sono già intervenute ben due precedenti valutazioni di colpevolezza: quella del gip che ha emesso l’ordinanza di custodia cautelare e quella del Tribunale del riesame che l’ha confermata. E facile immaginare che è del tutto improbabile che il giudice dell’abbreviato giunga ad una diversa decisione alla luce delle medesime prove, Perché, allora, se l’esito del giudizio è scontato, si fa ricorso al rito abbreviato?
A leggere il codice di procedura penale la risposta potrebbe essere che in tal modo, essendo sicura la condanna, si beneficia almeno della riduzione di un terzo della pena, che è il premio concesso a chi, evitando il dibattimento, non ingolfa i tribunali. Chi è certamente colpevole e senza alcuna possibilità di scampo è logico che si rifugi nel rito abbreviato per ottenere la riduzione della pena.
È sempre così? No! Anzi, la pratica dice che molto spesso non è così. Per comprendere cosa realmente accade occorre muovere da un dato. Per chi si trova in stato di custodia preventiva i tempi di quest’ultima si allungano se, come molto spesso avviene in questi casi, l’accusa salta l’udienza preliminare e chiede il giudizio immediato. L’imputato, di conseguenza, vede dilatarsi i tempi di restrizione della libertà, con conseguenze psicologiche spesso devastanti. Il che deteriora in modo irreparabile la capacità di resistenza.
A questo si aggiunge che lo stato di detenzione, anche se domiciliare, indebolisce anche la possibilità di difendersi: alla sofferenza psicologica si aggiunge la difficoltà materiale di cercare documenti, ravvivare i ricordi, effettuare delle verifiche.
Ecco, allora, che la condanna celermente ottenuta attraverso il rito abbreviato diventa una liberazione: il Pm, soddisfatto della condanna rapidamente ottenuta, che conferma la sua visione dei fatti, consentirà benevolmente che il giudice restituisca la libertà.
Per meglio comprendere cosa realmente si verifica è utile aggiungere un altro tassello. Molto spesso, in questi casi, la custodia cautelare è giustificata con il pericolo che l’imputato possa delinquere ancora. Si tratta di vere e proprie formule di stile, in genere motivate affermando che le modalità di commissione del reato fanno presumere il rischio concreto di una reiterazione nella commissione dell’illecito. Il risultato è che la libertà personale è ostaggio dell’arbitrio e che la pena, che dovrebbe giungere al termine del processo, è scontata in anticipo.
Il giudizio abbreviato e una condanna rapida diventano, perciò, l’unico mezzo per svincolarsi da questo arbitrio e riacquistare la libertà. Ecco, allora, che quando si legge in cronaca che Tizio, agli arresti domiciliari e sottoposto a giudizio immediato, ha fatto richiesta del rito abbreviato, bisogna chiedersi se la richiesta sia il frutto di un calcolo di convenienza o la resa ad un potere esercitato al di fuori delle regole.
Astolfo Di Amato
Il Garantista, 8 ottobre 2014