Prosegue l’inchiesta della Procura sulla morte del detenuto algherese. Si guarda a ciò che è accaduto prima della tragedia. Nessun segno di violenza sul corpo e neppure altri elementi che possano portare a pensare a una causa di morte diversa dal suicidio.
L’autopsia eseguita ieri dal medico legale Francesco Lubino ha confermato la prima ipotesi formulata sul decesso di Francesco Saverio Russo, il detenuto algherese trovato privo di vita – sabato sera – in una cella del nuovo carcere di Bancali. Dopo questo passaggio (i familiari hanno nominato un consulente di parte), il magistrato titolare dell’inchiesta Cristina Carunchio deciderà quali passi compiere e se disporre ulteriori approfondimenti, anche per quanto riguarda la gestione delle fasi precedenti la tragedia. Sul dopo, infatti, sembra tutto chiaro.
Anche le attività messe in atto per cercare di salvare la vita al giovane algherese: le pratiche di rianimazione sono state portate avanti per quasi cinquanta minuti. Ma per il detenuto non c’è stato niente da fare. Articolo 21. Francesco Saverio Russo aveva ottenuto il beneficio previsto dall’articolo 21 e poteva lavorare all’esterno in un laboratorio di informatico gestito dal fratello. Usciva la mattina e tornava la sera, accompagnato sempre dalla madre.
A fine luglio, però, il diritto era stato revocato. Sulle motivazioni ci sono posizioni discordanti: negli ambienti familiari di Russo si parla di violazioni di poco conto, dal carcere invece sostengono che il mancato rispetto di precise disposizioni porta inevitabilmente alla sospensione del beneficio: “Una regola che vale per tutti”.
L’ambiente. Bancali è un carcere nuovo, un gioiellino se si pensa a quello che era San Sebastiano. Male strutture, si sa, non sono tutto, specie se diventano “contenitori di corpi”, come dice radio carcere. Nel penitenziario che è destinato anche ad accogliere ospiti destinati al 41bis, quindi calibri importanti, da qualche tempo il clima sarebbe diventato più pesante rispetto ai primi mesi di apertura.
Una situazione ambientale resa più problematica dal fatto che solo pochi reclusi hanno l’opportunità di lavorare: le richieste inevase sarebbero tante e la carenza di risorse non consentirebbe di fare decollare progetti che, invece, esistono. Equilibrio fragile. In un carcere conta molto l’anima, la vita delle persone che vivono – a vario titolo – dentro la grande casa con le sbarre. Gli umori cambiano da un momento all’altro, spesso basta una mezza notizia, un impedimento qualsiasi per fare crollare l’ottimismo messo insieme a fatica. E chi sta da solo in cella, in genere, fa più fatica a resistere.
Le reazioni. Francesco Saverio Russo aveva manifestato qualche preoccupazione alla madre, ma era stato tranquillizzato. Anche se l’udienza al Riesame fissata per novembre era parsa troppo lontana per chi auspica il ripristino del diritto di poter uscire quotidianamente dal carcere come faceva fino a qualche settimana prima. Comunicazioni complesse. Dentro un carcere le comunicazioni burocratiche tra le diverse aree sono spesso complesse, e non è solo un problema di Bancali. I tempi spesso si allungano, le risposte tardano, a volte si “perdono gli attimi”.
E un giorno in cella – si dice – ha un peso tre volte superiore a quello passato fuori. Strane sorprese. Il giudice di sorveglianza, segue la vita del carcere attraverso quelle dei detenuti. Conosce ogni variazione, sa tutto in tempo reale o quasi.
Del suicidio – il primo che si verifica a Bancali – gira voce che abbia appreso la notizia parecchie ore dopo il grave fatto. Pare al suo ingresso in carcere il giorno seguente. E anche questa, se confermata, è una cosa strana. Confronto. La morte di una persona, specie in una situazione di disagio (come accade in carcere) in qualunque modo avvenga è sempre una sconfitta durissima. E richiama l’attenzione di tutte le istituzioni coinvolte, apre un confronto che troppe volte è solo teorico e non lascia spazio alla pratica soluzione dei problemi di tutti i giorni.
Gianni Bazzoni
La Nuova Sardegna, 10 settembre 2014