Vercelli, Arrestati due Agenti di Polizia Penitenziaria per usura


Casa Circondariale di VercelliPrestavano soldi con interessi mensili dal 20 al 100%. In un caso, a fronte di un prestito da 1200 euro, ne hanno chiesti indietro 6500. Un grosso giro di usura che avveniva tra agenti di polizia penitenziaria è stato scoperto dalla procura della Repubblica di Vercelli in collaborazione con Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria di Torino: le indagini hanno portato – al momento – all’arresto di quattro persone, due finanziatori e due poliziotti che facevano da tramite. I due finanziatori sono Catalin Botezatu, originario di Vercelli ma titolare di esercizio pubblico a Carpignano Sesia, e Diego Corona, risicoltore di Pezzana. I due agenti arrestati (attualmente sono ai domiciliari) sono Salvatore Zarelli e Bruno Crisafio, quest’ultimo temporaneamente in servizio all’Uepe (Ufficio esecuzioni penitenziarie esterne) di Vercelli.

Le vittime erano quasi sempre colleghi agenti della polizia penitenziaria, a cui gli strozzini sono arrivati a chiedere fino a 30 mila euro in restituzione di un prestito. Gli usurai, con i soldi intascati, si compravano vestiti firmati, rolex d’oro, cellulari da migliaia di euro dagli Emirati arabi. I dettagli dell’operazione «Tendenza» sono stati presentati dal procuratore capo Paolo Tamponi e dal sostituto procuratore Davide Pretti. «Non avevamo idea della portata di questi fatti», ha commentato il direttore del carcere di Vercelli, Tullia Ardito.

Roberto Maggio

La Stampa, 28 Luglio 2014

Pare proprio che sia impossibile per l’Italia adeguarsi ai principi europei e di civiltà


cella detenuti 1….. in materia di trattamento da riservare alle persone arrestate o fermate dalla polizia. A suscitare allarme non ci sono soltanto le ricorrenti cronache giudiziarie relative a processi contro agenti accusati di avere provocato la morte di qualche giovane. Ci sono anche le sentenze delle Corti internazionali a ricordarci la situazione. Nel giro di una settimana, infatti, l’Italia ha riportato due condanne.

Entrambe dinanzi alla Corte europea dei diritti umani: una per i maltrattamenti inflitti dalle forze dell’ordine a una persona in stato di arresto (sentenza 24 giugno 2014, Alberti contro Italia), e un’altra, otto giorni dopo, per i maltrattamenti a molti detenuti nel carcere di Sassari (sentenza Saba contro Italia).

Non si tratta di sentenze che stabiliscono nuovi principi di diritto. Entrambe costituiscono semplici conferme della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3 della Convenzione). Esse meritano tuttavia attenzione perché ricordano, una volta ancora, che in Italia le violenze fisiche e morali perpetrate dalle forze dell’ordine sulle persone in Stato di privazione della libertà personale rimangono prive di adeguate sanzioni. Il caso Saba, in particolare, è esemplare.

I fatti risalgono all’aprile del 2000, quando alcuni detenuti del carcere di Sassari denunciarono le violenze di ogni genere subite da parte della polizia penitenziaria in occasione di una perquisizione della struttura (agenti di altri stabilimenti vennero inviati a Sassari per rafforzare la guarnigione locale).

Dopo vari tentativi di insabbiamento o di minimizzazione da parte di alcune pubbliche autorità, grazie all’opera di un coraggioso pubblico ministero, Mariano Brianda, si aprirono le indagini che portarono alla richiesta di rinvio a giudizio per novanta persone tra agenti ed altri membri dell’amministrazione penitenziaria in relazione ai delitti di violenza privata, lesioni personali aggravate ed abuso d’ufficio, commessi nei confronti di un centinaio di detenuti.

Dei sessantuno imputati che scelsero il rito abbreviato solo dodici furono condannati, con pene da quattro mesi a un anno e mezzo di reclusione, tutte sospese, per i delitti di violenza privata aggravata e abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 del codice penale). In appello le condanne divennero definitive per nove di loro, ad alcuni dei quali vennero altresì applicate lievi sanzioni disciplinari.

Quanto agli altri ventinove imputati, soltanto in nove vennero rinviati a giudizio, mentre per venti fu pronunciata sentenza di non luogo a procedere. Pur ritenendo accertato che si fosse verificato un episodio violenza inumana e gratuita, nel corso del quale i detenuti erano stati costretti a denudarsi, insultati, minacciati e in taluni casi anche picchiati (sono queste le parole dei giudici), il Tribunale prosciolse tutti gli imputati: due di loro per carenza di prove, gli altri sette per sopravvenuta prescrizione dei reati.

Oltre al rammarico per la gravità dei fatti e per la cattiva fama che il nostro paese si va costruendo a livello internazionale, ciò che colpisce è la modestia delle conseguenze che subiscono coloro che quella cattiva fama determinano.

La prescrizione è la regina delle ciambelle di salvataggio. Ma l’assenza nel nostro ordinamento del reato di tortura (la cui introduzione, prevista da convenzioni sottoscritte dall’Italia, è stata più volte sollecitata anche da organismi internazionali), determina per coloro che sono riconosciuti colpevoli l’inflizione di pene modestissime, di regola sospese. E le misure disciplinari che conseguono a condanne simboliche sono altrettanto simboliche. Ciò induce a pensare che siano forti in molti ambienti i sentimenti di solidarietà verso coloro che violano le regole a danno delle persone detenute. Infatti, sono trascorsi più di dieci anni dai fatti di Sassari, ma la situazione, anche normativa, non si è modificata.

Giovanni Palombarini (Magistratura Democratica)

La Provincia Pavese, 26 luglio 2014

La vicinanza della pena al delitto ? Per Beccaria un caposaldo, per noi pura utopia


giustizia-500x375Non c’è solo il rifiuto della pena di morte e l’avversione alla tortura, nel celebre dei Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. C’è anche la precisa definizione di quello che deve essere la pena, la sanzione, che deve possedere alcuni requisiti: a) la prontezza ovvero la vicinanza temporale della pena al delitto; b) l’infallibilità ovvero vi deve essere la certezza della risposta sanzionatoria da parte delle autorità; c) la proporzionalità con il reato (difficile da realizzare ma auspicabile); d) la pubblica esemplarità: destinataria della sanzione è la collettività, che constata la non convenienza all’infrazione.

In breve: il fine della sanzione non è quello di affliggere, piuttosto di impedire al reo di compiere altri delitti e di intimidire gli altri dal compierne altri. A 250 anni esatti dalla prima pubblicazione, a Livorno, dei Delitti e delle pene, non si può proprio dire che si sia fatto tesoro di quegli “ammonimenti”. Un primo esempio ci viene dal racconto di un magistrato da sempre schierato e impegnato sul fronte progressista, Giovanni Palombarini: “Pare proprio che sia impossibile per l’Italia adeguarsi ai principi europei (e della civiltà) in materia di trattamento da riservare alle persone arrestate o fermate dalla polizia. Ci sono anche le sentenze delle Corti internazionali a ricordarci la situazione”.

“Nel giro di una settimana – continua – infatti, l’Italia ha riportato due condanne dinanzi alla Corte europea dei diritti umani, una per i maltrattamenti inflitti dalle forze dell’ordine a una persona in stato di arresto (sentenza 24 giugno 2014, Alberti contro Italia), e un’altra, otto giorni dopo, per i maltrattamenti a molti detenuti nel carcere di Sassari (sentenza Saba contro Italia)”, Non si tratta, spiega, di sentenze che stabiliscono nuovi principi di diritto: entrambe, costituiscono semplici conferme della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (articolo 3 della Convenzione).

Sentenze che meritano attenzione: ricordano, una volta ancora, che in Italia le violenze fisiche e morali perpetrate dalle forze dell’ordine sulle persone in stato di privazione della libertà personale rimangono prive di adeguate sanzioni, Al riguardo il caso Saba, è esemplare: “I fatti risalgono all’aprile del 2000, quando alcuni detenuti del carcere di Sassari denunciarono le violenze di ogni genere subite da parte della polizia penitenziaria in occasione di una perquisizione della struttura (agenti di altri stabilimenti vennero inviati a Sassari per rafforzare la guarnigione locale)”.

Non mancano i tentativi di insabbiare e minimizzare, ma grazie a un magistrato ostinato, il pm Mariano Brianda, le indagini vanno avanti, e alla fine arriva la richiesta di rinvio a giudizio per novanta persone tra agenti ed altri membri dell’amministrazione penitenziaria; l’ipotesi di reato è di violenza privata, lesioni personali aggravate, abuso d’ufficio, commessi nei confronti di un centinaio di detenuti. E qui comincia un avvilente carnevale: 61 imputati scelgono il rito abbreviato, in 12 vengono condannati, da quattro mesi a un anno e mezzo di reclusione, condanne sospese. In appello le condanne definitive diventano solo nove.

E veniamo agli altri 29 imputati: nove sono rinviati a giudizio, per venti la sentenza è di non luogo a procedere. Nel corso dei processi si accerta che si sono verificati episodi di violenza inumana e gratuita, detenuti costretti a denudarsi, insultati, minacciati e picchiati, Ma il tribunale comunque proscioglie tutti gli imputati: due per carenza di prove, gli altri per sopravvenuta prescrizione. Le misure disciplinari che seguono le condanne sono altrettanto simboliche. Ciò induce a pensare, ne ricava Palombarini, che in molti ambienti siano forti i sentimenti di solidarietà verso coloro che violano le regole a danno delle persone detenute: “Infatti sono trascorsi più di dieci armi dai fatti di Sassari, ma la situazione, anche normativa, non si è modificata”.

Altro caso significativo: devono rispondere di sequestro di persona a scopo d’estorsione e rapina. È il 15 gennaio del 2000 quando nel carcere di Panna scoppia una rivolta, e un agente viene rinchiuso in una cella per ore; poi la resa, dopo una lunga trattativa.

Dopo sei interminabili ore l’allora procuratore Giovanni Panebianco annuncia: “Abbiamo accolto le loro richieste dì trasferimento”. Ora, a quattordici anni di distanza, quella rivolta entra in un’aula di giustizia, Il procedimento, dopo essere rimasto a Parma per alcuni anni, è stato trasferito alla Dda di Bologna. Se ne parlerà il 30 settembre prossimo in Corte d’assise.

Il rinvio a giudizio del Gup Bruno Gian-giacomo risale al giugno 2013, e la prima udienza era stata fissata per lo scorso gennaio, ma problemi di notifiche agli imputati hanno fatto slittare ulteriormente il “vero” inizio del processo al prossimo autunno. Per riassumere: una rivolta in carcere, sei ore di grande tensione, una trattativa che alla fine scongiura un epilogo che poteva essere tragico, la resa e il ritorno alla “normalità”.

Quattordici anni dopo, il processo. Neppure concluso: inizia. Con tanti saluti a Cesare Beccaria, al suo Dei delitti e delle pene, alla certezza della sanzione e del diritto. Ed è pur significativo che a opporsi a questo stato di cose siano solo Marco Pannella, Rita Bernardini e un pugno di radicali da giorni in digiuno per ottenere che lo Stato rispetti quelle leggi che si è dato ed esca finalmente dalla situazione tecnica di criminalità organizzata in cui è sprofondato.

Valter Vecellio

Il Garantista, 27 luglio 2014

Padova: esame tossicologico sul detenuto suicida poche ore dopo l’interrogatorio del Pm


Casa CircondarialeViene effettuato questa mattina l’esame esterno e un’indagine tossicologica sul corpo di Giovanni Pucci, il detenuto che si è tolto la vita nella sua cella poche ore dopo l’interrogatorio con il magistrato in merito ad una inchiesta sul carcere che lo vedeva indagato. L’indagine è stata affidata dal pubblico ministero Giorgio Falcone dalla dottoressa Rossella Snenghi. Il detenuto era accusato di corruzione e spaccio tra le celle del Due Palazzi.

Era usato, almeno da quanto risulta dall’inchiesta, come pedina dalle guardie corrotte per portare la droga e non solo agli altri detenuti. Lui non dava nell’occhio visto che ogni giorno passava per le celle a portare il pranzo e la cena con il carrello. Ma oltre a pasta e carne arrivava dell’altro. Dai telefonini alla cocaina, bastava che i parenti pagassero le guardie carcerarie. Il pm Falcone ha aperto un’inchiesta in merito al suo suicidio, per trovare eventuali responsabilità.

Va detto che Pucci, 44 anni, elettricista leccese, tossicodipendente si era macchiato di un omicidio orribile. Nel 1999 aveva ammazzato con un punteruolo una dottoressa in servizio al Servizio di guardia medica a Gagliano del Capo (Lecce). Era stato condannato all’ergastolo, ma poi la sua pena era stata ridimensionata a 30 anni. Sarebbe uscito dal Due Palazzi nel 2024.

Ma queste nuove accuse in caso di condanna avrebbero prolungato la sua permanenza dietro le sbarre (attualmente era in una cella singola), ma da subito questi nuovi guai avrebbero portato alla sospensione dei permessi dei quali lui godeva, che mitigavano la sue permanenza nel penitenziario.

Il Mattino, 28 luglio 2014