Roma, Durante una perquisizione in cella, gli ruppero l’apparecchio acustico. Negato risarcimento a detenuto 63enne


Carcere Regina Coeli RomaSordo da quasi due anni, per “colpa” dello Stato. Doveva essere una normale perquisizione in cella, a Regina Coeli, quella a cui venne sottoposto un detenuto: ma, al suo rientro, il 63enne si accorse che qualcosa era andato storto e che il suo prezioso apparecchio acustico, unica difesa dal grave deficit auditivo che lo rende pressoché sordo, era ridotto in frantumi.

Per questo, esasperato, ha deciso di sporgere denuncia chiedendo il risarcimento danni. L’uomo, all’epoca dei fatti gestore di una tabaccheria vicino al Colosseo, racconta che il 15 settembre del 2012 venne arrestato con l’accusa di spaccio di stupefacenti. Al processo di primo grado fu condannato a 4 anni di reclusione, poi ridotti a 3 anni in appello, da scontare a Regina Coeli. In questa struttura, il 9 novembre di due anni fa, a seguito di una perquisizione a sorpresa, avrebbe rinvenuto il suo apparecchio acustico danneggiato in modo irreparabile.

Il detenuto fece subito presente l’accaduto al personale e si sarebbe successivamente rivolto all’avvocato Simone Pacifici, già legale dell’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali). Quest’ultimo avrebbe richiesto e ottenuto un incontro con un dirigente della struttura carceraria che, si legge nella denuncia, “convocò gli agenti che confermarono i fatti”.

La richiesta di rimborso venne però rigettata. Inutile ogni tentativo, a spese del detenuto stesso, di riparazione dell’apparecchio “anche con l’invio a Milano presso tecnici specializzati”. Così il 63enne, che nel frattempo aveva ottenuto gli arresti domiciliari, impossibilitato a sostenere le spese per il riacquisto dell’apparecchio (superiori ai 4mila euro), sarebbe stato costretto a vivere in condizioni di estremo disagio per evitare il ritorno in carcere: che sarebbe inesorabilmente scattato qualora non avesse sentito gli agenti bussare alla sua porta per effettuare i consueti controlli sullo stato di detenzione in casa. Anzi, a causa della sua sordità, sarebbe stato costretto a “passare tutte le notti sveglio e a dormire accanto la porta d’ingresso”.

L’avvocato Pacifici ha spiegato: “Ho speranza che la Procura di Roma possa aprire un fascicolo e disporre un’approfondita indagine, capace di fare giustizia in questo caso e in altri analoghi”.

Gerardi (Radicali) : Ministro Orlando revochi subito il 41 bis a Provenzano


Cella 41 bis OPUn paio di anni fa mi recai in visita ispettiva presso il carcere di Parma insieme alla delegazione radicale composta da Rita Bernardini, Irene Testa e Valentina Stella. Dopo aver visitato l’intero istituto penitenziario e parlato con i detenuti, ci recammo anche nella zona dove all’epoca era recluso Bernardo Provenzano.

Non appena l’uomo si alzò dal letto per venirci incontro, ci rendemmo subito conto di trovarci al cospetto di una persona il cui stato psicofisico era ormai irrimediabilmente compromesso: Provenzano, curvo sullo schiena, si muoveva lentamente e con grande fatica e nel corso di quei pochi istanti in cui si è svolto il “colloquio” non ha fatto altro che biascicare parole prive di senso, frasi sconclusionate e del tutto incomprensibili.

Dopo quella visita ispettiva, lo stato di salute di Provenzano, se possibile, si è ulteriormente aggravato. Le certificazioni mediche, infatti, attestano che il detenuto, allettato da dicembre 2012, presenta un quadro clinico profondamente deteriorato e in progressivo peggioramento, uno stato cognitivo irrimediabilmente compromesso, più tutta una serie di gravissime patologie, tra cui il morbo di Parkinson, che gli rendono impossibile persino l’alimentazione spontanea, al punto che qualche tempo fa i medici sono stati costretti a inserirgli il sondino naso-gastrico direttamente nell’intestino, visto che nemmeno lo stomaco gli funziona più.

Quando cominceremo a prendere atto dell’evidenza, ossia del fatto che il potente boss di Cosa Nostra di un tempo oggi non esiste più? Lo ha scritto chiaramente Luigi Manconi sull’Unità di domenica scorsa e non si può certo dargli torto: oggi Bernardo Provenzano è una persona anziana e gravemente malata che dipende dagli altri per ogni minimo aspetto della vita quotidiana, che non riconosce più i familiari che lo vanno a trovare in carcere e che non è nemmeno in grado di ricevere gli atti giudiziari che gli vengono notificati, tanto è vero che il Tribunale di Milano, non più tardi dì qualche settimana fa, gli ha nominato un amministratore di sostegno.

Lo stato di salute mentale dell’uomo è talmente precario che ben tre autorità giudiziarie hanno disposto la sospensione dei processi in cui Provenzano compariva nella veste di imputato, in quanto lo stesso è stato dichiarato incapace di partecipare alle udienze (ossia incapace persino di rendersi conto dì trovarsi in un’aula giudiziaria).

Lo stesso medico che attualmente ha in cura Provenzano ha inviato una relazione al Tribunale di Sorveglianza di Milano nella quale sostiene che le condizioni di salute del detenuto sono incompatibili con il regime carcerario.

E però a dispetto di tutte le perizie, le relazioni e le certificazioni mediche, Bernardo Provenzano continua non solo a rimanere in carcere, ma persino ad essere sottoposto al 41-bis, il che peraltro sta avvenendo anche contro il parere di tre procure distrettuali antimafia (Firenze, Caltanissetta e Palermo) che da tempo sì sono espresse a favore della revoca del cosiddetto “carcere duro”.

Il ministro della Giustizia Orlando, infatti, basandosi sul parere del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e della Procura nazionale antimafia, ritiene che Bernardo Provenzano possa ancora essere un soggetto “pericoloso”, e ciò sulla base di alcune relazioni del Gruppo operativo mobile (reparto specializzato della Polizia Penitenziaria) dalle quali emergerebbe che “a tratti”, ovvero “sporadicamente”, il detenuto sembra essere ancora in grado di “rispondere” alle domande che gli vengono rivolte.

L’evidente contraddizione fra il riconoscimento del grave stato dì salute dell’imputato, che non gli consente di partecipare validamente al processo, e il suo mantenimento in stato di detenzione, per di più in un regime inumano come il 41-bis, non è stata fin qui meritevole di alcuna attenzione, neppure tra coloro che, d’abitudine, si indignano per le violazioni dei diritti fondamentali; ciò evidentemente perché vi è la consapevolezza che una pubblica presa di posizione che riguardi Provenzano rischia di condannare chi la esprime alla più assoluta impopolarità. Ma i diritti umani sono per definizione universali e inviolabili e pertanto non possono essere negati ad alcuno, sia esso pure un boss di Cosa Nostra.

Lo sanno bene i radicali che in queste ore sono impegnati nell’ennesimo sciopero della fame insieme a circa 200 cittadini proprio per richiamare l’attenzione di Governo e Parlamento non solo sulle morti in carcere e sul diritto alle cure negato ai detenuti, ma anche sulla illegittimità del 41-bis, nato come regime detentivo “provvisorio” e oggi stabilizzato e applicato persino a soggetti ridotti in stato pressoché vegetativo come Provenzano, con buona pace non solo delle Convenzioni internazionali e della Costituzione, ma anche di quel minima senso dì umanità di cui tanto spesso ci si fa vanto.

Se davvero il ministro della Giustizia Orlando vuole dimostrare di avere a cuore questi temi, se veramente intende dar prova all’Europa di aver voltato pagina rispetto ai diritti dei detenuti, specialmente quelli che si trovano in condizioni di salute estreme, può farlo partendo proprio dalla revoca del carcere duro a Bernardo Provenzano.

Sarebbe infatti una sconfitta per tutti quanti noi se un uomo così gravemente malato dovesse morire in carcere, per giunta dopo essere stato sottoposto a un trattamento punitivo così inutilmente severo e senza aver ricevuto il sostegno e il conforto dei propri cari.

Avv. Alessandro Gerardi (Comitato Radicale per la Giustizia Piero Calamandrei)

Il Garantista, 22 luglio 2014

Carceri/Giustizia: le Camere Penali Italiane pronte a protestare contro il Governo


regina-coeli-carcereIl decreto legge che prevede risarcimenti per i reclusi ristretti nelle carceri in condizioni inumane “produrrà effetti opposti, addirittura ingiuriosi, nei confronti della collettività detenuta, se non sarà modificato in fase di conversione”.

L’allarme viene dall’Unione delle Camere Penali. “Se già è avvilente pensare di fissare nell’irrisoria cifra di 8 euro al giorno o di un giorno di sconto per ogni dieci di detenzione il risarcimento per essere stati ammassati come rifiuti umani in quelle discariche sociali che sono le carceri italiane, diventa intollerabile l’idea che questo possa essere il prezzo anche di atti classificabili come tortura”, affermano i penalisti, sottolineando la loro opposizione.

Su questo gli avvocati sono pronti alla protesta “più ferma”, ed è quello che faranno anche “se, come già sta avvenendo per quanto riguarda la marcia indietro sulla custodia cautelare con la modifica della norma che voleva finalmente marcare una inversione di tendenza inibendo il carcere, e solo il carcere, di fronte a pene suscettibili di futura sospensione in sede esecutiva, si tradurranno in iniziative concrete i propositi di riforma dell’appello e della prescrizione”.

“La politica – ammonisce l’Ucpi – dovrebbe imparare almeno dalla cronaca: se le proposte di abrogare, o comunque ridimensionare, l’appello e di bloccare la prescrizione al primo grado di giudizio fossero già state attuate, tutte le affermazioni di questi giorni sulla bontà del nostro sistema giudiziario sarebbero rimaste nell’armadio della demagogia, perché il processo in appello a Berlusconi non sarebbe stato celebrato. Riformare il sistema – concludono i penalisti – significa farlo progredire non riportarlo all’Ottocento”.

Doc 86 – UCPI_Oss. Carcere – La tortura no

Caso Uva: sei Poliziotti e un Carabiniere a giudizio per omicidio ed altro


Tribunale di VareseAtmosfera di grande tensione ieri nell’aula del Giudice dell’udienza preliminare di Varese, Stefano Sala, nel processo che vede alla sbarra sei poliziotti ed un carabiniere accusati di omicidio preterintenzionale e reati minori ai danni di Giuseppe Uva. Il giovane, allora quarantatreenne, il 14 giugno 2008 fu fermato dai carabinieri mentre con un amico, Alberto Bigioggero, forse per aver bevuto, stava spostando una transenna. Condotto in caserma insieme all’amico, dopo tre interminabili ore, veniva trasportato nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Varese con la richiesta di trattamento sanitario obbligatorio, e lì moriva.

Bigioggero era nella stanza attigua, aveva sentito le grida di dolore di Uva,  chiamato disperato il 118, chiesto aiuto. Ma nessuno sarebbe mai arrivato. Dalla caserma avevano avvertito che era tutto a posto. Solo due ubriachi. Il corpo di Giuseppe è martoriato da botte e lividi, fratture alla colonna vertebrale, forse una sigaretta spenta sul viso e tantissimo sangue. Si apre uno scenario di violenze e di orrore. Bigioggero presenta, il giorno della morte dell’amico, un esposto nel quale denuncia l’accaduto, racconta ciò che ha sentito in quella terribile notte ma il pm Abate lo interroga solo 5 anni dopo e conclude con una richiesta di archiviazione. Un ritardo ed una negligenza che gli costeranno un’azione disciplinare avviata dall’allora Ministro Annamaria Cancellieri. Il Gip di Varese però non ci sta e costringe i pm Agostino Abate e Sara Arduini a formulare a carico di otto agenti, Paolo Righetto, Stefano Dal Bosco, Gioacchino Rubino,  Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Focarelli Barone, Bruno Belisario, Vito Capuano, un’imputazione di omicidio preterintenzionale (oltre a violenza privata, abbandono di incapace e arresto illegale). Uno dei carabinieri sceglie il rito immediato.

Una tumultuosa vicenda giudiziaria durata sei anni approda finalmente davanti al  gup Sala che dopo aver ascoltato le ragioni delle parti civili e delle difese degli imputati, all’udienza del 30 giugno scorso, ha rilevato ambiguità e contraddizioni nelle indagini spesso rivelatesi superficiali e non approfondite e ha disposto la trascrizione della telefonata depositata dalle parti civili (una conversazione tra Lucia Uva, sorella della vittima e Assunta Russo, una testimone che afferma di avere sentito le minacce rivolte a Giuseppe dai carabinieri in ospedale) e l’escussione in aula del teste Alberto Bigioggero.

Il 14 luglio, Bigioggero viene sentito per oltre cinque ore. Interrogato e compulsato dal pm, dalle difese delle parti civili e degli imputati racconta l’orrore di quella notte, espone un dolore che non lo abbandonerà mai, disvela un’impotenza che gli ha lasciato segni eterni. Non ha potuto salvare il suo amico quella notte. Lo sentiva gridare, invocare aiuto dalla stanza accanto ma non ha potuto salvarlo.

Il pm Felice Isnardi, che aveva avocato a sé le indagini ravvisandone incongruenze ed inefficienze, ha infine chiesto che si proceda solo per il reato di abuso di autorità su arrestati, e non per omicidio preterintenzionale, arresto illegale e abbandono di incapace. I difensori della parte civile hanno chiesto a gran voce che ci sia un processo!!!

Dopo tre ore di camera di consiglio, il Giudice ha deciso: tutti gli imputati a giudizio! Il 20 ottobre la prima udienza.

Dopo sei lunghissimi anni, la famiglia di Uva aspetta ancora giustizia e pretende che venga punito chi ha tolto il sorriso a Giuseppe. C’è ancora tempo per sperare, dunque, che si pervenga ad una verità accettabile, che spieghi lividi, sangue, fratture, lesioni.

Avv. Maria Brucale

Il Garantista, 22 Luglio 2014