Spigarelli (Camere Penali): Per Amnistia e Indulto manca il coraggio politico


Giorgio Napolitano cella NapoliSi fa presto a parlare di riforma della giustizia, e della necessità di velocizzare i procedimenti, se poi a Roma i cinquanta metri che separano il tribunale di primo grado dalla corte d’appello vengono percorsi alla bruciante velocità di venti centimetri al giorno. “Ci vogliono otto mesi perché un fascicolo dalla corte d’assise raggiunga la corte di secondo grado”, dice Valerio Spigarelli, l’avvocato che presiede l’Unione delle Camere Penali.

Un modo come un altro per sostenere che il progetto di riforma della Giustizia non vi piace?

Quella proposta non ci sembra una riforma. Nel senso che alcuni dei nodi di struttura della giustizia penale non vengono affrontati: riforma del Csm, terzietà del giudice, rivisitazione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Però l’obbligo di indagare davanti alle notizie di reato è una garanzia di equità.

Lasciare alla discrezionalità degli inquirenti non sarebbe molto più rischioso?

In realtà non è più così. Negli ultimi tempi si sono succedute direttive dei capi degli uffici inquirenti i quali stabiliscono quali reati devono avere priorità, perché evidentemente il sistema non sopporta il carico di lavoro e dunque le procure privilegiano alcuni reati rispetto ad altri, sulla base di scelte autonome.

Con quali conseguenze?

Che la prescrizione, ad esempio, non si matura nella maggioranza dei casi durante il dibattimento, ma negli armadi delle procure, perché lì i fascicoli rimangono bloccati. Credo perciò che dovremmo fare in modo che i criteri di priorità non siano stabiliti “motu proprio” dai singoli uffici. Però nel progetto di riforma questo tema non viene affrontato.

Intanto che si discute e si polemizza, le carceri continuano a sovrabbondare di detenuti e non si vede nell’immediato una soluzione definitiva al sovraffollamento…

In un paese che viene condannato perché riserviamo trattamenti disumani ai detenuti bisognerebbe trovare il coraggio di parlare prima di tutto di amnistia e indulto. Ma alla politica questo coraggio manca.

Qual è l’anello debole del dibattito?

La politica deve tornare ad assumere il suo primato, finché contratta le norme con i magistrati e ne subisce i diktat non andremo da nessuna parte. Ricordo che all’epoca della Commissione D’Alema arrivò un fax da settanta procuratori che intimava di fermare la riforma. E così avvenne. Tornare su questa strada non si può e non si deve. Le leggi in nome del popolo italiano non vanno contrattate.

Anche gli avvocati hanno i loro interessi. E tutto sommato neanche voi siete esenti da colpe. Lo dimostra il moltiplicarsi di casi giudiziari nei quali alcuni suoi colleghi sono coinvolti. Non dovrebbe essere riformata anche la vostra categoria?

Non ho preclusioni a discuterne. Capisco che 250mila avvocati sono troppi. E per far calare questo numero aumentando la qualità occorre una seria riforma dell’Università, istituendo una scuola unitaria delle professioni forensi post laurea per magistrato e avvocato, raggiungendo l’obiettivo di vere specializzazioni.

intervista a cura di Nello Scavo

Avvenire, 18 luglio 2014

Carceri-lager e irragionevole durata dei processi, ora anche l’Onu condanna l’Italia


Trapani 1La “notizia” è di quelle che dovrebbe farci arrossire per la vergogna. Ma ci si può vergognare se si conosce di cosa ci si dovrebbe vergognare. Ma se non si sa? Quello che non si sa – e anche questo non sapere dovrebbe costituire “materiale” di riflessione, amara – è che non sono solo le corti di giustizia europee a condannare il nostro paese per le ignobili condizioni delle nostre carceri, per l’irragionevole durata dei processi, e la non episodica denegata giustizia. Ora siamo nel mirino dell’Onu. Se ne sono accorti solo “Il Manifesto”, “Il Garantista” e la segretaria radicale Rita Bernardini. E dire che le agenzie la “notizia” l’hanno diffusa.

È accaduto che una delegazione dell’Onu guidata dal norvegese Mads Andenas, sia venuta in visita in Italia dal 7 al 9 luglio, e al termine delle loro ispezioni hanno stilato un memorandum in cinque punti: 1) Adottare “misure straordinarie, come per esempio soluzioni alternative alla detenzione, al fine di eliminare l’eccessivo ricorso alla detenzione e proteggere i diritti dei migranti”. 2) “Quando gli standard minimi non possono essere altrimenti rispettati, il rimedio è la scarcerazione”. 3) “Che le autorità italiane rispettino le raccomandazioni Onu del 2008 e quanto statuito dalla sentenza Torreggiani. 4) Raccomandazioni come quelle formulate dal Presidente Giorgio Napolitano nel 2013, incluse le proposte in materia di amnistia e indulto, sono “quanto mai urgenti per garantire la conformità al diritto internazionale”. 5) Sui migranti, oltre ad esprimere rammarico per i “rimpatri forzati”, la delegazione Onu “resta preoccupata per la durata della detenzione amministrativa e per le condizioni detentive nei Centri di identificazione ed espulsione”.

Giustizia al collasso, purtroppo storia di tutti i giorni. Andiamo, per esempio, a Reggio Calabria. È il 7 gennaio del 1984, trent’anni fa. Un’automobile improvvisamente taglia la strada a un autobus, che frena di colpo. Un passeggero cade, si ammacca due costole. Non sembra una cosa grave. Poi però le sue condizioni peggiorano. Sopraggiunge un infarto, l’uomo muore. La famiglia fa causa all’azienda di trasporto. Non si entra nel merito, i famigliari possono avere ragione oppure no, non interessa, qui. Quello che si vuole porre in evidenza è che il processo, anno dopo anno, si è trascinato per trent’anni. La moglie del passeggero nel frattempo è morta, è morta anche la figlia.

Quando finalmente la terza sezione civile della Cassazione ha emesso la sentenza, a “salutarla” c’erano gli eredi degli eredi. Quel processo ha impiegato trent’anni per arrivare in Cassazione. Al tribunale di Reggio Calabria sono occorsi 17 anni per emettere il giudizio di primo grado, arrivato il 25 novembre 2003. La Corte di Appello sempre di Reggio Calabria ce ne ha messi altri nove, la sentenza di secondo grado è arrivata il 10 dicembre 2012.

Trasferiamoci ora in Puglia. È il 2 settembre 2002, solo dodici anni fa. I magistrati della Direzione distrettuale antimafia Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (che poi diventerà sindaco di Bari) chiudono un filone investigativo nato cinque anni prima, con un’ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone, accusate di far parte di un’organizzazione criminale che spadroneggia tra Altamura e Gravina in Puglia; i reati ipotizzati non sono bazzecole: estorsioni, traffico di droga, ferimenti. E tuttavia solo dopo 17 anni il Pubblico Ministero Isabella Ginefra è in condizione di concludere la sua requisitoria. Chiede pene tra i 4 e i 10 anni per 58 imputati. E gli altri? Alcuni sono stati prosciolti, per qualcuno è sopraggiunta la prescrizione, c’è chi è morto per vecchiaia, o perché ucciso da qualcuno di qualche clan rivale. Sono storie che accadono un po’ tutti i giorni un po’ in tutti i tribunali. Non fanno neanche più “notizia”, sono considerate ormai cose “fisiologiche”, parte del “sistema”.

Accadono poi cose che definire paradossali è un eufemismo. Proprio nelle stesse ore in cui il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il ministro della Giustizia Andrea Orlando annunciavano le linee guida della loro riforma della giustizia, il ministero veniva condannato a pagare la doppia penalità. Perché lo stato italiano non si accontenta di essere sanzionato per i danni provocati dall’irragionevole durata dei processi; si fa anche condannare perché i risarcimenti delle cause lumaca sono più lunghi delle cause stesse. “Italia, dolce paese,/ dove chi rompe non paga le spese, / dove chi urla più forte ha ragione,/ dove c’è il sole e il mare blu”, cantava molti anni fa Sergio Endrigo. Patria del diritto; e del suo rovescio.

Valter Vecellio

http://www.articolo21.org, 18 luglio 2014

Decreto detenuti, per la Commissione Affari costituzionali va rivisto il risarcimento di 8 euro


MontecitorioLa Commissione Affari costituzionali della Camera ha invitato la commissione Giustizia a valutare “se i criteri per la determinazione del quantum delle previsioni risarcitorie”, disposte dal dl Detenuti, “siano pienamente rispondenti ai principi stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella richiamata sentenza dell’8 gennaio 2013 (causa Torreggiani e altri contro Italia, ricorsi 43517/09 più altri riuniti) ed al principio di proporzionalità di matrice costituzionale”.

È questa la condizione contenuta nel parere favorevole della I commissione al decreto Detenuti che – tra le altre cose – prevede per le persone incarcerate in condizioni che violano la Convenzione europea dei diritti dell’uomo un risarcimento in termini di riduzione della pena o di denaro (8 euro per ogni giorno di detenzione in condizione “disumane”). Dai resoconti di seduta si capisce come una prima formulazione del parere, proposto dal presidente della I commissione Francesco Paolo Sisto, aveva suscitato le proteste del Pd.

La proposta iniziale di parere – che il deputato Pd Emanuele Fiano aveva chiesto di trasformare in semplice osservazione – si focalizzava non sui “criteri per la determinazione del quantum delle previsioni risarcitorie” (come nel parere poi approvato), ma direttamente sulle “previsioni risarcitorie”.

Fiano, commentando questa prima formulazione, aveva ribadito di ritenere “la misurazione effettuata nel provvedimento congrua rispetto ai dettati della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Subito prima Gianni Cuperlo, membro della commissione Affari costituzionali, aveva annunciato il suo voto in dissenso dal gruppo esprimendo parere favorevole alla proposta di Sisto.

Public Policy, 19 luglio 2014