Nel caso di sospensione dei termini di fase della custodia cautelare il limite del doppio del termine di fase non può essere ulteriormente superato. Lo chiariscono le Sezioni unite penali della Cassazione con la sentenza n. 29956 depositata ieri.
Con la pronuncia si evita che, sia pure nel caso di procedimenti per reati assai gravi come quelli previsti dall’articolo 407 comma 2 lettera a), del Codice di procedura penale (tra cui, l’associazione mafiosa e la strage), si proceda a un’ulteriore proroga dei termini di durata massima della carcerazione preventiva sulla base del comma 3 bis dell’articolo 303 comma 1 lettera b).
La scelta più garantista effettuata dalle Sezioni unite parte da una ricostruzione della genesi della disposizione inserita tra la fine del 200 e l’inizio del 2001 nel Codice di procedura penale all’articolo 303 con l’obiettivo di evitare il fenomeno delle “scarcerazioni facili” che aveva sollevato un particolare allarme nell’opinione pubblica.
Per questo veniva elaborato un meccanismo di recupero della custodia cautelare, possibile ma non utilizzata pienamente in una fase, nella fase successiva. Le Sezioni unite puntualizzano, quanto all’intervento, che non ci trova in presenza di una stratificazione normativa, quanto piuttosto di una modifica complessiva che risponde a un disegno lineare costituito da una flessibilità dei termini di fase, da un aumento recuperabile fino a 6 mesi dei termini di fase per i delitti di maggiore allarme sociale e da un’espressa previsione che l’aumento per le sospensioni non può essere cumulato, nel caso si arrivi al doppio del termine di fase, con l’ulteriore aumento previsto dal n. 3 bis del medesimo articolo 303.
L’insuperabilità assoluta, e non relativa, del limite del doppio del termine di fase è verificata dalla sentenza sulla base della forma stessa della disposizione per concludere che “la frase (dell’articolo 304 comma 6, ndr) ci dice che nel calcolo per verificare l’eventuale superamento del doppio non si deve tenere conto di quell’aumento. È come se l’aumento di 6 mesi non esistesse; il giudice deve calcolare il doppio del termine di fase come se il n. 3 bis nonfosse mai esistito”.
In questo senso, milita, ed è argomento decisivo, anche un’interpretazione costituzionalmente orientata alla luce cioè di quanto stabilito dalla Consulta. Quest’ultima infatti ha avuto modo di chiarire (sentenza n. 299 del 2005) come anche i termini di fase devono, come quelli complessivi, essere ispirati ai principi di proprozionalità e adeguatezza. Inoltre, a volere allargare un po’ lo sguardo, la stessa Convenzione europea dei diritti dell’uomo, pur in assenza di una disciplina sui termini di custodia cautelare, è attenta a sottolineare come la persona sottoposta a detenzione preventiva deve essere giudicata in un “tempo congruo” oppure deve essere liberata. Il sacrificio della libertà personale non può così essere protratto oltre i confini della ragionevolezza.
di Giovanni Negri
Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2014