Speciale Giustizia : Intervista all’Avv. Rosalba Di Gregorio, difensore di Bernardo Provenzano


Avv. Rosalba Di GregorioPrima parte: intervista all’Avvocato Rosalba di Gregorio, difensore di Bernardo Provenzano, ex capomafia, detenuto in regime di carcere duro 41 bis O.P.

Seconda parte: Processo Borsellino quater (Strage di via d’Amelio): udienza del 30 giugno 2014, escussione testimoniale di Gaetano Gifuni (ex Segretario generale della Presidenza della Repubblica)

http://www.radioradicale.it/scheda/415769/speciale-giustizia

 

Bernardo Provenzano in fin di vita. I Radicali chiedono la revoca del 41 bis


Bernardo Provenzano arrestoBernardo Provenzano sta veramente molto male. E se perfino tre Procure della repubblica, quelle di Caltanissetta, Firenze e Palermo, hanno ritenuto si possa revocargli il regime carcerario duro (il 41/bis), io non capisco perchè la politica sia di parere opposto». Rita Bernardini, segretario di Radicali italiani, sta combattendo l’ennesima, solitaria e difficile battaglia di legalità per il più odiato fra i detenuti italiani. Lodevole battaglia, perché diritti e garanzie non sono divisibili, opinabili, differenziabili tra soggetti e soggetti. Eppure il ministero della Giustizia ha finora sempre confermato il regime duro per Provenzano: soprattutto imponendo limiti invalicabili ai colloqui con i suoi familiari.

Il boss mafioso, 81 anni trascorsi per metà in latitanza, condannato a tre ergastoli e in carcere dal 2006, nel 2012 ha tentato il suicidio. Da allora le sue condizioni di salute si sono continuamente e gravemente deteriorate (per questo è da mesi ricoverato nell’ospedale San Paolo di Milano) ed è ormai totalmente inebetito. Del resto, mesi fa Provenzano è stato perfino dichiarato incapace d’intendere e di volere dal tribunale di Palermo, che per questo ha stabilito dovesse essere sospeso il suo stato di imputato nel processo sulla cosiddetta «trattativa tra Stato e mafia», vista la sua impossibilità di partecipare alle udienze.

Ma oggi il boss è praticamente in fin di vita. Anche per questo, da una settimana, Rita Bernardini è in sciopero della fame. La segretaria radicale protesta anche contro l’ultima decisione del ministero della Giustizia. Il 27 marzo il ministro Andrea Orlando aveva negato la sospensione del carcere duro chiesta dall’avvocato del condannato, Rosalba Di Gregorio: «Risulta conclamata oggettivamente la pericolosità del detenuto» aveva scritto allora il Guardasigilli «quale capo indiscusso di Cosa nostra». Eppure la stessa Procura di Palermo aveva segnalato che, pur se effettivamente permane immutata la pericolosità di Provenzano, questi «non è in grado di comunicare compiutamente con l’esterno» a causa delle «condizioni di salute deteriorate».

Oggi pomeriggio si è poi appreso che saranno due medici legali di Milano e un criminologo(chissà perché un criminologo?) a dovere accertare se il boss debba o meno restare in carcere. Il tribunale di sorveglianza di Milano, competente territorialmente in quanto il capomafia ospedalizzato a Milano è formalmente detenuto a Opera, ha nominato i tre periti per verificare le condizioni del padrino di Corleone e se sia possibile un’eventuale sospensione dell’esecuzione delle pene che questi deve scontare.

A indurre i magistrati a valutare una possibile scarcerazione del boss è stato il certificato medico redatto dal responsabile del reparto Medicina 5 dell’ospedale San Paolo (Provenzano è ricoverato nel reparto detenuti del nosocomio milanese). Nel certificato il medico parla di “stato clinico del paziente gravemente deteriorato e in progressivo peggioramento”, di “stato cognitivo irrimediabilmente compromesso” e di “incompatibilita’ con il sistema carcerario”. Il parere del medico è stato inviato anche al Tribunale di sorveglianza che ha fissato un’udienza per l’eventuale differimento della pena.

Il problema è che i periti dovranno pronunciarsi entro il 3 ottobre. E non si capisce perché debbano servire addirittura tre mesi per la pronuncia: «Ma chissà se Provenzano sarà ancora vivo il 3 ottobre», chiosa con una nota di pessimismo l’avvocato Di Gregorio. E aggiunge: «Questa decisione mi sa tanto di rinvio, nella speranza che il condannato tolga il disturbo da solo».

Dichiarazione di Rita Bernardini, segretaria dei Radicali Italiani:

Con il sostegno di Marco Pannella e di almeno 150 cittadini, questo è per me il settimo giorno di sciopero della fame finalizzato ad interrompere la tragedia delle morti in carcere e la mancanza di cure che riguardano anche reclusi incompatibili con il regime di detenzione carceraria. Fra queste migliaia di casi è incluso anche il caso dell’ottantenne boss di cosa nostra Bernardo Provenzano che si trova ristretto in regime di carcere duro (41-bis) pur essendo incapace di intendere e di volere e con patologie gravissime. Sebbene sia ridotto al lumicino, leggo che il tribunale di sorveglianza di Roma ha rimandato la decisione sulla revoca del 41-bis al 3 ottobre, abbondantemente superate le ferie estive. In questo modo, una parte della magistratura e lo stesso ministero della giustizia, si contrappongono al giudizio di tre procure della repubblica (Palermo, Caltanissetta e Firenze) che si sono invece pronunciate per la cancellazione del “carcere duro” per Provenzano. Ma non solo. Abbiamo istituzioni che, quanto al rispetto di diritti umani fondamentali, si pongono allo stesso livello di criminalità di coloro che affermano di voler combattere.

Maurizio Tortorella

Panorama, 04 Luglio 2014

Carceri inumane e processi infiniti. Pannella continua la battaglia !


marco-pannella-6402Giacca anni Ottanta con spalline e bottoni di metallo, camicia portata fuori, jeans, cravatta a macchie di colori sgargianti, tratti approfonditi dall’età, codino incanutito; e poi, frasi ellittiche, il soggetto che scompare per riemergere dopo cinque subordinate, ricordi affioranti, nomi di cinquant’anni fa, buttati lì, come se tutti avessero il dovere morale di conoscerli.

Anche a Padova, ieri pomeriggio, Marco Pannella ha dato spettacolo di sé, della propria cultura e del proprio impegno civile. Intervistato dal direttore del “Corriere del Veneto”, Alessandro Russello, ha parlato soprattutto dei temi che gli stanno più a cuore, e cioè quelli legati alla privazione dei diritti dei detenuti, e alla durata irragionevole dei processi; ma qualcosa di “local” alla fine lo ha detto.

Per esempio, ce l’ha con gli indipendentisti, i Veneti come i Catalani. A suo giudizio, “c’è una speranza contro l’esplosione dei nuovi nazionalismi, quelli che operano su scala provinciale, e che costituiscono un effetto della crisi economica: l’esempio del Dalai Lama (autorità spirituale del buddismo nonché, fino al marzo 2011, capo del governo tibetano in esilio; ndr)”.

Sempre secondo Pannella, infatti, il Dalai Lama avrebbe “rinunciato all’indipendenza del Tibet dalla Cina; punta, invece, a democratizzare gli oppressori”. Che poi sono i Cinesi della Repubblica Popolare, che occupa, manu militari, Lhasa dal 1959. “Ora – ha continuato Pannella – i tibetani chiedono autonomia, tanto che han preso a modello lo Statuto del Trentino Alto Adige”.

Altro tema riconducibile al Veneto, quello della corruzione. Sì, perché c’è l’Expo, con i soliti imprenditori e la solita classe dirigente, ma c’è anche il Mose. “Finché in questo Paese regna indisturbata l’anti-democrazia – ha spiegato Pannella – non se ne esce. Solo con una democrazia autorevole si può fare qualcosa”. E, per Pannella, la democrazia vera, da noi, non c’è, perché i diritti sono calpestati. In Italia “c’è continua strage di legalità”.

Se ne era già parlato alla conferenza stampa organizzata dal partito Radicale, di cui Pannella, classe 1930, è stato tra i fondatori nel 1955. In questo contesto, l’avvocato Olga Lo Presti del foro di Padova ha descritto la disciplina della legge Pinto per richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale 0 non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo. “Il fatto è che i casi di ricorso, sia nel civile che nel penale, aumentano esponenzialmente”. Secondo in radicali, va peggio in altre cose: “In Italia – secondo il segretario nazionale del partito Rita Bernardini – c’è la tortura.

In carcere si sperimenta la degradazione. Chi è detenuto ha la certezza che tra il 60% e l’80% dei casi si ammalerà in carcere, per infezioni ed altro”. Secondo Pannella sono “temi rispetto ai quali l’attuale premier Matteo Renzi è perfettamente disinteressato. Non gliene importa niente: sono temi scomodi, non portano consenso, e lui è sempre in tv. Era più interessato Berlusconi”.

Un esempio è il caso di Bernardo Provenzano, criminale, dal 1995 al 2006 capo di Cosa Nostra. “Ora è incapace di intendere e di volere. Non riconosce i figli. Ma per la burocrazia deve morire in carcere. Ora: la Chiesa ha abolito l’ergastolo. Renzi no. L’ho incontrato in stazione, a Firenze, e gli ho chiesto se firmava i nostri referendum. Mi ha risposto che per questioni come queste c’è la Camera”.

Marco De Francesco

Corriere del Veneto, 07 Luglio 2014

“Taci Di Persia, sei un pessimo magistrato e una soubrette, un uomo di un’arroganza demenziale” Francesca Scopelliti


Felice Di Persia - Magistrato«Quando Di Persia fu eletto al Csm dopo aver condannato Tortora, l’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, si rifiutò di stringergli la mano. Per Di Persia parla la storia». Raggiunta al telefono da Il Garantista Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora nel suo calvario giudiziario prima, e nelle file dei Radicali poi, non riesce a capacitarsi. L’intervista che Felice Di Persia, il titolare dell’inchiesta che mise alla sbarra Enzo Tortora, ha concesso al Velino a proposito della condanna di Tortora, e delle scuse di Diego Marmo rivolte ai familiari del presentatore dalle nostre colonne, la lascia una volta di più esterrefatta.

Dopo Diego Marmo, che ha rotto il lungo silenzio per fare le scuse ai familiari, anche Di Persia ha deciso di parlare. Che cosa ne pensa delle sue dichiarazioni?
Penso che quanto meno, anche se non posso accettarle perché tardive e insufficienti, Marmo ha fatto le sue scuse. Spero che gli siano utili a pacificarsi con la sua coscienza. Di Persia, visto quello che ha detto, ha perso invece un’ottima occasione per tacere. Sarebbe stato più dignitoso per lui restare in silenzio.

Che cosa l’ha turbata più di tutto delle dichiarazioni di Di Persia?
Di Persia ha confermato ancora una volta quello che allora apparve evidente a tutti: c’era il progetto di crocifiggere Tortora. C’era un piano, studiato a tavolino per fare di Enzo il condannato eccellente, da dare in pasto all’opinione pubblica in nome della vanità e dell’esibizionismo.

Colpisce molto, nell’intervista concessa, la maniera in cui Di Persia commenta la sentenza di assoluzione di Tortora. ”Non ritennero le prove raccolte idonee a una condanna: questo fa parte della fisiologia del processo. Dunque non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura”.
Sono parole che si commentano da sole. Di Persia non è disposto a tornare indietro, si arrocca nelle posizioni di trent’anni fa e in buona sostanza rivendica l’assurda pretesa di avere avuto ragione a perseguitare un innocente. Una questione di soubrettizzazione.

Che cosa intende di preciso?
Basterebbe guardare i titoli e i giornali di allora per comprendere quali benefici mediatici si sono assicurati quelli come Di Persia. Si facevano ritrarre in atteggiamenti sportivi, come piccoli eroi da rotocalco o moderne soubrette. Erano diventati personaggi pubblici grazie alla persecuzione di un personaggio pubblico vero, amato, da scagliare nella polvere e umiliare.

Di Persia dichiara a un certo punto che “Marmo c’entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell’accusa”.
È una chiosa che aggrava ancora di più la sua posizione e che ribadisce quello che ho sempre detto. Mi fa piacere che dopo trent’anni anche Di Persia concordi con me: fa passare il pubblico ministero di quel processo come il commediante di un’enorme farsa. Esattamente quello che ho sempre pensato.

Di Persia ha invitato tra l’altro Marmo, a suo dire ”il primo magistrato pentito della storia” ad autocancellarsi dalla vita sociale per dimostrare il suo pentimento.
È una frase dal sen sfuggita, del tutto rivelatrice di una mentalità castale che tratta Marmo alla stregua di un pentito da isolare secondo la tipica mentalità del clan. Allora ci fu perfetta concordia tra pm e giudici istruttori. Lucio Di Pietro e Felice Di Persia inchiodarono Tortora. E ora che qualcuno ha fatto un passo indietro, si è rotto il sacro sigillo di quella istruttoria che ancora Di Persia difende senza un briciolo di rimorso.

Ha infatti specificato che non ci furono errori giudiziari nella sua inchiesta. E che l’assoluzione di Tortora fa parte della dialettica processuale. Nessun cenno al carcere e alla malattia di Tortora. Ha definito l’assoluzione del presentatore come parte della “fisiologia del processo”.
Espressioni di questo genere dicono ancora una volta di quanta demenziale presunzione è nutrito il personaggio di Di Persia. Più delle mie considerazioni, valgono le moltissime pagine che spinsero i giudici dell’appello a spazzare via menzogna dopo menzogna, il castello di carte costruito da Di Persia e Di Pietro.

Di Persia rivendica ancora la correttezza del suo operato. Nessun rammarico, sembra.
Erano eccitati dal brivido di incastrare un personaggio noto ed amatissimo da 26 milioni di persone. In nome di questo progetto ne sacrificarono sull’altare la sua innocenza per ergersi a giustizieri e prendersi le luci della ribalta. Se non fosse così protervo e arrogante, Di Persia dovrebbe aprire il dispositivo di sentenza e rileggersi parola dopo parola, le prove dell’assurdità delle sue invenzioni. Lo spiega la sentenza d’appello quale fu la qualità del lavoro di Di Persia.

Si riferisce alla famigerata ”nazionale dei pentiti”?
Costruirono un’accusa fondata su calunnie ed infamie, alcune persino ridicole come quelle di Margutti e della valigetta di droga. È la sentenza dell’appello che meglio di me ha espresso quali considerazioni si possono fare sull’operato di Di Persia. Fu un pessimo magistrato che sparò nel mucchio e lavorò all’ammasso: colpevoli e innocenti nello stesso calderone indistinto.

Che cosa le ha raccontato di lui Enzo Tortora?
Le riferisco soltanto un piccolo particolare. Spesso, al termine di estenuanti interrogatori, Di Persia guardava Enzo negli occhi e gli sibilava: «Buona fortuna». Gli lasciava intendere che l’avrebbe stritolato. Era come mi scriveva Enzo dal carcere: “Questi, per salvarsi la faccia, fottono me”. È quello che fecero.

Nell’intervista, Di Persia dà a Marmo del ”magistrato pentito”. È come se l’ex procuratore, con le sue scuse, avesse rotto una sacra alleanza. Un gesto umano, che dal resto della casta viene letto come una sorta di tradimento, il primo della storia.
La reazione di Di Persia spiega meglio di molti ragionamenti perché è impensabile sperare che i magistrati possano autoriformarsi da soli. Ma allo stesso tempo, come è evidente da anni, è piuttosto ingenuo pensare che la politica possa giungere a un’autentica riforma. Il Parlamento vive sotto ricatto. E l’intervista di Di Persia è l’ennesimo capitolo di una storia di sacro terrore verso un potere assoluto e intoccabile, che si chiama magistratura italiana.

Francesco Lo Dico

Il Garantista, 07 Luglio 2014

Ottaviano Del Turco: “Io Torturato come Enzo Tortora”


On. Ottaviano Del TurcoOttaviano Del Turco è un uomo che sa sorridere. Vive una delle più incredibili vicende giudiziarie degli ultimi anni. Eppure non smette di scorgere nelle cose il loro verso paradossale. Solo così può accarezzare la vita che a un certo punto lo ha sottoposto a una prova terribile. «Nessuno può avere idea di cosa sia un processo come il mio, se non ci sta dentro. Solo da dentro si vedono tutti i dettagli di una tortura processuale come quella che ho vissuto, anche quelli piccolissimi». Non sono stati anni da incorniciare, questi ultimi sei, per Del Turco. Ma l’ex numero due della Cgil («l’immagine a cui tengo di più»), che è stato anche segretario del Psi, parlamentare antimafia, ministro e poi presidente dell’Abruzzo, questo signore contro il quale sei anni fa ci si è avventati con gli artigli della ferocia forcaiola più cieca, non smette di amare i suoi quadri, di passeggiare per la sua Collelongo, di gustarsi la solitudine che è anche benefico distacco. Né gli costa fatica raccontare i dettagli anche paradossali e comici della sua odissea processuale. Un pezzetto di questa storia è riemerso in tempi recenti: qualche settimana fa (il Garantista ne ha parlato domenica scorsa), i Pm di Chieti hanno spiegato ai giudici dov’era andato a finire il “tesoro” dell’uomo che accusa Del Turco: Vincenzo Angelini, ex re delle cliniche abruzzesi, la cosiddetta gola profonda che ha raccontato la storia delle tangenti scambiate con sacchi di mele, un uomo accusato di bancarotta per cifre colossali, avrebbe trasferito la bellezza di 100 milioni di euro alle Antille Olandesi. La Procura spiega di aver trovato le “contabili”, cioè le prove certe. Era tutto nell’hard disk di un commercialista, un certo Marco Rovella. Un uomo così pieno di sorprese, Angelini, uno che secondo l’inchiesta di Chieti avrebbe fatto fallire un impero di cliniche private per mettere da parte 100 milioni ai Caraibi, ha goduto di una considerazione assoluta da parte dei giudici di Pescara. Gli hanno creduto e hanno condannato Del Turco in primo grado a 9 anni e 6 mesi. «Quasi come Tortora», fa notare l’ex governatore, uno dei pochi passaggi in cui la voce si fa un po’ più arrabbiata.

Senta Onorevole, è chiaro che non ci sono certezze. Non ce ne sono della sua colpevolezza, non possiamo dire di averne neppure del supposto magheggio caraibico di Angelini. Ma le è mai passato per la testa, in questi anni, che dietro le accuse potesse nascondersi un presunto tesoro?

È stato evidente fin dall’inizio.

Evidente a chi?

A me che gli avevo fatto le leggi contro.

Quali leggi?

Prima che diventassi presidente della Regione, Angelini, proprietario di un gruppo come Villa Pini, stracolmo di convenzioni, riceveva i rimborsi a pie’ di lista. Diceva di aver erogato prestazioni per un determinato costo, e la Regione pagava.

Poi cos’è successo?

Che le delibere della mia giunta e le leggi approvate in Consiglio regionale hanno messo fine a quella follia. Ed evidentemente gli hanno creato dei problemi.

L’ha accusata per questo?

No. Angelini è stato passato al setaccio dal Nas dei carabinieri alcuni mesi prima che io fossi arrestato. Ai pm l’Arma ha detto: questo signore andrebbe arrestato. Nel momento in cui la Procura di Pescara comincia a mettere sotto torchio Angelini, una perizia accerta che 60 milioni del suo patrimonio sono già stati trasferiti dai conti delle cliniche ad altre imprecisate destinazioni.

Cosa gli succede?

Il procuratore capo Trifuoggi gli dice che tutto appare incomprensibile se non lo si ricollega a un meccanismo esiziale di concussione. Gli dice: lei questi soldi li deve accantonare per la politica, è l’unica spiegazione.

E lì Angelini fa il suo nome.

Macché. Dichiara di non aver mai pagato nessuno. È tutto negli atti processuali, questo scambio tra la Procura e Angelini. Trifuoggi insiste. Cerca di far capire ad Angelini che se lui fa i nomi di chi lo ha concusso rende un grande servizio alla Giustizia.

E quindi lui fa i nomi degli amministratori.

E nemmeno. Se ne torna a casa sua. Parla con il suo avvocato, evidentemente. Dopo 8 giorni si ripresenta in Procura e dice: sono stato concusso. Ho pagato tangenti. Solo a Del Turco ho dato oltre 5 milioni e mezzo.

Questo porta al suo arresto, il 14 luglio del 2008.

Il giorno dopo avremmo approvato una circolare, già pronta. Avrebbe reso ancora più stringenti i criteri per pagare le strutture convenzionate con la sanità regionale.

Quanto tempo ha passato in carcere?

Ci sono stato fino al 28 luglio. Poi sono passato ai domiciliari. Quindi alla fase più umiliante, quella dell’obbligo di dimora. Un confino. Quando avevo bisogno di muovermi dalla mia Collelongo per andare a Roma dovevo chiedere un permesso al gip. Poi avevo bisogno di un’autorizzazione anche per tornare a Collelongo. Di fatto sul Raccordo anulare ero una specie di evaso.

Adesso è in attesa dell’Appello. Secondo il suo avvocato difficilmente se ne parlerà prima del 2015. Nel frattempo è libero.

Ma preferisco confinarmi da solo, a questo punto, a casa mia a Collelongo. Faccio una passeggiata la mattina, prendo un caffè. Una partitella a carte. Poi torno, cerco di non stancarmi. Ho un linfoma. Un tumore non dei più aggressivi, per fortuna. Da alcuni anni sono in cura dal professor Mandelli. E ho smesso di tenere la testa sempre nelle carte del processo.

All’inizio ha studiato come se avesse dovuto difendersi da solo.

Poi i medici mi hanno detto: quello che le hanno fatto passare ha colpito le sue cellule. È come se i segni della sofferenza si vedessero al microscopio, capisce?

Cosa si aspetta dal processo di Appello?

L’assoluzione. E basta. Non voglio le scuse. So che proprio il Garantista ha pubblicato le scuse di Marmo alla famiglia Tortora. Non mi interessano. Le scuse le chiedono i magistrati che smettono di fare i magistrati.

Alla fine lei non è stato condannato per concussione.

No. Dopo l’escussione di 140 prove testimoniali tutte chiamate a suffragare la tesi della concussione, all’ultimo minuto è cambiato il capo d’imputazione. Senza che tale ipotesi fosse mai stata avvalorata da un solo testimone. Questo naturalmente è tra i motivi dell’istanza di Appello.

Peseranno anche i 100 milioni trovati alle Antille che, secondo la Procura di Chieti, costituirebbero il tesoro di Angelini?

Possono rafforzare il quadro già abbastanza chiaro emerso nel primo grado. Ma non saranno decisivi.

Cosa ha pensato di fronte alla notizia dei 100 milioni?

Che probabilmente ce ne sono altri. Angelini tende ad accumulare soldi. E ne pretende sempre, anche quando non ne ha diritto.

Cosa intende dire?

Le faccio un altro esempio. Vincenzo Angelini è uno che compra di tutto. A casa aveva centinaia di paia di scarpe, centinaia di magliette Lacoste tutte dello stesso colore. È stato intercettato dai vigili urbani mentre cercava di portar via da casa scatoloni pieni di cose così. Alcuni antiquari romani possono raccontare di aver venduto ad Angelini mobili di grandissimo pregio e valore che non sono mai stati ritirati. Li ha comprati, li ha pagati, ma li lascia lì. A deperire nei depositi. Nelle udienze del processo è capitato che Angelini cominciasse a urlare senza motivo, o che girasse i tacchi e se ne andasse all’improvviso. Tutti questi episodi non hanno mai messo in discussione la sua attendibilità.

Anche lei ama i quadri.

<+tondo>Me li vendo. Quelli che ho se ne vanno, uno dopo l’altro. Li vendo per vivere, per pagare gli avvocati. Ho speso decine di migliaia di euro, per difendermi. A casa avevo, ne ho ancora qualcuna, opere di grandi maestri, di alcuni di loro sono stato amico. La pittura per me è tutto. Ma devo vendere i quadri. Ne ho venduti di Schifano, di Guttuso.

Lei è stato tra i fondatori del Pd. Da quel partito le arrivano attestati di solidarietà?

Quasi mai. Tra un fragile impianto accusatorio e un vecchio militante hanno scelto la Procura.

Perché? Paura?

Sì, paura. Ne sono convinto.

Perché le è successo tutto questo?

Perché ho tagliato i costi della sanità. Perché chi ha governato la Regione dopo di me ha potuto completare il rientro dal dissesto grazie alle mie leggi. Perché mi sono messo contro i potenti. Toto, per esempio, il fondatore di Air One. Gestiva in società con Benetton la Autostrada dei Parchi, la Pescara-Roma. Una sera con una nevicata terribile tralasciano di spargere il sale. Muoiono cinque persone, altre centinaia di abruzzesi a pochi chilometri da Roma trovano i caselli chiusi e sono costretti a tornare indietro. Ha trattato quel manto stradale come se fosse la robba di Mazzarò. Lo attaccai con grande durezza.

Qual è il limite più grave della giustizia italiana?

Nel ’93 i processi di Mani pulite hanno messo in moto la valanga che avrebbe travolto il sistema delle garanzie processuali. Ma non ci metto più la testa. Devo avere rispetto per la mia salute, ora.

Errico Novi

Il Garantista, 06 Luglio 2014

Caso Tortora, Il Pm Di Persia da al collega Marmo del “pentito”. Un’occasione persa per tacere !


Enzo TortoraAnche lui da molti anni non parlava della condanna inflitta a Enzo Tortora. E che Felice Di Persia abbia voluto rompere il lungo riserbo sulla vicenda, è un dato che andrebbe accolto con favore. Non fosse che l’intervista rilasciata alVelino è un’occasione perduta. Allora titolare, insieme con Lucio Di Pietro, dell’inchiesta che portò Tortora alla sbarra, Di Persia avrebbe potuto fare ammenda per un’inchiesta che portò al più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana. Ferma la buona fede, la toga avrebbe potuto chiarire anche lui perché senza prove di bonifici, controlli bancari, pedinamenti e intercettazioni montò un castello di carte che fece finire in gattabuia il presentatore di Portobello sulla base delle dichiarazioni di pentiti farlocchi che sono costate la vita, a detta di Francesca Scopelliti, ma senza lo stupore di nessuno, a quel galantuomo di Enzo Tortora. Ma l’unico pentito verso il quale l’ex magistrato sembra puntare il dito è invece Diego Marmo.

«Ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che si è pentito con trent’anni di ritardo», chiosa Di Persia.  Ma nell’intervista che l’ex procuratore di Torre Annunziata ha dato al Garantista, è palese che sono solo ed esclusivamente le scuse ad essere arrivate in ritardo di trent’anni. “Il rammarico – ha spiegato l’ex pm al nostro giornale – c’era da tempo”.  Felice Di Persia, però, concede a Marmo il lusso di una seconda ipotesi accusatoria. «Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna – continua Di Persia – doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve autocancellarsi dalla vita sociale”. ”Autocancellarsi dalla vita sociale”, dice Di Persia. Che forse sarebbe a dire chiudersi in qualche eremo a recitare il penitentiagite per dimostrare l’autenticità del rammarico.

È proprio in questa sottile e violentissima fatwa, che la magistratura appare incapace di sincero cordoglio e capacità di autoriformarsi. «A quanto pare – commenta Di Persia – Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana. In questo caso, come fanno i pentiti, dia riscontri chiari alle sue tesi. Perché ha chiesto la condanna di Tortora? Spero lo faccia, ma non rifugiandosi però nel nome di qualcuno che non può smentirlo perché morto». Marmo è trattato insomma alla stregua di un pentito che il clan pretende di allontanare dal cerchio magico per vendetta. Marmo è il reprobo dal quale si pretende di estorcere, a dimostrazione di un sincero disagio interiore, la colpa assoluta e annichilente dell’autoesclusione sociale. Non se ne comprende invece il rammarico che chi scrive, insieme a pochi come Ambrogio Crespi, reputa sincero. Di quelle scuse alla famiglia, di quelle poche note che con molta discrezione Marmo ha affidato a Il Garantista a proposito del processo, si sottolinea nient’altro che la perversa intenzione di tirarsi fuori dalla melma. Ma la vera angoscia che forse generano le scuse di Marmo, inammissibili, spiazzanti e meravigliose, è la paura di restare ammollo al sangue innocente di Tortora. Un aspetto che Diego Marmo, ancora avvezzo a decriptare messaggi in codice, non trascura di cogliere nelle dichiarazioni che affida al nostro giornale. «Nella mia intervista a Il Garantista che peraltro Di Persia dice di non aver letto con precisione – ci scrive l’ex procuratore di Torre Annunziata – non ho accusato nessuno. Mi sono limitato soltanto a dire quali erano stati i ruoli dei singoli partecipanti».

Le dichiarazioni che Felice Di Persia ha rilasciato a Il Velino, sono la prova inconfutabile che le scuse di Diego Marmo alla famiglia Tortora hanno scavato un solco profondo nella coscienza dei protagonisti di quella storia giudiziaria, e nell’autopercezione che ha di se stessa la magistratura italiana. Intoccabile, unita come un sol uomo, sacerdotale, la casta dei giudici sembra di colpo cominciare a ruzzare dentro la piccola stia dei risentimenti. Le scuse del Grande Inquistore italiano,  dell’ “assassino morale” di Tortora che solo su di sé aveva attratto i fulmini della storia lasciando all’asciutto tutti gli altri carnefici, devono avere mosso qualche disagio negli altri complici della “congiura”. «Le mie scuse sono vere. Se arrivano con ritardo bisogna anche considerare che il tempo fa maturare, in molti casi. Per porgerle, d’altra parte, ci doveva anche essere l’occasione», ci scrive Diego Marmo. Come bene ha detto Ambrogio Crespi su queste colonne, il tempo della rivoluzione è arrivato. E reca in effigie il volto di Torquemada.

Francesco Lo Dico

Il Garantista – 06 Luglio 2014