Giustizia: da Bruti Liberati… a Tamburino, il Gotha della magistratura “a casa” per decreto


Giudici cassazioneBen 445 toghe su 9.410 oggi in servizio. Tante, con il decreto Renzi sul taglio dell’età pensionabile, se ne andranno “a casa” in tre anni. Quasi il 5 per cento, numero certamente significativo. È il Gotha della magistratura.

I capi più prestigiosi degli uffici. I vertici più famosi di Milano, Torino, Venezia, Bologna, Firenze, Genova, Napoli, Bari, Palermo. I nomi? Uno più noto dell’altro: Maddalena (Torino), Canzio con Minale, Pomodoro e Bruti Liberati (Milano), Calogero (Venezia), Lucentini e Branca (Bologna), Drago e Tindari Baglione (Firenze), Bonajuto (Napoli), Savino (Bari), Guarnotta (Palermo).

Ma via anche famosi Magistrati di Sorveglianza, l’uscente del Dap Tamburino, il giudice dell’esecuzione di Berlusconi Nobile De Santis, quello del caso Franzoni Maisto. E tanti altri in città più piccole. Poi un colpo alla Suprema Corte che ha fatto gridare alla decapitazione il sempre prudente e ovattato presidente Santacroce.

Lì, i freddi numeri del Csm, che da ieri figurano in bell’ordine nelle tabelle dell’ufficio statistica di palazzo dei Marescialli, dicono che solo quest’anno vanno a casa 42 super toghe con funzioni direttive, parliamo praticamente di quasi tutti i presidenti di sezione, quelli che oggi decidono sentenze che segnano la giurisprudenza in Italia.

Non basta, sempre in Cassazione, ci sono anche 26 giudici col piede sulla porta. E nei prossimi due anni, se il tetto resta a 70 anni senza deroghe per chi non è un capo, vanno in pensione altri 30 magistrati del “palazzaccio”. Per la Corte, se le sostituzioni tardano come inevitabilmente tarderanno ad arrivare, potrebbe essere la paralisi. Per gli altri uffici italiani c’è il rischio serio di vederli senza dirigenti per un bel po’. I numeri, innanzitutto.

Oggi, in Italia, i palazzi di giustizia sono “comandati” da 427 magistrati con funzioni direttive e 730 vice. Bene. Con il decreto Renzi – stop all’ingresso in pensione a 75 anni, ci si va a 70, unica deroga per i capi attuali fino al dicembre 2015 – sono costretti a lasciare la toga, tra chi compie 70 anni quest’anno, 142 capi e 68 vice, oltre a 96 giudici con funzioni ordinarie. Ovviamente, bisogna guardare anche a chi compie 70 anni il prossimo anno e quello successivo. Nel 2015 arrivano al tetto della nuova età pensionabile 23 capi e 20 vice (27 gli ordinari). L’anno successivo ecco altri 26 capi, 16 vice, 23 magistrati ordinari.

Che sommati ai primi 308 ci porta alla cifra totale di 445. Di questi solo 210 potranno usufruire della speciale deroga per rimanere in servizio l’anno prossimo. Ma, per la magistratura, non è solo una questione di numeri, ma soprattutto di facce. E di procedure complesse non solo per diventare una toga, ma per essere promosso.

Per questo la categoria è in profondo allarme. La speranza delle toghe è che il decreto, durante la fase di conversione alla Camere, sia cambiato. Il primo referente è il Guardasigilli Andrea Orlando che, durante la fase di discussione sul decreto, si è dimostrato una colomba rispetto ai falchi. Lui ipotizzava quella gradualità nell’entrata in vigore – ogni anno, da qui in avanti, ne aumentava uno dell’età pensionabile – che avrebbe evitato “la brusca decapitazione”.

Di questo parlano al Csm, mentre guardano le tabelle fresche degli uffici, i presidenti della commissione per gli incarichi direttivi Roberto Rossi e di quella per le riforme Riccardo Fuzio. Dice il primo: “Il principio è giusto, ma realizzato così pone dei problemi organizzativi che rischiano di paralizzare il Csm e la stessa macchina della giustizia”.

Rossi si è concentrato soprattutto sui capi delle città più importanti e il prospetto che ha sotto mano è desolante. Città come Torino, Milano, Bologna, vedono cadere d’un colpo presidente di corte di appello, procuratore generale, presidente del tribunale, capo della procura. Nel decreto è scritto che la sostituzione deve essere accelerata. Rossi lo ritiene impossibile: “Innanzitutto ho già dovuto bloccare concorsi in attesa che il decreto sia convertito. Poi questo consiglio sta per scadere e dovrà arrivare quello nuovo. E poi, con una norma del genere il contenzioso amministrativo salirà alle stelle”.

L’unica speranza è che il decreto “ammazza uffici”, com’è ormai stato ribattezzato qui al Consiglio, venga cambiato. Il presidente della Cassazione Giorgio Santacroce, che di diritto fa parte del Csm, ha già avviato un monitoraggio. Una mano importante potrebbe arrivare dal Quirinale, visto che il presidente della Repubblica è il capo del Csm e che al Colle lavorano toghe che conoscono bene sia la Cassazione, come l’ex presidente Ernesto Lupo, oggi consigliere giuridico del capo dello Stato, e Stefano Erbani, ex dell’ufficio studi del Csm. Dove il battage anti-decreto è molto forte.

Si è mosso Fuzio, che ha chiesto e ottenuto di poter esprimere subito un giudizio tecnico sul decreto. Lui è di Unicost, ma lo appoggia tutta la sinistra di Area (Cassano, Borraccetti, Carfì, Vigorito, Rossi)che ieri ha sollecitato una discussione rapidissima del decreto, visti anche i tempi ormai stretti che restano al Consiglio. Da Milano, una toga esperta di organizzazione giudiziaria come Claudio Castelli, per anni in via Arenula e ora al vertice dell’ufficio dei gip, scrive nelle mailing list che “un obiettivo in astratto condivisibile viene perseguito in modo gravemente sbagliato”. Lui vede solo conseguenze negative, le stesse che a Roma enuclea Rossi, “l’improvvisa scopertura degli organici dove già oggi c’è un deficit del 12,4%, un concorso accelerato che non consentirebbe una seria selezione, comunque una pensione che resta un miraggio per le giovani toghe”. Per questo, a Roma, Fuzio non dà tregua sul decreto: “Devono cambiarlo, non può restare così, c’è anche il rischio di una ricaduta sui processi in corso”. Una frecciata alla politica e a Renzi che, in questa veste, sarebbe un normalizzatore.

di Liana Milella

La Repubblica, 17 giugno 2014

Carceri, Corleone : Meno male che il Pm Gratteri non è diventato Ministro della Giustizia


Franco CorleoneA leggere i resoconti dell’intervento svolto dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri il 5 giugno davanti alla Commissione diritti umani del Senato sull’applicazione del regime penitenziario per gli appartenenti ai vertici delle organizzazioni mafiose, si tira un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo di avere questo pubblico ministero ministro della giustizia.

L’analisi di Gratteri sul funzionamento del 41bis è stata davvero a tutto campo. Ha contestato la distribuzione dei 750 detenuti in regime di carcere duro in 12 istituti, con i rischi di interpretazioni diverse da parte dei direttori delle norme e ha individuato la soluzione nella costruzione di 4 nuovi carceri dedicati allo scopo con 4 direttori specializzati.

Gratteri si è domandato anche la ragione della chiusura negli anni novanta delle carceri di Pianosa e dell’Asinara, auspicando la loro riapertura con questa destinazione. La mancanza di memoria storica è davvero una maledizione, perché attribuisce scelte motivate e dibattute a pura casualità o superficialità.

Va ricordato che la scelta di chiudere le carceri speciali fu dovuta al rifiuto doveroso da parte dello stato democratico di sopportare condizioni di violenza inaudita e di gestioni paranoiche da parte di direttori immedesimati nella parte di vendicatori e aguzzini. Si vuole tornare a quella pratica di tortura appena ora che l’Italia ha evitato una condanna definitiva per violazione dell’art. 3 della Convenzione dei diritti umani da parte della Cedu per trattamenti crudeli e degradanti? Va riconosciuto al procuratore anti ‘ndrangheta di avere proposto una diminuzione dei detenuti a regime speciale a 500 per una applicazione seria affidata al Gom, il reparto specializzato della Polizia Penitenziaria, potenziando i controlli anche durante i colloqui. Infatti “nel momento in cui c’è un colloquio bisogna guardare la mimica facciale, i segni che il detenuto fa ai parenti con braccia e mani”.

A questo proposito il procuratore ha invitato il legislatore ad intervenire su un vuoto enorme, cioè il caso della moglie del detenuto che è anche avvocato, perché in quel caso il colloquio non si può registrare. Non è chiara la soluzione proposta: obbligare a cambiare avvocato (comunque i colloqui non sarebbero registrati) o a divorziare? Nell’incertezza si legge anche che alla mancanza di personale esperto si può ovviare con il trasferimento di militari dell’esercito adeguatamente formati e comunque diminuire il numero sovrabbondante di agenti della polizia penitenziaria presenti in via Arenula, la sede del ministero della giustizia.

Il culmine dello slancio riformatore si è espresso sulla questione del lavoro per i detenuti. “Io sono per i campi di lavoro, non per guardare la tv. Chi è detenuto sotto il regime del 41 bis coltivi la terra se vuole mangiare. In carcere si lavori come terapia rieducativa. Occorre farli lavorare come rieducazione, non a pagamento. Se abbiamo il coraggio di fare questa modifica, allora ha senso la rieducazione. Farli lavorare sarebbe terapeutico e ci sarebbe anche un recupero di immagine per il sistema”.

Ci vorrebbe davvero un bel coraggio a fare strame delle norme penitenziarie europee, delle sentenze della Corte Costituzionale, della legge Smuraglia e della riforma penitenziaria del 1975, peggiorando addirittura il Regolamento di Alfredo Rocco del 1932! Nei resoconti dell’audizione non si leggono le reazioni dei commissari. Il silenzio glaciale appare la risposta adeguata. Di fronte a simili derive è il caso che il ministro Orlando avvii subito le procedure per la nomina del garante nazionale dei diritti dei detenuti.

di Franco Corleone

Il Manifesto, 18 giugno 2014

Arezzo: Sappe; detenuto ai domiciliari chiede di tornare in carcere “non ho da mangiare”


Carcere-634x396“Ad Arezzo, un detenuto di 33 anni nato a Napoli e residente a Foiano della Chiana, che stava scontando la pena agli arresti domiciliari, ha chiesto di tornare in carcere perché non aveva di che mangiare. Anche questo è un aspetto reale della crisi economica che ha colpito molti strati della popolazione e vasti settori della marginalità sociale, come detenuti ed ex detenuti”.

Lo rende noto il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), Donato Capece, raccontando un episodio avvenuto qualche giorno fa in Toscana. “Il detenuto, in un orario in cui gli era permesso uscire da casa, è andato in carcere ed ha chiesto di essere rimesso in cella nell’istituto. “A casa non ho da mangiare”, ha detto agli Agenti di Polizia Penitenziaria stupiti dall’insolita richiesta. In detenzione nell’istituto di pena ha ovviamente diritto ai pasti e alla colazione e questo sarebbe stato il motivo per cui ha chiesto di essere riassociato in carcere. Il magistrato competente, immediatamente contattato dai poliziotti penitenziari di servizio, non ha però ravvisato motivi validi per una nuova carcerazione”.

“Quanto avvenuto ad Arezzo”, conclude Capece, “dimostra quali possono i reali e concreti problemi della marginalità sociale nella quale si trovano spesso i detenuti e dovrebbe far capire il perché spesso alcuni di loro, senza lavoro e senza aiuti sociali sul territorio, non recidono mai definitivamente i lacciuoli che li legano alla criminalità ed alla delinquenza. Non è e non può essere una giustificazione, ma è un dato oggettivo. Anche autorevoli esperti hanno accertato che dall’inizio della crisi economica e la conseguente crescita della disoccupazione i detenuti italiani sono aumentati con un ritmo molto più sostenuto rispetto a quello degli stranieri”.

Carceri : Violentavano i detenuti stranieri. Arrestati due Agenti di Polizia Penitenziaria a Modica


Due Assistenti Capo della Polizia Penitenziaria in servizio nel Carcere di Modica sono stati arrestati dai Carabinieri del Comando Provinciale di Ragusa per abusi sessuali su alcuni giovani detenuti stranieri. Avrebbero minacciato le vittime di fare trovare droga nei loro vestiti o nelle celle se si fossero opposti, “gratificando” chi, invece, cedeva, con “regali” come droga e sigarette. Le indagini sono state avviate dopo una denuncia dell’Amministrazione Penitenziaria di Ragusa.

I due assistenti capo della Polizia Penitenziaria di Modica, A.L. e F.C., 45 anni, sono stati posti agli arresti domiciliari e sono indagati dalla Procura di Modica per concussione e violenza sessuale, continuata e aggravata, e spaccio di sostanze stupefacente. I due sono stati arrestati all’alba dai Carabinieri del Comando provinciale di Ragusa perché accusati di aver abusato in periodi diversi, tra maggio del 2012 e del marzo 2014, di alcuni giovani detenuti stranieri costringendoli a subire umilianti atti sessuali di varia natura, dietro minacce.

In caso di rifiuto della “vittima” prescelta il carcerato sarebbe stato minacciato di gravi ritorsioni come quello di fargli allungare i tempi della detenzione con nuove accuse: avrebbero nascosto droga nei suoi vestiti o nella sua cella, accusandolo di esserne il possessore. Chi invece accettava le avances sarebbe stato ricompensato con alcuni “regali” come dosi di hashish, sigarette, tabacco e altri prodotti difficili da trovare in una prigione. E’ tra l’altro emerso che i due sottufficiali della polizia penitenziaria si spartivano i reclusi tra loro, scegliendoli tra quelli virilmente piu’ dotati, preferibilmente stranieri e, sfruttando momenti particolari in cui i detenuti erano da soli, li palpeggiavano e li costringevano a rapporti sessuali di varia natura. Numerosi gli episodi che i carabinieri hanno documentato e che sono ora agli atti dell’inchiesta. Le indagini dei carabinieri sono scaturite dalla denuncia dell’Amministrazione penitenziaria di Ragusa.

Osapp: epurare da “mele marce” il Corpo di Polizia penitenziaria tutela legalità

L’arresto di due assistenti capo di Polizia Penitenziaria in servizio nella Casa Circondariale di Modica è un episodio gravissimo, ma non può e non deve minare l’immagine del Corpo che quotidianamente è impegnato per assicurare la sicurezza penitenziaria. Lo afferma il Segretario Generale aggiunto dell’Osapp, Domenico Nicotra. Evidente – osserva il sindacalista – che episodi del genere vadano immediatamente sanzionati epurando dalle “mele marce” il Corpo di Polizia penitenziaria che quotidianamente è espressione di legalità nelle patrie galere.