Venezia: “nelle celle non entrano luce e aria…” sopralluogo Spisal a Santa Maria Maggiore


carcere5I tecnici dell’Ulss 12 hanno analizzato le condizioni di reclusione dei detenuti. Produrranno una relazione su cui si baserà il Tribunale.

Sopralluogo dei tecnici dello Spisal ieri mattina al carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia. Motivo? Capire se effettivamente la luce che raggiunge le celle sia sufficiente per ogni detenuto. Alle 10.30, dunque, hanno raggiunto la casa circondariale lagunare un medico e i rappresentanti del servizio dell’Asl per la sicurezza sui posti di lavoro per capire effettivamente le condizioni di detenzione. Tutto ciò sulla base di una denuncia di alcuni avvocati che hanno preso le difese di alcuni carcerati, secondo cui ci sarebbe una grave mancanza di luce e aria nelle celle: le grate rivolte verso l’alto e i vetri opachi renderebbero difficoltosa la lettura e avrebbero causato vistosi cali della vista.

In definitiva le condizioni diventerebbero accettabili solo durante le giornate di sole. Come oggi, tra l’altro. Un dettaglio sottolineato dai legali difensori dei carcerati. È stato il presidente del Tribunale di Sorveglianza Pavarin a disporre il sopralluogo, sulla cui base lo Spisal produrrà una relazione da consegnare entro fine luglio. Un mese più tardi, poi, l’udienza in Tribunale.

Nel mirino anche il sovraffollamento della struttura: la prima sezione penale della Corte di cassazione ha ribadito che lo spazio a disposizione di ogni detenuto deve essere di un minimo di sette metri quadrati al netto degli ingombri. Niente armadi o letti, dunque. Una situazione cui dovrebbe adeguarsi anche la Casa circondariale lagunare. Anche questo frangente è stato controllato lunedì mattina. Ma già in precedenza l’amministrazione penitenziaria aveva presentato una memoria affermando di non avere strumenti per far fronte alla carenza di spazi.

Venezia Today, 10 giugno 2014

Caso Uva, il Pm chiede il proscioglimento di Carabinieri e Poliziotti dall’accusa di Omicidio


giuseppe-uvaAl via il processo per la morte dell’uomo arrestato nel 2008 da 6 poliziotti e un carabiniere. La procura chiede il proscioglimento degli imputati dall’accusa di omicidio preterintenzionale.

È un inizio amaro per il processo Uva. La prima udienza davanti al gup di Varese finisce con il procuratore Felice Isnardi che chiede il proscioglimento dalle accuse di omicidio preterintenzionale e arresto illegale dei sette uomini in divisa (un carabiniere e sei poliziotti) imputati per la morte di Giuseppe Uva, avvenuta il 14 giugno del 2008 dopo che l’uomo era stato arrestato e portato in caserma. L’accusa ha chiesto il rinvio a giudizio solo per l’abuso di autorità, un reato che, secondo le parole dello stesso pm, “non ha alcuna attinenza con l’evento morte”.

Parole che hanno lasciato parecchio perplessi i familiari di Giuseppe Uva. “Siamo decisamente sorpresi – dice l’avvocato Fabio Anselmo -, non si riesce a capire perché l’abuso di potere è stato contestato e tutto il resto, che è comunque attinente, no. Una decisione del genere non se l’aspettavano nemmeno gli imputati, ma si tratta delle richieste della procura, noi confidiamo nella decisione del giudice”. Il prossimo appuntamento in aula è fissato per il 30 giugno.

Il tribunale, intanto, ha deciso di accettare i sette nipoti di Uva come parti civili, mentre ha respinto la stessa richiesta avanzata dall’associazione “A Buon Diritto”, presieduta dal senatore del Pd Luigi Manconi. Intanto, la settimana prossima sarà Lucia Uva a doversi presentare davanti al giudice per il processo che la vede imputata per diffamazione nei confronti gli agenti.

L’intreccio giudiziario, a questo punto, si fa complicato: uno dei carabinieri ha chiesto di essere processato con rito immediato (dunque, dovrà rispondere di tutti i reati presenti nell’imputazione coatta formulata qualche mese fa dal gip Giuseppe Battarino), mentre gli altri sette aspettano e sperano: l’abuso di autorità rimane un reato meno grave dell’omicidio preterintenzionale. È un bel pasticcio procedurale; per lo stesso fatto rischiano di esserci due processi diversi, con differenti capi d’imputazione.

Poi, il pm Isnardi è lo stesso che, tre settimane fa, decise di ammettere come testimone la donna che alla trasmissione “Chi l’ha visto” sostenne che Uva fosse stato picchiato anche in ospedale. Tra le ipotesi più accreditate, allo stato attuale delle cose, c’è che l’accusa abbia scelto di contestare un reato per il quale ha maggiori possibilità di arrivare a una condanna. Un discorso che almeno dal punto di vista della strategia processuale ha una sua logica, ma che tuttavia lascia senza risposta la domanda fondamentale: come si spiega allora “l’evento morte” di Giuseppe Uva?

Nell’aprile del 2012 arrivò a sentenza il processo nel quale l’accusa ipotizzava il decesso per un incredibile caso di malasanità, talmente incredibile che il medico Carlo Fraticelli venne assolto perché “il fatto non sussiste”, con il giudice Orazio Muscato che ordinò alla procura di indagare su quanto successo nella caserma dei carabinieri di via Saffi.

I pm Agostino Abate e Sara Arduini, dal canto loro, per due volte nel giro dell’anno successivo arrivarono a chiedere l’archiviazione per le posizioni degli agenti, e alla fine il gip Battarino ci pensò da sé a formulare una richiesta di imputazione coatta per i reati di omicidio preterintenzionale, arresto illegale e abbandono d’incapace. Così, Abate e Arduini furono sostituiti da Isnardi, il Csm aprì un’inchiesta sulle modalità delle indagini condotte fino a quel punto, e tutto lasciava presagire che, finalmente, sarebbe cominciato un processo vero che avrebbe fatto luce su quello che è accaduto durante l’ultima notte di Uva.

Adesso, ogni cosa sembra tornata al punto di partenza: il caso resta un’odissea giudiziaria e la verità continua ad allontanarsi.

Sono passati sei anni ormai dalla morte del 42enne artigiano, e la prescrizione appare ormai dietro l’angolo. Con l’accusa di omicidio preterintenzionale, la ex Cirielli avrebbe allungato di almeno un anno il processo: un margine che sarebbe comunque strettissimo per attraversare tre gradi di giudizio, ma adesso il rischio è che non si riuscirà a concludere il primo processo. Tutto è nelle mani del gup di Varese, sarà lui che dovrà decidere se nasce o se muore il processo Uva.

Caso Magherini: denunciate “pressioni” dai carabinieri

Testimoni che raccontano di essere stati intimiditi dai carabinieri e un file contenente una registrazione con i dialoghi tra i volontari e centralinisti della Croce rossa che la procura non consegna ai familiari di Riccardo Magherini. Sono sempre di più le anomalie nell’inchiesta sulla morte dell’ex calciatore della Fiorentina, morto la notte del 3 marzo scorso dopo essere stato fermato dai carabinieri. Ieri si è tenuta a Firenze una manifestazione organizzata dalla famiglia per ricostruire le ultime ore di vita di Riccardo e non sono mancate le sorprese.

Tra queste c’è un file audio in cui gli operatori della Cri intervenuti a Borgo San Frediano la notte del 3 marzo discutono con il centralino sugli orari dell’intervento. Quando l’avvocato Anselmo, legale della famiglia Magherini, ha chiesto alla procura le registrazioni telefoniche di quella notte, ne ha ricevute solo 13.

Il 14eseimo file, quello che sembrerebbe essere più interessante, è spuntato fuori solo in seguito e solo perché consegnato alla famiglia dalla Asl. Ieri sono state presentati anche i racconti di due testimoni, due donne che hanno detto di aver subito pressioni dai carabinieri che le interrogavano. Una, in particolare, ha ricordato di aver detto e chiesto che venisse messo a verbale che i carabinieri avevano preso a calci Magherini quando si trovava a terra, ma che i militari hanno verbalizzato sue parole solo dopo le sue insistenze.

di Mario Di Vito

Il Manifesto, 10 giugno 2014

Agnese Moro: “Mai più ergastoli. Sono contrari alla Costituzione”


Agnese Moro“L’ergastolo è come dire a una persona: ti vogliamo buttare via. Ma io non voglio buttar via nessuno”. Parla Agnese Moro. Pronuncia parole che riportano al passato e alla storia. Il suo non è un cognome qualunque.

“Si pensa che chi ha subìto un torto molto grave sia ripagato dalla pena inflitta al colpevole. Ma la mia esperienza personale mi ha insegnato altro”.

Ci vogliono anni per giungere al perdono

9 maggio 1978. Sono passati 55 giorni dal rapimento: in via Caetani viene ritrovata quella Renault 4 rossa. La figlia dello statista ha 25 anni. “All’inizio nella testa e nel cuore c’è solo confusione – spiega, l’accento romano, la voce lieve. Si vive sospesi non si riesce a ragionare. Ci vogliono molti anni per superarlo. Ma poi nel tempo si riflette, si capisce: la persona che ti è stata portata via non ti verrà restituita punendone un’altra. Così ho deciso”. Agnese Moro ha perdonato da tempo chi gli ha strappato suo padre e ha soffiato via la vita di cinque uomini della scorta. “Incontrare quelle persone mi ha aiutato moltissimo – racconta, riferendosi ai brigatisti – Nella mia mente vorticavano solo immagini mostruose, pensavo a qualcosa di onnipotente, di enorme. Invece ho capito che avevano un volto e avevano delle storie. Che erano esseri umani. E che sarei stata più felice se fossero riusciti a cambiare e a fare qualcosa di buono per la società”.

In visita presso “Ristretti Orizzonti”, primo giornale nato dietro le mura di un carcere

Moro ha rimesso insieme i pezzi della sua vita e ha perdonato. “Non dico che sia stato facile, il dolore non se ne va mai – sussurra – ma ogni incontro, ogni riflessione aggiunge un pezzetto”.

Venerdì 6 giugno è intervenuta al convegno “Senza l’ergastolo. Per una società non vendicativa”, organizzato all’ interno della casa di reclusione di Padova dalla redazione di Ristretti Orizzonti. Che, dal 1997, mette insieme alcuni detenuti del regime di alta sicurezza per far uscire dal carcere un giornale oggi seguito da migliaia di persone, online e su carta. “Agnese Moro è venuta in redazione e ha incontrato persone che hanno ucciso e commesso delitti gravi.

E a loro ha detto “non mi sentirei mai meglio a vedere qualcuno morire dietro le sbarre” – racconta Ornella Favero, direttrice della rivista. È da lì che partiremo domani, dall’idea di una giustizia mite e dalla necessità di misure alternative all’ergastolo: rieducative e integrative”.

“Credo che il carcere a vita non debba esser dato per scontato solo perché esiste da sempre – afferma Moro – penso che sia un’idea contraria alla nostra Costituzione. L’articolo 27 recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ecco, l’ergastolo non rieduca, non prevede un ritorno. Abbandona”.

di Alice Martinelli

Corriere della Sera, 10 giugno 2014

Senza l’ergastolo. Per una società non vendicativa. Convegno al Carcere di Padova


radioradicale logoConvegno promosso nell’ambito della Giornata Nazionale di studi dal titolo “Le pene estreme: ergastolo e tortura. Per una critica della penalità” promosso da Ristretti Orizzonti, dal Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA) e dal Corso Di Sociologia della Devianza, di Sociologia del diritto e Master in Criminologia Critica dell’Università di Padova, dall’Associazione Antigone per i diritti e le garanzie nel sistema penale e dall’Unione delle Camere Penali Italiane.

Padova 6 Giugno 2014

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